venerdì 23 ottobre 2009

Arancia Meccanica


A Clockwork Orange (Arancia meccanica, 1971) Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura: Stanley Kubrick, dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess Fotografia: John Alcott Montaggio: Bill Butler Scenografia: John Barry Arredamento: Russell Hagg, Peter Sheilds Costumi: Milena Canonero Musica: Rossini, Beethoven, Purcell, e altri. Interpreti: Malcolm McDowell (Alex), Patrick Magee (lo scrittore), Adrienne Corri (moglie dello scrittore), Michael Bates (capo delle guardie), Anthony Sharp (ministro dell'Interno), Godfrey Quigley (cappellano della prigione), Warren Clarke (Dim), Miriam Karlin (la signora dei gatti), Paul Farrell (il vagabondo), Philip Storie (padre di Alex), Sheila Raynor (madre di Alex), Aubrey Morris (signor Deltoid), Carl Duering (dottor Brodsky), Steven Berkoff (poliziotto), David Prowse (Julian), Michael Tarn (Pete) Durata: 137 minuti
“Arancia meccanica” non è un film per tutti. Purtroppo l’hanno visto tutti, l’hanno visto in troppi verrebbe da dire. E’ il discorso opposto a quello che si potrebbe fare, per esempio, con “L’istruttoria” di Peter Weiss: che non è un film ma una composizione per il teatro, dove – se andate a vederlo – troverete sempre un sacco di brave persone già più che sensibilizzate all’argomento, ma non troverete mai i negazionisti, i naziskin e i nostalgici del Buce. Ci sono persone che non leggerebbero mai, nemmeno sotto tortura, Platone o Plutarco; né tantomeno prenderebbero in mano un libro, se non per scagliarvelo contro.
Queste persone guardano le figure, di più non possono fare; capiscono quello che arrivano a capire, e se gli mettete davanti la Cappella Sistina vi diranno che è piena di nudi, perché fin lì ci arrivano e queste cose le capiscono. Magari i nudi di Michelangelo gli piaceranno, magari no: in ogni caso non andranno oltre ai commenti sui nudi. Se per caso leggono Goethe decidono che è osceno e lo vietano; se leggono Dante decidono che è una palla (pardon: una gran palla) e lo butteranno via alla prima occasione, chiedendosi perché mai lo insegnino a scuola. Non è una colpa essere ignoranti: è una colpa esserne fieri. Una volta, persone come queste erano scusabili, oggi non più: oggi se uno è ignorante è proprio perché vuole esserlo. Una volta, gli ignoranti erano simpatici: li trovavi magari al bar, davanti ad un buon bicchiere, erano divertenti. Oggi gli ignoranti (coloro che sono fieri di non conoscere, e si vantano di non aver mai letto un libro) li si trova in Parlamento e nei consigli comunali, si occupano della programmazione delle tv, dirigono giornali di successo, e anche con internet cominciamo ad essere messi male.
“Arancia meccanica” è un capolavoro, ma non è per tutti. Pur con tutti i distinguo che fa l’autore (gli articoli di Burgess sono qui sotto) non si può non ammirare la perfezione formale che ha dato Kubrick al racconto, la simmetria perfetta tra le parti del film, la perfezione delle scenografie (lo scenografo è lo stesso di Odissea nello spazio). Certo, è un film con molte scene violente: e la violenza girata dalla mano di un maestro è ancora più impressionante, così come sono impressionanti i nudi di Michelangelo. Le persone adulte e responsabili le troveranno più o meno piacevoli, più o meno giuste nel contesto del film; altri, di questo film e di questo ragionamento così complesso sulla natura dell’uomo e sul libero arbitrio, terranno a mente solo quello che riescono a capire: gli stupri, i nudi, la violenza. Il mondo funziona anche così: non va solo avanti, va anche all’indietro.


Metto qui di seguito alcuni interventi di Anthony Burgess, autore del libro e inventore del personaggio di Alex. Penso che siano importante per la comprensione del film (ammesso che lo si voglia capire).

Ritorno al futuro. Alex e i suoi compagni arrivano in teatro, trent'anni dopo l'uscita del romanzo. Burgess li presenta così.
2004, ODISSEA NELL'ARANCIA
di Anthony Burgess, corriere della sera 21 gennaio 1990
Debutta in prima mondiale venerdì 26 al Barbican Theatre di Londra "A Clockwork Orange 2004". Lo spettacolo, prodotto dalla Royal Shakespeare Company, è la riduzione per la scena del fortunato romanzo di Anthony Burgess adattato in forma teatrale dal suo stesso autore. E' una rivisitazione, a quasi trent'anni di distanza (il libro uscì nel 1962) delle celebri avventure di Alex e della sua banda. La regia della commedia è firmata da Ron Daniels, la musica è di The Edge degli U2 e il ruolo di Alex è interpretato da Phil Daniels. Qui sotto pubblichiamo il testo che Burgess stesso ha scritto per presentare al pubblico la nuova versione della sua opera.
Qualche anno fa, ho pubblicato una breve riduzione teatrale del mio romanzo Un'arancia a orologeria, con i testi e i suggerimenti per la colonna sonora (Beethoven, principalmente). Questo non perché io ami quel mio libro di un amore così appassionato, ma perché sono ventotto anni che vari gruppi pop dilettanti mi assillano chiedendomi l'autorizzazione a mettere in scena una loro versione. Ma queste sono, di solito, così terribili che mi sono trovato costretto, a un certo punto, a scriverne una di mio pugno, per prevenire ulteriori perversioni. Ora il testo definitivo è finalmente pronto, ed è quello presentato dalla Royal Shakespeare Company. Ron Daniels, che la dirige, mi ha dato un grande aiuto trasformando il romanzo in un'opera drammatica adatta al più vasto pubblico, e desidero ringraziarlo di cuore per l'ottimo risultato e per la grande energia che ha dedicato ad un'impresa tutt'altro che facile. L'origine del titolo è ormai nota: A clockwork orange è un'antica espressione cockney che si usa per tutto ciò che è "queer", cioè al tempo stesso bizzarro e ambiguo - un'ambiguità che non comporta, necessariamente, una connotazione omosessuale. In effetti, niente può essere più singolare di un'arancia a orologeria. Quando insegnavo inglese in Malesia e chiedevo ai miei studenti di raccontare in un tema una giornata passata nella giungla, essi spesso facevano un curioso errore e raccontavano di aver portato con sé una "orang squash", invece della "orange squash", cioè la spremuta di arancia. "Orang" è una parola malese molto comune e significa essere umano. Le due espressioni, quella malese e quella cockney, si sono fuse nella mia mente, e hanno dato vita ad un'immagine di un essere umano succoso e dolce, come le arance, ma costretto alla condizione di un oggetto meccanico.
Questo è quello che accade al mio giovane delinquente Alex, la cui dolce e succosa criminalità, che egli si gode pienamente, viene abolita da un programma di condizionamento, che annulla la sua volontà - quella stessa volontà che gli permetteva di essere un delinquente, ma anche, se lo desiderava, un onesto adolescente provvisto di notevole talento musicale. Il mio giovanotto ha peccato, ma il vero male è, in realtà, proprio nel processo che ha annientato il suo peccato: Alex è costretto ad assistere alla proiezione di filmati violenti mentre una droga iniettata nelle vene gli provoca conati di vomito. Ma i film sono accompagnati da una musica fortemente emozionante, e il giovane è condizionato a reagire con la nausea sia all'ascolto di Mozart e Beethoven, sia alla contemplazione della violenza. La musica, che dovrebbe essere un paradiso neutrale, viene trasformata in un inferno.
Ma quella che potrebbe sembrare una celebrazione della violenza - con molta più forza sul palcoscenico che nel libro, o nel film che ne ha tratto Stanley Kubrick (ora inspiegabilmente vietato in Gran Bretagna) - è invece una ricerca sulla vera natura del libero arbitrio. Si tratta, infatti, di un vero e proprio dramma teologico: se gli esseri umani sono incapaci di compiere il male, essi sono anche incapaci di compiere il bene, perché entrambi dipendono da quello che Sant'Agostino chiama "liberum arbitrium", cioè la libera volontà. Che ci piaccia o no, il potere della scelta morale è quello che ci rende esseri umani. Ma perché la scelta morale possa esistere, ci devono essere oggetti opposti di scelta: in altre parole, deve esistere il peccato, ma anche il bene. E ci deve essere un'area dove non sia applicata la scelta morale - quella zona neutrale nella quale beviamo vino, facciamo l'amore e ascoltiamo la musica. Ma questa zona neutrale può diventare, troppo facilmente, una zona morale: passiamo buona parte della nostra vita - o dovremmo farlo - a compiere scelte morali.
Da quando è uscito Una arancia a orologeria nel 1962, mi tortura il pensiero che, in realtà, esistono due libri diversi - uno americano ed un altro per il resto del mondo. L'edizione britannica, infatti, ha ventuno capitoli mentre quella americana, almeno finora, ne ha solo venti. Al mio editore americano non è piaciuto il finale: lo riteneva troppo britannico e troppo molle. Questo vuoi dire che trovava qualcosa di non plausibile - o forse semplicemente non vendibile nella mia tesi secondo la quale gli adolescenti più intelligenti, tra quelli dediti alla violenza insensata e al vandalismo, smettevano al primo assalto della maturità. Questo succede perché la gioventù ha molta energia, ma raramente sa come impiegarla.
Ai giovani non si insegna - e lo si fa sempre meno - a mettere l'energia al servizio della creazione (scrivere un poema, costruire la cattedrale di Salisbury con i fiammiferi o imparare l'ingegneria elettronica). Di conseguenza, la gioventù è capace di usare questa energia solo per picchiare, prendere a calci, sfregiare, stuprare o distruggere. Le nostre cabine telefoniche sono un palese monumento ai peggiori istinti della gioventù. Alla fine di questa commedia, si dovrebbe vedere Alex crescere, innamorarsi, contemplare l'idea di un'eventuale paternità in altre parole diventare un uomo. La violenza, egli scopre, è cosa da bambini. Ma il mio editore americano non ha amato questo finale e Stanley Kubrick naturalmente ha ricavato il suo film dall'edizione americana, ignorandone completamente l'esistenza. Ecco perché il film ha sconvolto i lettori europei del romanzo: bisogna decidere quale finale si preferisce.
Un'ultima cosa. L'anno 1990 è pieno di aspettative per un brillante futuro europeo. Il Muro di Berlino è crollato, Michail Gorbaciov predica la perestrojka (una parola che il giovane Alex è destinato a conoscere, dato che buona parte del suo vocabolario è russo) e il Tunnel sulla Manica sta scavando la sua strada verso il continente. Stiamo diventando, almeno per quello che riguarda la politica, ottimisti. Ma Ron Daniels, insieme ai suoi attori di talento, ed io stesso, suggeriamo con discrezione che la politica non è tutto. Era questa, almeno in parte, l'essenza del mio libro.
Il giovane Alex e i suoi amici parlano un misto dei due principali linguaggi politici del mondo - angloamericano e russo - e questa era un'intenzione ironica, vista la loro totale estraneità al mondo della politica. I problemi del nostro tempo non hanno niente a che fare con le organizzazioni politiche ed economiche, ma con quello che si usa chiamare "il vecchio Adamo". Cioè, se volete, il peccato originale. Ovvero, la brama del possesso, l'avidità, l'egoismo. E, soprattutto, l'aggressione per il gusto puro e semplice della violenza. Qual è lo scopo del terrorismo? La risposta è: il terrorismo. Alex è un esemplare giovanile, buono o cattivo che sia, di uomo eterno. Ecco perché chiama tutti fratelli.
Non ho dubbi che, con questa nuova versione del mio libriccino, mi si accuserà di promuovere altra violenza nei giovani. Un uomo che aveva ucciso suo zio diede tutta la colpa alla lettura dell'Amleto di Shakespeare. Un ragazzo che aveva cavato gli occhi a suo fratello diede la colpa a un'edizione scolastica di Re Lear. Gli autori letterari sono sempre stati accusati di aver inventato il male. Il loro vero compito, o meglio uno dei tanti, è proprio quello di mostrare che il male esiste da molto tempo, da molto prima che essi prendessero in mano per la prima volta una penna o un word processor. Se uno scrittore non dice la verità, è meglio che non scriva affatto. Questa che state guardando è la verità.
(traduzione di Marina Mei Gentilucci)


Anthony Burgess confessa di non poter più difendere, nell'era del video,
il suo romanzo e il film che ne trasse Kubrick
"ARANCIA MECCANICA" E' VIOLENTA? SI', SONO COLPEVOLE
"Il sangue scorre anche nella Bibbia e in Shakespeare. Ma la pubblicità è peggio."
di Anthony Burgess, corriere della sera 25 marzo 1993
Anche se Evelyn Waugh affermò che il cambiamento è una caratteristica dell'esistenza umana, le sue rigide opinioni non furono mai addolcite da questa massima. Ci sono alcune convinzioni alle quali ci aggrappiamo e a cui non permettiamo di abbandonarci: alla mia età, l'abbandono di una convinzione che faceva parte del mio essere deve essere considerato una sorta di indulgenza. Parlo della convinzione che le arti, incluse quelle minori, fossero inviolabili: che esse non potessero mai venire accusate di esercitare un'influenza morale o immorale e che esse fossero incorrotte, incapaci di corrompere e incorruttibili. Ho cambiato opinione in proposito abbastanza di recente.
Questo atteggiamento protettivo nei confronti dell'arte in realtà non era altro che un mio desiderio di giustificare gli elementi corrotti esistenti nella più grande letteratura di tutti i tempi, quella del palcoscenico elisabettiano. Era un desiderio quello di non considerare Shakespeare uno scrittore violento. Una delle sue tragedie che probabilmente non vedremo mai più rappresentata sui palcoscenici e che, di certo, non vedremo mai adattata sul piccolo schermo, è "Tito Andronico". Con i suoi stupri di gruppo, le mutilazioni, le scene di cannibalismo e con la carneficina finale, essa raggiunge un livello confacente solo al più depravato film pornoviolento dei giorni nostri: il fatto che essa sia il prodotto dello scrittore più stimato che sia mai vissuto non mitiga l'opportunismo dozzinale di questa opera. Anche in "Re Lear", l'asportazione degli occhi del Conte Gloucester sembra una concessione gratuita alla depravazione degli spettatori ("Fuori, vile gelatina").
Nella "Tragedia spagnola", Thomas Kyd a Hieronimo fece tagliare a colpi di morsi la propria lingua anche se questo era un gesto troppo inverosimile per essere preso sul serio. La "Tragedia spagnola" in ogni caso è la progenitrice, assieme al latino Seneca, della tradizione della Tragedia del Sangue, alla quale "Re Lear" e "Amleto" appartengono. E più grande dramma di tutti i tempi fu immerso nel sangue e storpiato dalla violenza.
Si può affermare l'impossibilità dell'esistenza di un dramma che non contenga la violenza. Una rappresentazione teatrale, persino una commedia, si basa sul gioco degli antagonismi e quest'opposizione può essere omicida. L'antagonismo deve essere risolto attraverso il pianto o il riso: è solo questo che costituisce la trama. I romanzi melliflui di Jane Austen o di una Barbara Pym si basano su un'opposizione civile che può essere risolta attraverso la ragione; il concepimento di una trama nella quale gli antagonismi si accendono senza che un solo atto violento venga sferrato richiede un'immensa integrità artistica. Nella nostra era, almeno, la violenza fisica è monopolio dell'artista minore.
Affronterò adesso un argomento per me delicato. Riconosco di essere stato responsabile, come chiunque altro, del culto della violenza che ha caratterizzato gli ultimi trent'anni. Nel 1962 pubblicai un romanzo intitolato "Arancia meccanica" in cui l'interesse era rivolto ai metodi di repressione della violenza giovanile piuttosto che alla glorificazione dell'atto aggressivo. Dieci anni dopo la pubblicazione - anni caratterizzati da critiche perplesse e da un esiguo numero di lettori - Stanley Kubrick adattò il libro al grande schermo piuttosto brillantemente. La sua versione differiva dall'originale in quanto il regista enfatizzava l'aspetto visivo mentre io ero stato particolarmente attento a convertire in sonorità - nello specifico, i suoni di una lingua inventata - i cliché della confusione e del delitto.
Sia nel libro sia nel film il protagonista, attraverso il lavaggio del cervello, veniva trasformato da un individuo amante della violenza in un automa che vomita al solo comparire di un pensiero violento. La domanda era questa: è ammissibile sopprimere la libera volontà per assicurare la stabilità della società?
Tra gli spettatori del film non furono in molti che si resero conto dell'interrogativo: la maggior parte era troppo eccitata dalla violenza per riflettere sulla filosofia del concetto. Come sappiamo, Kubrick e incidentalmente io stesso fummo accusati di aver raffazzonato qualcosa che assomiglia alla pornografia violenta; Kubrick ricevette dure minacce da alcuni nemici della violenza; in Gran Bretagna, diversamente dagli altri Paesi, il film venne ritirato e, non essendo stato possibile vederlo, "Arancia meccanica" si è guadagnato una reputazione ancor peggiore di quella che merita. Ma, soprattutto, un grande artista cinematografico ha ammesso dinnanzi al mondo che l'arte può essere dannosa.
Se "Arancia meccanica" può corrompere, perché non lo possono fare la Bibbia e Shakespeare? E, invero, perché no? Ricordo di essere tornato a Londra da New York con un paio di premi ricevuti dal New York Critic's Circle e di essere stato inviato a difendere il film in un programma radiofonico condotto da Sir James Savile, ai quei tempi un ufficiale dell'Ordine dell'Impero Britannico. Notate che l'unico tipo di approccio al film fu di attacco o di difesa: un sereno giudizio estetico allora sembrava essere fuori luogo. La mia linea di difesa fu che l'azione era anteriore all'arte, che l'aggressività era insita nell'uomo e che, quindi, non poteva essere insegnata da un libro, da un film, o da un dramma.
Se si desiderava credere che un libro potesse istigare alla violenza, allora la Bibbia, considerata l'espressione della Parola di Dio, poteva costituire il primo esempio. Dagli USA giungeva la notizia secondo la quale gruppi di quattro giovani vestiti bizzarramente come i protagonisti di "Arancia meccanica" avevano stuprato delle suore a Poughkeepsie, mentre a Indianapolis avevano picchiato degli anziani. Continuai a negare la possibilità che il film avesse potuto istigare i giovani alla violenza, ma non ero del tutto sincero: era Shakespeare che stavo difendendo.
Dal film "Arancia meccanica" la gioventù non apprese l'atto aggressivo: essa era già aggressiva. Ciò che imparò fu uno stile di aggressione, un modo nuovo di abbigliarsi per far violenza, una salsa piccante per condire un'insalata fatta di calci, percosse e colpi di lama di rasoio. Un prodotto artistico ha una qualità autorevole, uno slancio giustificativo che garantisce virtù all'imitazione. Noi sappiamo, anche se non lo vorremmo, che l'offerta di Abramo di sacrificare il proprio figlio al Signore è stata adottata per giustificare l'infanticidio e che l'atto del pluriomicida Haigh di bere il sangue delle proprie vittime aveva le sue origini in una devozione maniacale nel sacramento dell'Eucaristia. Forse una persona può vedere "Amleto" e poi fare cosa ha rimandato di fare: uccidere, cioè, il proprio zio. Non sappiamo se "Il silenzio degli innocenti" abbia promosso il cannibalismo o la folle carneficina del suo protagonista.
Ci inchiniamo adesso, in ogni caso, dinnanzi a una tesi che pensavo non avrei mai accettato, quella della pericolosità dell'arte. Ai tempi dei Moors Murders (Assassini delle paludi), quando l'omicida Brady ammise di poter essere stato influenzato da "Justine" del Marchese de Sade, l'ultima Lady Snow disse che se il rogo di tutti i libri esistenti al mondo fosse stato necessario per risparmiare la morte di un bambino, noi non avremmo dovuto esitare ad incendiarli (naturalmente, le pellicole cinematografiche produrrebbero una fiamma migliore).
Il discorso sta andando troppo oltre: ma io sto iniziando ad accettare il fatto che, quale romanziere, appartengo al rango dei pericolosi. Ero solito considerarmi un innocuo arrivista della penna.
Composta prevalentemente da film narrativi e dal libero sfogo dell'impressionante, l'interrogativo su fino a che punto la televisione possa essere un agente di corruzione è divenuto pressante. Con la sua trasformazione in una sorta di museo dei film e in bacheca per telefilm prodotti con pochi soldi, il mezzo di comunicazione televisivo ha già tradito parte della sua funzione iniziale.
Negli Anni 50 la Bbc trasmetteva drammi, non lungometraggi. Gli spettacoli principali della serata erano Checov, Rattigan o persino Shakespeare, recitati dal vivo a intervalli. Il teatro veniva portato nei salotti e il teatro non ha mai permesso gli eccessi del cinema. I polizieschi americani che adesso affollano le ore oziose prima di andare a letto devono essere violenti ma la violenza del cattivo è bilanciata da quella del buono. Eppure dubito che la violenza di tali sceneggiati abbia un impatto reale: non ci sono esseri umani, ma solo assassini e poliziotti.
Di principio - ed è un principio che sono stato disposto ad accettare oltrepassati i cinquanta -sono favorevole alla censura ai danni del piccolo schermo, anche se ritengo che il pubblico si sia già sensibilizzato nei confronti della violenza in tv, una sensibilità che nella parte finale del film è pronta a dire: "Ne ho abbastanza, basta". E' improbabile che alcuni degli eccessi cinematografici vengano riprodotti sul piccolo schermo.
Devo confessare che negli ultimi vent'anni ho guardato la televisione in Francia e in Svizzera, con soggiorni occasionali a New York. La televisione, come è risaputo, è migliore in Gran Bretagna, ma non esiste una grande differenza qualitativa se uno attraversa l'Atlantico o le Alpi. La televisione mondiale è omogenea, impregnata cioè di innocui sceneggiati americani. Come gli alimenti che mangiamo a colazione, essa è melliflua e il suo aspetto negativo non è nella somministrazione di acute stoccate di violenza o di stimoli sessuali quanto piuttosto nel fatto che la televisione è un mezzo di espressione che può essere o non essere volgare. Quale semplice visitatore della Gran Bretagna sono spaventato dalla violenza della pubblicità che paga ciò che viene trasmesso prima o dopo, dall'avvilimento del linguaggio, dallo humour così scadente da far arrossire. Si rimpiangono i vecchi tempi, l'unico canale della Bbc, le rappresentazioni tranquille, la ruota della fortuna, il mulo Muffin. Adesso, invece, il desiderio di foraggiare cromaticamente ogni minuto della trasmissione porta a fare uso della violenza a basso costo. Non penso però ci sia nulla da temere.
Il pericolo della tv, soprattutto se i suoi standard vengono stabiliti virtualmente dagli interessi commerciali, è che essa sia agente del degrado sociale. Questo è ancor più spaventoso dell'eventualità che "Arancia meccanica" raggiunga lo schermo.
traduzione di Rossana Rapisarda

Un altro film cult torna d'attualità per i rimorsi di Burgess.
INTERVISTA AD ANTHONY BURGESS
di Luigi Amicone, Il Sabato 3 aprile 1993
Potenza degli archivi elettronici. Ci rammentano che il nostro incontro con Anthony Burgess risale al febbraio dello scorso anno. Il settantottenne scrittore inglese si trovava allora in Italia per presentare il suo ultimo libro (L'antica lama ), e in quell'occasione, prima di ripartire per Londra, nella hall di un albergo milanese, si concesse volentieri a una lunga conversazione. Di quel colloquio, uscì allora solo un estratto (Sabato febbraio '92), mentre l'intervista che vi presentiamo finì in un cassetto. E ciò anche per rispettare la volontà dello scrittore inglese, che a quel tempo iniziava a riflettere criticamente sul più violento e discusso dei suoi romanzi, A clockwork orange, pubblicato in Inghilterra (e subito messo all'indice dalla censura) nel 1962 e tradotto per la prima volta in Italia dieci anni dopo da Emaudi (Un'arancia ad orologeria). Nel 1972, il regista inglese Stanley Kubrick trasse dal romanzo di Burgess un grande film, Arancia meccanica, che è passato alla storia come un cult della cinematografia europea, sebbene (per espressa volontà del regista) sia stato ritirato dalle sale cinematografiche della Gran Bretagna fin dal lontano 1973.
La settimana scorsa, dalle colonne del Corriere della Sera, Anthony Burgess ha preso ufficialmente le distanze da questo suo profetico romanzo. Ecco come, un anno fa, Anthony Burgess aveva iniziato a pensare a una pubblica abiura del suo romanzo di maggior successo.
- Signor Burgess, in Inghilterra A clockwork Orange fu accolto da critiche durissime e rimane tutt'oggi un libro all'indice della censura. Come spiega questo ostracismo?
- Purtroppo il romanzo nella sua versione italiana non è bello, perché la traduttrice Floriana Bossi non ha osato tradurre alla lettera e ha utilizzato una specie di dialetto milanese che non rende l'originale. Il linguaggio del mio romanzo è un'invenzione totale in cui vengono mescolati insieme elementi anglo americani, russi, zigani. La versione italiana è troppo debole, troppo blanda. Nell'originale la lingua ha una forza particolare. Ho ritenuto necessario inventare questo linguaggio per congelare un po' la violenza, perché non volevo che i lettori la potessero vedere. Il libro non era un pezzo di pornografia, ma nel film tutto era troppo visibile. Però adesso sono io ad essere considerato il padrino della violenza, non Kubrick.
- E come giudica oggi questo suo romanzo di trent'anni fa?
- Vorrei dimenticarlo totalmente, ma non mi è possibile, perché i giovani continuano a leggerlo. Purtroppo.
- Anche in Russia...
- Sì, perché grazie alla glasnost oggi abbiamo anche una versione russa di A clockwork orange.
- Ricorda in quale occasione e perché ha scritto questo libro?
- L'ho scritto quando in Inghilterra si discuteva della concreta possibilità di introdurre nelle carceri i metodi neopavloviani. In Parlamento si sentivano interventi che sostenevano questa proposta. Dicevano che siccome le prigioni erano troppo affollate, sarebbe stato più utile cambiare la personalità dei delinquenti attraverso il condizionamento. Mi sembrava che ciò fosse il peccato più grave, più grave anche della violenza. Perché provocare la perdita totale del libero arbitrio è un'azione assolutamente condannabile. Naturalmente la mia è un'attitudine totalmente cattolica.
- Perché?
- Perché noi cattolici crediamo nel libero arbitrio, mentre l'inglese no, in generale non ci crede.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Discorso molto complesso, questo della violenza. Anche perché penso che tutti i film di Kubrick siano abbastanza violenti. Forse Kubrick (e lo stesso Burgess) intendeva così denunciare la stupidità della violenza ma, per contro, ha finito col darle una sorta di gloria epica. Nel pubblico c'è di tutto, compresa una buona fetta che non capisce che un buon film è - prima di tutto - un'opera d'arte.

Giuliano ha detto...

La conclusione a cui sono arrivato io è che non è un caso che Kubrick abbia girato così pochi film, dopo di questo. Penso che certe "reazioni entusiastiche" gli abbiano fatto molto male, e ci sono sue dichiarazioni in tal senso - poche perché parlava poco, ma ci sono. Del resto, basta leggere cosa dice Burgess per capire come sono andate le cose: è un po' come quei bei discorsi sulle arti marziali orientali come filosofia di vita - sì, qualcuno che la pensa così c'è... Ma anche questo è un discorso complesso.