Il tè nel deserto (The sheltering sky,
1990) Regia di Bernardo Bertolucci. Tratto da un romanzo di Paul
Bowles. Sceneggiatura di Mark Peploe e Bernardo Bertolucci.
Fotografia di Vittorio Storaro. Musiche di Ryuichi Sakamoto,
"Midnight sun" di Lionel Hampton, musica tradizionale
marocchina. Interpreti: Debra Winger, John Malkovich, Campbell Scott,
Timothy Spall, Jill Bennett, Nicoletta Braschi, Amina Annabi, Sotigui
Kouyaté, Eric Vu An, Paul Bowles, Enrico Maria Salerno (voce
narratore nella versione italiana). Durata: 2h12'
"Il tè nel deserto", uscito
nel 1990, si situa tra "L'ultimo imperatore" e "Il
piccolo Buddha", due dei più grandi successi internazionali di
Bertolucci, e rischia di uscirne un po' schiacciato, quasi
dimenticato. Tratto da un romanzo dell'americano Paul Bowles
(1910-1999, che recita se stesso nel film) racconta la storia di tre
viaggiatori (viaggiatori e non turisti, come si tiene a specificare
nei dialoghi) nel Sahara, partendo da Tangeri per inoltrarsi
nell'interno. E' una storia tragica, sia pure con momenti di
serenità; ed è anche la storia di amori e tradimenti, ma quello che
più conta, per Bowles e per Bertolucci, è proprio il perdersi, lo
smarrire la propria identità in un ambiente a noi straniero e ostile
nella sua natura.
"Il tè nel deserto" è la
storia di una deriva, di un naufragio e della conseguente deriva
della protagonista. Protagonista è una giovane donna di nome Kit,
interpretata da Debra Winger, che vedrà il marito (John Malkovich,
il nome del personaggio è Port) morire di tifo nel deserto, senza
poterlo salvare; inseguita e cercata dal loro comune amico Tunner,
si nasconderà da lui per lasciarsi andare definitivamente. Non
sappiamo che fine farà Kit: alla fine del film, anziché
riconsegnarla al povero Tunner che la stava cercando disperatamente,
Bertolucci la riporta a Paul Bowles in persona, come l'avevamo vista
nell'inizio del film, e nello stesso bar; è il personaggio che torna
all'autore, felice come se fosse tornata a casa. Siamo a 2h05'
dall'inizio:
- Si è perduta? - chiede la voce del
narratore, fuori campo.
- Sì...- risponde Debra Winger, e un
sorriso le illumina il volto, solo per un attimo.
E', con ogni evidenza, un
ricongiungimento; ed è della morte che si sta parlando, quel sorriso
appena percettibile, forse un anticipo del "Piccolo Buddha",
rivela l'anima che è tornata a casa. Del film e del suo soggetto, a
questo punto, non ci importa più; diventa tutto secondario.
Bertolucci ci mostra il volto silenzioso dell'autore, e la voce fuori
campo del narratore completa il discorso con le parole di Paul
Bowles:
- Poiché non sappiamo quando
moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo
inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un
numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo
pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così
profondamente parte di voi che senza di esso non riuscite neanche a
concepire la vostra vita... forse altre quattro o cinque volte, forse
nemmeno. Quante altre volte guarderete la luna? Forse venti...
eppure, tutto sembra senza limite.
A mio livello personale, ascoltando
queste parole mi sorge il ricordo di "L'invenzione di Morel",
di Adolfo Bioy Casares; ma non conosco Bowles e potrei sbagliarmi.
Qui finisce il film, a 2h12 finiscono
anche i titoli di coda.
Vedendo qui Bowles è quasi inevitabile
pensare a Omero, magari quello di Borges, immortale e smemorato come
gli immortali di Swift (I viaggi di Gulliver). Questa citazione si
ricollega alla riflessione dell'inizio del film, sempre con Bowles e
sempre nello stesso bar; è la breve apparizione di Nicoletta
Braschi, al minuto 8 dall'inizio:
- ... poiché né Kit né Port
avevano mai dato alla loro vita un qualsiasi ordine, avevano entrambi
commesso il fatale errore di considerare confusionalmente il tempo
come inesistente; un anno era come un altro, alla fine tutto sarebbe
potuto accadere.
Di seguito Port racconta un suo sogno,
dove non riesce a gridare, davanti a un muro di lenzuola; sua moglie
Kit lo legge come un presagio, si alza e si allontana. Siamo a
Tangeri, in Marocco, nel 1947, e i tre americani sono in viaggio di
piacere: il compositore Port (John Malkovich) e sua moglie Kit (Debra
Winger) più l'amico Tunner, giovane e bello, ricco e invadente.
Tunner è l'amante di Kit, Port lo sa o lo sospetta, e sarà proprio
per tener lontano Tunner che si troverà solo e malato in mezzo al
Sahara, febbre tifoidea. Kit lo aiuta, ma da sola non potrà far
altro che accompagnarlo verso la morte; da qui poi la sua deriva.
E' all'inizio del film la distinzione
fra turista e viaggiatore:
- Un turista è quello che pensa al
ritorno a casa fin dal momento in cui arriva, invece un viaggiatore
può anche decidere di non tornare affatto (minuto 4 dall'inizio)
Tunner è interpretato da Campbell
Scott, che scopro essere figlio di George C. Scott: alto ed elegante,
sottile, lineamenti fini, non gli somiglia affatto ed è difficile
rendersene conto (avrà preso dalla mamma?). E' il personaggio di cui
mi ero dimenticato prima di rivedere il film dopo tanti anni, così
come mi ero dimenticato dei Lyle, la madre scrittrice di libri di
viaggio e il figlio alcolizzato che le fa da autista, sempre in cerca
di soldi perché la madre lo tiene a stecchetto: due ottimi attori
inglesi, Jill Bennett e Timothy Spall, e due personaggi che svolgono
un ruolo importante nella storia raccontata. La voce del narratore,
cioè Paul Bowles, nella versione italiana è affidata a Enrico Maria
Salerno e nell'originale inglese è dello stesso Bowles.
Tra gli altri interpreti, oltre ad
Amina Annabi (difficile da dimenticare), si vedono brevemente Sotigui
Kouyaté, fresco reduce dal Mahabharata di Peter Brook, e il
ballerino dell'Opera di Parigi Eric Vu An, che è il fascinoso tuareg
del finale.
Vittorio Storaro, direttore della
fotografia, crea per "Il tè nel deserto" un altro dei suoi
capolavori, davvero un continuo incanto di luce e di colori. "The
sheltering sky", il cielo che ti protegge (shelter in inglese è
"riparo, rifugio", ma anche "pensilina"), è il
titolo originale e il senso di questo titolo è reso benissimo da
Storaro: basti vedere il cielo sopra Kit e Port nella loro scena
d'amore, dopo la "fuga" in bicicletta, da soli.
Sempre a livello mio personale, per
quel che può interessare e lasciando da parte per un attimo la
bellezza delle immagini e la profondità della storia, "Il tè
nel deserto" è il film di Bertolucci che mi ha creato più
problemi, fin dalla prima volta, al cinema. Per me questo film
rappresenta l'increscioso incontro con il cinema multisala (il teatro
Odeon appena berlusconizzato, 1990) e con le sue salette piccole.
Pensare di proiettare un film così spettacolare in una piccola sala,
magari mandando lo spettatore in prima fila a testa in su per due
ore, mi era sembrata davvero una fesseria, uno scandalo; ma poi i
multisala hanno preso il sopravvento e oggi è quasi impossibile
vedere proiettato un film nella maniera giusta: meglio il salotto di
casa, è una triste constatazione e nessuno osa dirlo apertamente, ma
ormai le nuove generazioni spesso non sanno nemmeno cosa sia un
cinema e guardano tutto direttamente sullo smartphone. Se i giovani
entrano in un cinema, in un multisala soprattutto, rischiano di dover
pensare "tutto qui?", e avrebbero tutte le ragioni di
pensarlo. Per me, insomma, e sempre a livello mio personale, "Il
tè nel deserto" rappresenta la fine del cinema; non per colpa
di Bertolucci, sia ben chiaro, ma per colpa di chi ha gestito questa
mutazione. Abbandonato il multisala, andai a vedere "Il tè nel
deserto" al cinema President o all'Ambasciatori, sempre a Milano, in una proiezione
come si deve; ma ormai anche il President non esiste più da tempo
immemorabile. Devo anche dire che queste storie di ricchi sfaccendati
in giro per il mondo (così è, dispiace dirlo) sono lontanissime
dalla mia sensibilità e non riesco a riconoscermi. E' la storia in
sè che probabilmente fa fatica a reggersi, i personaggi sono poco
gradevoli e spesso supponenti, e tutto tende a suonare falso; il
finale però è molto bello, gli ultimissimi minuti riscattano tutto
ciò che (sempre secondo me) non aveva funzionato.
Notevoli i titoli di testa, con la
partenza in nave da New York mostrata con filmati d'epoca (la festa
per la fine della guerra, nel 1918) sulle musiche di "Midnight
sun" suonata da Lionel Hampton. Si ascoltano anche molte musiche
tradizionali marocchine o d'ambiente arabo, ben collocate all'interno
della storia. Non mi sono piaciute le musiche di Sakamoto, sono
funzionali ma è un saccheggio continuo da Wagner, da Mendelssohn,
e da tanti altri ancora.
(...)
ma il Sahara, più che generare una rinnovata geografia della
passione, finisce per produrre uno sradicamento totale; e i due
amanti vi si ritrovano, in modo diverso, irrimediabilmente perduti.
Tornato ai temi strazianti di Ultimo tango a Parigi, l'ultimo
Bertolucci incanta, disorienta e inquieta.A volte si perde, e ci
perde, nei cunicoli di luce e buio delle casbah; altre volte dà
l'impressione di essere più turista che viaggiatore, cioè uno che
si sposta - secondo l'iniziale citazione di Bowles, solo pensando al
momento di tornare a casa. (a Hollywood e agli Oscar?) Poco risolto è
il rapporto con i luoghi (i personaggi sono in cerca di un luogo,
invece che generati da esso come in Ultimo tango, Strategia del
ragno, Novecento), mentre è palesemente a disagio lo sguardo nel
filmare gli "indigeni" (che forse Bertolucci, come Kit, ama
tutti insieme ma mai uno alla volta). Ma poi, a deriva ultimata,
viene il sospetto che questo disagio e questa irresolutezza siano il
pregio del film, e che il meglio che si possa chiedere al cinema oggi
è di renderci affettuosamente perplessi. Un film disincantato.
(Gianni Canova, Repubblica Tuttomilano 3 gennaio 1991)
"Quante
volte abbiamo osservato il sorgere del sole? Una ventina di volte in
tutto, e tuttavia siamo convinti che di albe sia impregnata tutta la
nostra vita" - è l'amara campana a morto del narratore-autore
nella sequenza finale. "Ci sono ricordi d'infanzia senza i quali
sembra che la nostra esistenza non avrebbe un senso, ma quei momenti
di magia non ci capita di evocarli che quattro o cinque volte durante
l'intera esistenza..." Film di fastosa autoelisione, costruito
per progressive scaglie sonore (...) (Gianni Canova, Repubblica
Tuttomilano 3 gennaio 1991)
(le immagini vengono dal sito www.imdb.com )
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