Prima della rivoluzione (1963) Scritto e diretto da Bernardo Bertolucci. Sceneggiatura di Bernardo Bertolucci e Gianni Amico. Fotografia: Aldo Scavarda. Operatori: Camillo Bazzoni, Vittorio Storaro. Montaggio: Roberto Perpignani. Musica di Giuseppe Verdi Musiche originali di Ennio Morricone e Gato Barbieri (con due canzoni di Gino Paoli e “Avevo 15 anni di Ennio Ferrari. Interpreti: Adriana Asti (Gina), Francesco Barilli (Fabrizio), Allen Midgette (Agostino), Morando Morandini (Cesare, voce di Gastone Moschin), Cecrope Barilli (Puck), Cristina Pariset (Clelia), Evelina Alpi (la bambina), Gianni Amico (un amico), Goliardo Padova (il pittore), Guido Fanti (Enore), Amelia Bordi e Domenico Alpi (genitori di Fabrizio), Iole Lunardi (la nonna), Antonio Maghenzani (fratello di Fabrizio), Ida Pellegri (madre di Clelia), Aurelio Bordi. Durata: 112 minuti.
La parte del film veramente politica (politica in senso alto, nel vero senso della parola) è rappresentata dal dialogo che avviene nel finale, alla Festa dell’Unità nel Parco Ducale di Parma tra Cesare (Morando Morandini) nelle vesti di maestro e il giovane Fabrizio (Francesco Barilli) nella parte dell'allievo ormai adulto che sta per decidere la sua strada. La trascrivo qui sotto perché molti suoi passaggi sono ancora di grande attualità, e si merita una lettura attenta. Si parte dai lavori per l’allestimento della Festa dell’Unità a Parma, e tutto il dialogo si svolge mentre ascoltiamo la canzone “avevo quindici anni”, una canzone "antica" nello stile dei cantanti che giravano un tempo per le fiere. (il cantante si chiama Ennio Ferrari).
- Sento che è tutto sbagliato, che anche questo modo di divertirsi è tutto sbagliato.
- E’ tutto il pomeriggio che vai avanti così...Cosa vuoi?
- Ma non c’è mica bisogno che te lo dica, che cosa voglio. Credevo che parlassimo la stessa lingua, io e te...che volessimo le stesse cose.
- Ma dai....la gente per divertirsi vuole vuole vedere Celentano da vicino, Mina...
- Per questo dico che è tutto sbagliato. E dire che ho passato metà estate a girare per le sezioni...Giuro che qui sta andando tutto a puttane. (tre ragazze fanno commenti sulla morte di Marilyn Monroe) Il popolo prende quello che gli si dà...mi fa paura.
- Beh, finché siamo noi a dare.
- Il popolo accetta ciecamente. E se fossimo nell’errore?
- In questo senso avremmo potuto sbagliare da sempre.
- Infatti avete sbagliato. No, non dico gli errori piccoli, gli errori degli uomini: avete sbagliato perché in vent’anni il popolo non si è formato neppure uno straccio di coscienza.
- Noi abbiamo le prove che una coscienza popolare esiste, e anche fortissima.
- Lo so cosa intendi, ma i fatti del luglio 1960 (la rivolta al governo Tambroni) non mi bastano. Non mi bastano le rivoluzioni di un giorno...
-Non contanto le lotte, gli scioperi, le conquiste sindacali?
- Non mi bastano gli scioperi, le agitazioni sindacali, i primi maggio con le bandiere rosse. Nel ’48, forse...(...)
- Il proletariato ha degli ideali, non dimenticarlo.
- Il proletario ha un solo ideale, irrazionale; ma non ne ha colpa, avete permesso che sognasse una dignità borghese e adesso vuole confondersi con i borghesi, vestire abiti borghesi, vedere gli spettacoli borghesi, leggere libri borghesi...
- I lavoratori vogliono migliorare le loro condizioni economiche, mi sembra giusto.
(passano Enore e il fratellino, anche loro all’opera per la Festa dell’Unità)
- Che cosa ha fatto il partito per Agostino?
- E tu che cosa hai fatto per Agostino? Tu dormivi, e la sua morte ti ha svegliato...E poi perché pretendi dal partito quello che non hai saputo fare tu?
- Proprio perché non l’ho fatto io.
- Ormai sei fuori, e credi di essere più dentro degli altri. Eh, ne ho già visti come te...Il tuo problema è un altro: se tu avessi più coraggio parleresti di Gina.
- Tu mi hai portato un libro, una volta...C’era una frase sottolineata: “Gli uomini fanno la loro storia in un ambiente che li condiziona”. Tu me l’hai spiegato così: gli uomini agiscono in un ambiente che esisste già, ma sono gli uomini a fare la loro storia, non l’ambiente in cui vivono. Io sono il fallimento di quella frase. Bisogna aprire gli occhi: tu volevi modificarmi, anch’io l’ho sperato. E invece io sono una pietra, non muterò mai. (...) Così, per me l’ideologia è stata come una vacanza, una villeggiatura. Credevo di vivere gli anni della Rivoluzione, invece vivevo gli anni prima della Rivoluzione, perché è sempre prima della Rivoluzione quando si è come me.
Il finale confermerà questa affermazione: Fabrizio ritorna nella sua classe d’appartenenza, sposando Clelia che fa parte della ricca borghesia, col palco di famiglia al Regio. La rivoluzione (“avete da perdere solo le vostre catene”, citazione dal Manifesto) non lo riguarda; la politica non lo riguarda, riguarda altri, quelli come Cesare e come i ragazzi della Festa dell’Unità.
Anche Cesare è al Regio per il Macbeth di Verdi che apre la stagione del 1962, ma in loggione: roba da intenditori (nei teatri d’opera settecenteschi e ottocenteschi, in loggione il suono arriva meglio) ma posti economici, meno del biglietto di un cinema. Fabrizio è già nel palco di famiglia, con la futura suocera e la fidanzata: anche la storia d’amore con Gina, una deviazione dal percorso di vita che a lui è stato assegnato, appartiene ormai al passato. Fabrizio è dunque pronto a riprendere il suo posto nella società: anche se l’avvenire è tutto da scrivere e non ci viene raccontato, è probabile che sia andata proprio così.
Ascoltato oggi, questo dialogo fa pensare. Non so come fosse di preciso la situazione all’epoca (io ero molto piccolo, non andavo ancora a scuola) ma dopo il ’62 ci fu una grande stagione di lotte, che portò allo Statuto dei Lavoratori (1969-1970), e dunque questa critica è ingiusta per quelli della generazione di Bertolucci; ma torna ad essere più che giusta per le generazioni seguenti, quelle degli ultimi 10-15 anni ma anche la mia, che è cresciuta pensando che le conquiste degli anni ’60 fossero eterne e dovute. Invece in pochi anni è stato perso tutto, i lavoratori sono tutti precari e arrivare alla pensione è ormai un miraggio.
Invece di “su fratelli su compagni” e del sol dell’avvenire (è l’Inno dei Lavoratori, su testo di Filippo Turati) abbiamo la musica diffusa e gli spot pubblicitari onnipresenti, perfino sui binari del tram e della metropolitana. Oggi sono in molti ad essere fieri della loro ignoranza, politici importanti si vantano di non aver mai letto un libro, e disprezzano apertamente tutto ciò che richiede un minimo di impegno. Non è tutto così, ma mette i brividi pensare a tutto ciò che è stato buttato via (e che era costato un secolo di lotte e di sacrifici): “otto ore di lavoro, otto ore di sonno, otto ore per te e la tua famiglia” era per quelli della mia età una tranquilla certezza, così certa e così tranquilla che di questo slogan (dei primi anni del socialismo) ci siamo perfino dimenticati l’esistenza. Abbiamo dormito, abbiamo creduto di essere tutti ricchi di famiglia come il protagonista di questo film, e adesso stiamo cominciando a pagarne le conseguenze.
(continua)
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