Les bas-fonds (Verso la vita, 1936). Regia: Jean Renoir. Tratto da «L’albergo dei poveri » di Maxim Gorkij , adattato da Eugène Zamiatine e Jacques Companeez. Sceneggiatura: Charles Spaak e Jean Renoir. Fotografia: Fedore Bourgassoff e Jean Bachelet. Musica: Jean Wienèr. Interpreti: Louis Jouvet (il barone), Jean Gabin (Pepel), Suzy Prim (Vasilissa), Vladimir Sokoloff (Kostileff), Junie Astor (Natacha), Robert Le Vigan (l'attore), Camille Bert (il conte), Léon Larive (Félix, domestico del barone), Gabriello (il commissario), René Génin (il vecchio), Maurice Bacquet (il suonatore di fisarmonica), Nathalie Alexeieff, Jacques Becker. Durata: 95’
Il ragazzo con la fisarmonica è ormai un po’ brillo, è tardi e Natascia comincia a essere stanca:
- E smettila, Alioka!
- Ma ho una cosa da dire al mondo intero!
- A quest’ora il mondo è sordo. Gli parlerai domani.
- Sì, ma domani non sarò più ubriaco. Ecco, non avrò più niente da dire.
- Oh, nessuno se ne lamenterà. Su, va’ a letto, presto.
Il ragazzo si fa convincere, rimette in tasca il suo entusiasmo e si allontana. Nel discendere cade dalle scale; ma non si fa male, e si addormenta subito nel pavimento.
Siamo nell’albergo dei poveri, quelli che sono qua dentro non hanno un altro posto dove andare, e per questo ragazzo forse la fisarmonica è l’ultima ricchezza – ma non è lui il protagonista del film. E’ un film corale, con tanti personaggi: un po’ alla volta, nel corso del film, emergerà la figura di Pepel, interpretato da Jean Gabin ai suoi inizi di carriera. Pepel si arrangia, fa anche il ladro ed è già stato più volte in galera; ma quando si reca nella ricca dimora del Barone, dopo una ventina di minuti dall’inizio, trova uno che sta anche peggio di lui. Il Barone ha perso tutto al gioco, gli dice di entrare, di accomodarsi, di prendere pure quel che vuole, tra quello che è rimasto: tanto ormai non è più roba sua. Il giorno dopo, anche il Barone prenderà alloggio all’albergo dei poveri.
“L’albergo dei poveri” è anche la commedia con la quale Giorgio Strehler e Paolo Grassi iniziarono la grande stagione del Piccolo Teatro, a Milano nel 1947. Gorkij la scrisse nel 1902, e ne esiste un’altra versione importante per il cinema, quella realizzata in Giappone da Akira Kurosawa nel 1957. Non conosco il film di Kurosawa, che pare sia molto più fedele al testo originale di Gorkij, meno politico (meno anarchico) e meno ottimista del film di Renoir. Come si diceva, è un film corale, con tanti personaggi; e all’inizio è facile rimanere disorientati, si cerca il protagonista ma un vero protagonista non c’è. Questo dramma di Gorkij è un testo che si può mettere in scena da tanti punti di vista, evidenziando questo o quel personaggio, e fu per lungo tempo molto amato dagli attori di teatro perché ogni personaggio è ben delineato e l’autore permette a tutti di fare bella figura. Non succede solo con Gorkij: per chi si ricorda della Bohème, si tratta di un romanzo del francese Henri Murger dal quale furono tratte due opere: Leoncavallo scelse per protagonista il pittore Marcello, Puccini preferì la fioraia Mimì e il poeta Rodolfo, ma la vicenda è sempre la stessa.
Renoir rispetta l’impianto corale soprattutto nella prima parte, così che l’inizio sembra un film di René Clair, ed è facile confondersi; ma la seconda parte è tutta per Pepel e per Natascia, così come il finale. E’ un film che risente ancora molto degli stili del cinema muto, soprattutto nelle sequenze nella casa da gioco (sempre all’inizio del film) e nell’attore che fa il vecchio marito di Vassilissa; ma poi si cambia marcia. Jean Renoir in questo periodo gira molti film, quasi tutti belli o notevoli, è già padrone del suo stile, e sorge subito con evidenza il grande amore del regista per tutti i suoi personaggi, anche i più piccoli. Per esempio, oltre al ragazzo con la fisarmonica, è da sottolineare la breve scena della piccola prostituta d’alto bordo (Elsa) che deve lasciare il Barone, che fin lì l’ha mantenuta ed è sempre stato molto gentile con lei: il modo in cui lei dice “Peccato” quando lui le comunica che non potranno più vedersi, e come subito dopo se ne va con un altro, sempre nella casa da gioco, è una di quelle cose che fanno innamorare (ma io con Renoir non faccio testo, chiedo scusa ma trovo sempre il modo di commuovermi).
Il Barone (interpretato da Louis Jouvet, un attore leggendario) si è rovinato al gioco. Questa scena a cui assistiamo è l’ultima della sua vita da signore, è un’uscita di scena dal gran mondo. “Rovinato” non è un modo di dire: per il Barone questa è l’ultima notte nella sua casa, la mattina dopo tutto sarà messo all’asta e lui sarà in mezzo a una strada. E’ qui che c’è la bellissima scena di Gabin che va a rapinare il Barone, ma il Barone gli dice che non ha più nulla di suo, che può prendere tutto quello che vuole. Fanno amicizia, cenano insieme, giocano a carte tutta la notte e il Barone perde ancora. «Volete rendermi la mia pistola? Mi serve.» dice il Barone a Pepel con tono pacato. Ma, conversando con il ladro, quella notte, cambierà idea. All’alba, Pepel deve andarsene senza aver rubato niente; il Barone insiste perché prenda qualcosa e Pepel decide per un bel bronzo artistico, vinto a un concorso ippico: la sola cosa che il Barone abbia guadagnato in vita sua. Ma i due cavalli regalati faranno passare una notte in prigione a Pepel, che verrà scagionato la mattina dopo dal Barone stesso fra lo stupore dei poliziotti. E’ l’ultimo atto del Barone da persona ricca e rispettata: la sua vita continuerà all’albergo dei poveri.
Il Barone si congeda così dal suo maggiordomo, con un dialogo che sembra un anticipo da “La regola del gioco” (il capolavoro di Renoir, che arriverà due anni dopo):
- Félix, io ti devo molti mensili arretrati. Quello che mi hai rubato basta a compensare ciò che ti devo?
- Il signor padrone parta pure senza rimorsi.
Ritroveremo il Barone all’albergo dei poveri, in un letto mischiato agli altri in un grande camerone; ma la sua parte è quasi finita, d’ora in poi farà parte dello sfondo e lascerà spazio ad altri personaggi. Lo rivedremo verso la fine, sdraiato sull’erba a chiacchierare con Pepel sul senso della vita, con una chiocciola sulla mano invece del teschio di Yorick, a discutere di libertà, un filo d’erba in bocca.
L’albergo è gestito dal vecchio usuraio Kostileff, marito della giovane Vassilissa. Vassilissa è l’amante di Pepel, ma il loro è un rapporto logoro. Natascia è la sorella minore di Vassilissa: l’usuraio la tiene in casa solo per via della parentela, e cerca di farla sposare con l’uomo che gli garantirà di non essere licenziato, perchè il proprietario vuole riprendere possesso della grande casa e l’albergo sta per essere chiuso. Ma Natascia non ne vuole sapere, di quell’uomo.
A Natascia piace Pepel, che però la considera una ragazzina. Il rapporto tra i due cambierà quando Natascia si farà convincere a un invito a pranzo con il suo pretendente, in un locale lussuoso, in una stanza riservata: una scena comica che finirà in una scazzottata.
Il finale potrebbe essere tragico: in una lite con Pepel, l’usuraio cade malamente e muore. Arriva la polizia, e per Pepel si profilano anni di galera: ma tutti gli inquilini dell’albergo raccontano la stessa versione, e cioè che si è trattato di una disgrazia. Pepel è salvo e può andar via con Natascia, verso la vita, in un finale chapliniano molto bello.
Sembra incredibile, ma il testo di Gorki funziona ancora. C’è qualche difficoltà all’inizio, ma il soggetto è ottimo e ci sono ottimi personaggi, che si meriterebbero un film tutto per loro con le loro storie: e non stupisce che gli attori abbiano amato così tanto questo dramma . C’è Nastia, la biondina che si inventa le storie d’amore mai vissute; c’è l’Attore, magro e morto di fame ma capace di incantare il suo pubblico; c’è il vecchio con la giovane malata, c’è tanto di quel materiale che è uno spreco per un film solo. A me rimane ancora una canzone, un violino, da identificare; lo farò la prossima volta, ma per oggi chiudo con questa frase che vale ancora oggi. Viene detta da Natascia dopo la morte di Anna, assistita fino in fondo dal vecchio, quando giunge il momento di dire una preghiera: “Se non amiamo i vivi, come possiamo amare i morti?”
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