Calendar (1993) Scritto e diretto da Atom Egoyan. Con Arsinée Khanjian, Ashot Adamyan, Atom Egoyan. Le attrici dei mesi: Michelle Bellerose, Natalia Jansen, Susan Hamann, Sveta Kohli, Viva Tsvetnova, Roula Said, Annie Szamosi, Anna Pappas, Amanda Martinez, Diane Kofri. Fotografia: Norayr Kasper Musica: musica tradizionale armena, John Grimaldi, Studebaker John and the Hawks. Durata 74 minuti.
«Una chiesa e una fortezza, una fortezza in rovina... Tutto ciò che è fatto per proteggerci è destinato a crollare; è destinato a diventare innaturale, inutile e assurdo. Tutto ciò che è fatto per proteggere è destinato a isolarsi, e tutto ciò che è fatto per isolare è destinato a ferire.»
“Calendar” è la storia della fine di un amore. Lui e lei che si vogliono bene, ma qualcosa non funziona più; a poco a poco, una terza persona si infila nella coppia, e lui si sente sempre più estraneo. Come si vede, una storia molto comune, già raccontata molte volte; ma Egoyan è un narratore finissimo, e in questo caso – oltre alla grande bravura degli interpreti – colpisce una sua tecnica molto particolare, che non ho mai visto applicare in nessun altro film che io mi ricordi.
“Calendar” è un calendario, di quelli belli, artistici, che si regalano a fine anno e che fanno sempre bella figura alle pareti. Il soggetto scelto è l’Armenia, chiese e monumenti di un’antica terra cristiana; e un fotografo viene spedito in quella terra lontana per procurare le dodici immagini necessarie. Il fotografo (Atom Egoyan stesso) è di origine armena, ma vive in America e della patria d’origine conosce poco. E’ invece ben dentro alla lingua e alla cultura armena la sua fidanzata (Arsinée Khanjian, nella vita reale la vera moglie di Egoyan), che farà da interprete. Ai due si aggiungerà un autista, assunto sul posto. La prima cosa che succede, dopo l’arrivo in Armenia, davanti al primo soggetto da fotografare, è che la donna si prende una secca sgridata: ha dimenticato la videocamera accesa e siamo in aperta campagna. E se si scaricano le pile, dove andiamo a prenderne di nuove?
La tecnica di Egoyan è questa: dei tre personaggi vediamo solo la donna e l’autista, davanti alla location prescelta, inquadratura fissa. Il fotografo, cioè Egoyan stesso, non lo vediamo mai: è di qua dall’obiettivo, dalla nostra stessa visuale. A lui si rivolgono, man mano che va avanti il film, la fidanzata e l’altro, l’intruso, l’autista. Il tutto può sembrare astruso, ma basta avere un po’ di pazienza per entrare nel gioco e capire la finezza di Egoyan e la perfezione degli altri attori.
La donna, interpretata da Arsinée Khanjian, è una magnifica ragazza dai capelli nerissimi e dal sorriso solare. Fraternizza subito con la gente del luogo, canta insieme ai vecchi del paese, beve volentieri il vino che le offrono; e non capisce cos’ha da essere così seccato e noioso il suo uomo. E’ davvero stupita, siamo qui per lavoro ma siamo come in vacanza, in posti meravigliosi: che succede?
L’autista, alto magro e atletico, baffoni e capelli ricci, si dimostra subito molto più che un autista. E’ colto, dà spiegazioni esaurienti su tutti i luoghi, è molto serio e professionale, non è mai pedante o noioso, dice cose molto interessanti e anche noi vorremmo starlo a sentire. Ma il fotografo, di qua dal vetro, lo interrompe: perché tutte queste spiegazioni? Non vorrà mica un supplemento di paga, alla fine? L’autista rimane sorpreso, perché questa non è la prima manifestazione di ostilità nei suoi confronti. « Perché sei venuto fin qui – gli chiede (ma il dialogo passa tutto dalla donna, i due uomini non parlano la stessa lingua) – se non ti interessa quello che fotografi?».
Il fotografo risponde che lui è qui per lavoro, perché lo pagano. Di più non vuol sapere.
Pian piano, il dialogo si riduce a nulla. All’ultima location, Arsinée passa davanti all’obiettivo, trascorre tutta l’inquadratura, guarda in macchina con espressione di rimprovero. Pare quasi che il fotografo desideri che la ragazza se ne vada via con l’altro, e così probabilmente accade.
Queste scene sono montate alternandole con altre dodici, come i mesi del calendario che vediamo appeso nella bella casa americana del fotografo. Il calendario è finito, è appeso vicino al telefono. L’amore è finito, il fotografo riascolta le telefonate di lei, ormai lontana, e rivede il vecchio filmato.
A fargli compagnia, ogni mese, una ragazza diversa: è un’altra cosa curiosa di questo film. Anche qui, l’inquadratura è fissa, e tutto sembra come un provino ripetuto dieci volte con dieci attrici diverse: Egoyan è seduto al tavolo, cena con la ragazza e le versa da bere, poi lei chiede di telefonare, si alza e lascia Egoyan da solo. Con l’ultima, un’egiziana che vanta improbabili ascendenze armene, forse succede qualcosa. Forse la ferita è chiusa e si può ricominciare.
Il film è molto meno complicato di quello che può sembrare raccontandolo; i luoghi che vediamo sono veramente splendidi (non sapevo che in Armenia ci fossero simili meraviglie, speriamo che ci siano ancora), e il film merita di essere visto. Aggiungo ancora qualche particolare: le immagini del ricordo passano attraverso il visore azzurrino della videocamera, con tanto di scannerizzazione veloce nei momenti più belli (e quindi più tristi: “non v’è maggior dolore che ricordarsi dei tempi felici”, dice il Poeta), come se anche noi fossimo davanti al televisore a rivederle; le attrici dei mesi parlano ognuna in una lingua diversa, e sono dieci perchè l’undicesima è Arsinée stessa, e la dodicesima è la figlia di Egoyan, una meravigliosa adolescente con i capelli neri e gli occhi chiarissimi, che vediamo in un filmato, dolce e sorridente, anche lei lontana.
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