PERSONA (idem, 1965) Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Sven Nykvist - Musiche: Lars Johan Werle - Scenografia: Bibi Lindström - Montaggio: Ulla Ryghe - Con: Bibi Andersson (Alma), Liv Ullmann (Elisabet Vogler), Margaretha Krook (il medico), Gunnar Björnstrand (marito di Elisabet), Jörgen Lindström (il ragazzo). Durata: 80 minuti.
La dottoressa: Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, e non sembrare di essere. Essere in ogni istante della tua vita cosciente di te, e vigile; e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa. Provoca quasi sempre un senso di vertigine il timore di sentirsi scoperta, vero? Di vedersi messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti, poiché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Quale è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no... sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo. Si evita di dover mentire. Oppure, mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, mostrare un volto finto o fare gesti voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede, ma non basta celarsi: perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi, ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni sono vere o false, sincere o bugiarde. Solo a teatro il problema si rivela importante, e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità, e perché tu abbia elevato a tuo sistema di vita quest’assurda apatia. Capisco, e quasi ti ammiro. Secondo me, devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perde ogni interesse, e abbandonarla così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro.
(La dottoressa è interpretata da Margaretha Krook)
In “Persona” ho trovato molte somiglianze con “L’ora del lupo”: il bambino all’inizio, la spiaggia. Queste somiglianze sono dovute spesso al fatto che i film Bergman sono girati quasi sempre negli stessi posti, soprattutto sull’isola di Faro, dove Bergman viveva. Nel finale, quando la casa viene lasciata, le sedie vengono accatastate da Bibi Andersson in un modo che ricorda molto il finale di “Sacrificio” di Tarkovskij; pochi minuti dopo vedremo che anche la strada dove passa l’autobus è la stessa.
Molti sono i rimandi a “Il volto”: per esempio la telepatia, l’incertezza fra realtà e illusione, e il mutismo del personaggio principale. Il nome è lo stesso per i due personaggi: si chiamano Vogler sia il mago interpretato da Max von Sydow che l’attrice interpretata qui da Liv Ullmann; ma questa è poco più di una curiosità, Bergman aveva dei nomi fissi per i suoi personaggi (Vergerus, Egermann, Jacobi, Vogler, Karin, Alma, Marianne...), nomi che ritornano spesso anche a distanza di molti anni. Si può invece notare che Bibi Andersson ha i capelli corti (ma biondi) come la Thulin in “Il volto”, e un’insolita durezza sul viso di Liv Ullmann, che riporta ancora a Ingrid Thulin e a “Il volto”. E’ invece appena accennato il discorso sula telepatia, sul sogno: ma Liv dirà (a cenni) a Bibi che no, non le ha parlato; e che no, non è entrata nella sua stanza quella notte.
La foto del figlio strappata per il lungo, in altezza, esprime la maternità rifiutata: l’esatto contrario del discorso affidato ad Eva Dahlbeck nei film anni ’50 (Donne in attesa, Una lezione d’amore), che erano l’esaltazione della maternità e del piacere di avere un bambino piccolo fra le braccia.
Nel rivedere il film ho pensato spesso a “Il ballo delle ingrate” e al “Flauto magico”, qui c’è un anticipo di quei primi piani, molto simili a quelli che spetteranno alla Pamina di Irma Urrila (discorso che vale specialmente per Liv Ullmann, che un po’ le somiglia). Una curiosità è che Irma Urrila, la Pamina del Flauto Magico, ha davvero una piccola cicatrice sul volto, come viene detto di Liv Ullmann in “Persona” al minuto 59 (ma Liv Ullmann non ha cicatrici visibili).
Mi ha fatto invece pensare a Fellini la scena con Liv e Bibi sedute al tavolo, con i funghi appena raccolti: scena e inquadrature molto simili ci sono in “Giulietta degli spiriti”, a cui rimanda talvolta anche l’abbigliamento, ma forse è solo perché si tratta di due film dello stesso anno. Un altro parallelo con Fellini, ma solo come curiosità, è l'apparizione dei cameramen nel finale, quasi come in "E la nave va" (che è di molti anni posteriore).
Il titolo del film, identico nell’originale svedese, viene da “dramatis personae”, cioè maschera, personaggio: e la prima inquadratura di Liv Ullmann è appunto di origine teatrale, probabilmente il teatro greco, forse una Medea o un’Antigone.
Si inizia con una negazione, come in Aspettando Godot di Beckett. L’inizio è con la pellicola rotta e bruciata, come capitava spesso nei cinema durante la proiezione; è una sequenza di immagini in stile quasi surrealista che finisce col bambino che alza la mano verso l’immagine materna (questo sarà anche il finale), quasi un anticipo del bambino di “Odissea nello spazio” o dei tanti bambini di Tarkovskij. Ma all'inizio ci sono davvero immagini che richiamano alla morte, si direbbero persone vive ma è forte il richiamo ai tavoli dell'obitorio.
La pellicola bruciata, lo schermo completamente bianco, e la rottura della pellicola, tornano proprio al centro del film, quando anche fra le due donne si verifica una rottura. Nella sequenza iniziale, oltre a immagini da cinema dei tempi di Méliès (uno scheletro che esce da un baule, vale a dire la Morte ma per solo per gioco, per scherzo), e ad una tarantola, c’è per un istante anche un fallo eretto, il che può stupire o far ridere, ma conoscendo Bergman non è certo un’immagine messa a caso o per goliardia: qui si parla ancora di mondo al femminile, di madri, di maternità accettate e negate, è fondamentale (anche se lo si vede poco) il ruolo del bambino figlio dell’attrice. L’unico attore maschio, Gunnar Björnstrand, appare in una sequenza in cui è difficile distinguere sogno e realtà, dove le due attrici sembrano confondersi l’una nell’altra. C’è anche un’altra statua femminile, dopo quelle di “Donne in attesa”, nella casa: è una statua di legno, qualcosa tra sirena e sfinge, probabilmente la polena di una nave, molto bella.
(continua)
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