PERSONA (idem, 1965) Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist - Musiche: Lars Johan Werle - Scenografia: Bibi Lindström - Montaggio: Ulla Ryghe - Con: Bibi Andersson (Alma), Liv Ullmann (Elisabet Vogler), Margaretha Krook (il medico), Gunnar Björnstrand (marito di Elisabet), Jörgen Lindström (il ragazzo). Durata: 80 minuti.
Dalla lettera di Elisabeth, che Alma apre e legge: « ... soffre internamente perché le sue idee sulla vita non sono conformi alle sue azioni...» Nelle righe precedenti di questa lettera indirizzata alla dottoressa, Elisabeth accennava a “un’orgia sfrenata con uno sconosciuto” raccontatale da Alma sere prima, e che era una cosa assolutamente confidenziale: « Era la prima volta che raccontavo queste cose!» protesta Alma. Questo racconto di sesso, molto lungo e dettagliato, è una delle cose più imbarazzanti che mi sia capitato di ascoltare al cinema. C’è qualcosa di falso e di forzato in questa descrizione, sembra più una fantasia non realizzata che un’esperienza vera, e probabilmente è così che deve apparire.
Al minuto 65 c’è il discorso sulla maternità, ripetuto due volte di seguito: un espediente che lascia sulle prime perplessi, sembra che sia stata ripetuta la stessa sequenza, quasi un errore di proiezione; ma invece si rimane ammirati, quando ci si ripensa. Il discorso sulla “negazione” della maternità, sul desiderio che il bimbo muoia appena nato, e sul bimbo che invece le si affeziona, è esattamente l’opposto di quello che fa Eva Dahlbeck in “Una lezione d’amore” quando, nel bosco, dice al marito che vorrebbe che tutto restasse com’è, solo vorrebbe avere un altro bambino, un bambino piccolo, perché è bello avere un bambino piccolo: e descrive il piacere fisico dell’avere un bimbo piccolo – ma non tutte le madri sono così, ci ricorda Bergman. Questa di “Persona” ha avuto un bimbo perché immaginava che fosse giusto averlo, ma poi ne ha avuto spavento quando il bambino è diventato vero.
A 1h10 la sovrapposizione dei due volti: metà Liv, metà Bibi.
Altri appunti: 1) il sogno della Andersson dove Liv Ullmann appare due volte, come un fantasma, prima da destra e poi da sinistra; 2) la lunga corsa della Andersson dietro l’attrice offesa, sulla spiaggia; 3) il sogno dell’attrice, dove appare il marito (Björnstrand) e l’infermiera “recita” la parte dell’attrice. Ma sono poi sogni? E che cosa ci racconta Bergman? Come sempre, non sono né i dialoghi né la storia né i personaggi: Bergman è l’immagine e quello che c’è dietro l’immagine. Inquietante e meraviglioso studio di primi piani e di profili, di scavo nei volti e nei dettagli (le mani, le spalle...). Forse il preludio a Sussurri e grida e al Ballo delle Ingrate, straordinario e inquietante. 3) al minuto 56: il bambino con le mani alzate del ghetto di Varsavia (Bergman vi insiste per un minuto intero, è Liv che lo guarda nella foto famosa, e ne è spaventata) 4) Bibi si sostituisce a Liv nell’incontro con il marito (anche qui, Bergman insiste molto sulla sostituzione: Liv osserva i due insieme) (ma poi Bibi dirà a Liv che non vuole diventare come lei, non vuole essere come lei, e nel finale andrà via lasciandola sola) 5) L’angoscia di Liv Ullmann davanti alle immagini del telegiornale, del Vietnam (il bonzo che si dà fuoco) o del bambino del ghetto di Varsavia, rimandano a “Luci d’inverno” e al personaggio di Max von Sydow in quel film: cose lontane, nel tempo o nella geografia, sulle quali molti preferiscono un’alzata di spalle. se si dovessero considerare queste cose, l’angoscia raggiungerebbe livelli altissimi; la perdita della vita (come in Luci d’inverno) o della parola, come qui, sono metafore molto esplicite di questa angoscia. Come si fa, per esempio, a sorridere davanti allo scempio dell’ambiente di questi nostri ultimi anni? Come si fa a restare indifferenti se invece di un giardino o di un prato ci si ritrova di fronte un grattacielo o la quarta corsia di un’autostrada, o l’ennesima strada inutile dovuta soltanto ad una speculazione edilizia devastante? 6) Ma anch’io, da solo, su un’isola, senza parlare, rifiutando me stesso e la mia maschera, cercando di agire attraverso gli altri, per lettera, per scritto, per interposta PERSONA...
Si capisce benissimo guardando questo film anche il motivo per cui nel ‘900 la grande pittura si è dedicata così poco al ritratto: il cinema, nelle mani di Nykvyst e Bergman, prende il posto dei grandi ritrattisti, indagatori della fisionomia umana, dai nostri pittori del Rinascimento fino a Dürer, a Holbein, a tutti i più grandi. Non è difficile riconoscerli qui...
Il lavoro sui volti e sui dettagli del corpo (mani, corpi, ombre) è talmente grande che merita una sosta ammirata quasi ad ogni inquadratura. Il lavoro è perfetto, e viene spontaneo anche il confronto con il cinema di oggi, con la fiction, dove tutto è levigato e ritoccato: ma sui volti di Liv Ullmann e di Bibi Andersson, volti bellissimi, sono visibili anche tutti i “difetti”, se difetti vogliamo chiamare le efelidi, per esempio, o qualche piccola cicatrice, un neo, o una lieve peluria che discende dai capelli: tutte cose che un innamorato vede quotidianamente sulla pelle della donna che ama, e che non considera affatto difetti. Solo un uomo dedito alle riviste patinate e ai videogiochi penserà che questi sono difetti: sono invece la vita vera, il calore. Nessuno di noi è perfetto se visto da vicino, tantomeno alla luce radente o al microscopio.
E’ anche un film che spiega con chiarezza un dettaglio sorprendente della nostra vita, e al quale non mi sono abituato: le donne non sono mai uguali, ad ogni istante hanno qualcosa di diverso. Un dettaglio meraviglioso, credi di conoscere a memoria quel profilo, quel particolare, la consistenza, la pelle, e invece ogni volta – la cosa è ben visibile quando passa qualche giorno fra un incontro e l’altro – ogni volta le donne sono diverse. “Persona” è stato girato in poche settimane, con due sole attrici: eppure alle volte si stenta a riconoscere Liv Ullmann, si stenta a riconoscere Bibi Andersson, alle volte le si confonde l’una con l’altra, e quando Bergman e Nykvyst ci mostrano i loro volti sovrapposti fino a diventare una donna sola, una persona sola, la cosa appare più che plausibile. Eppure, Bibi Andersson e Liv Ullmann non si somigliano affatto.
A questo punto mi sono reso conto di essermi scostato un po' troppo dal film di Bergman, ma il tema mi sembra comunque bello. Per questo motivo voglio lasciare la conclusione a un testo di Robert Wyatt a cui sono particolarmente affezionato, una canzone del 1974 dedicata alla moglie, dall'album "Rock bottom".
Sea Song (Wyatt)
You look different every time you come
From the foam-crested brine
Your skin shining softly in the moonlight
Partly fish, partly porpoise, partly baby sperm whale
Am I yours? Are you mine to play with?
Joking apart - when you're drunk you're terrific when you're drunk
I like you mostly late at night you're quite alright
But I can't understand the different you in the morning
When it's time to play at being human for a while please smile!
You'll be different in the spring, I know
You're a seasonal beast like the starfish that drift in with the tide
So until your your blood runs to meet the next full moon
You're madness fits in nicely with my own
Your lunacy fits neatly with my own, my very own
We're not alone
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