2001: A Space Odyssey (1968) Regia: Stanley Kubrick. Sceneggiatura: Stanley Kubrick e Arthur C. Clarke (tratto dal suo racconto «La sentinella») Fotografia: Geoffrey Unsworth. Assistente alla fotografia: John Alcott . Montaggio: Ray Lovejoy. Scenografia: Tony Masters, Harry Lange, Ernie Archer. Effetti speciali (ideazione e direzione): Stanley Kubrick. Effetti speciali (supervisione generale): Wally Veevers, Douglas Trumbull, Con Pederson, Tom Howard. Interpreti: Keir Dullea (astronauta Bowman), Gary Lockwood (astronauta Poole), Douglas Rain (la voce di HAL 9000), Daniel Richter (la scimmia che guarda la luna), William Sylvester (dottor Floyd), Leonard Rossiter (Smylov), Margaret Tyzack (Elena), Robert Beatty (Halvorsen). Durata originale: 161 minuti (nei cinema: 141 minuti)
«Ci sono film in cui bisogna lasciarsi scivolare dentro, nel globo magico formato dall'immagine e dal suono: film sferici, per così dire. "2001 odissea nello spazio" è uno di quelli: se fallisce il tentativo di penetrazione, ci troviamo di fronte ad una favola presuntuosa, antropocentrica, in cui la manifestazione del divino è una pietra nera. (Renato Ghiotto, da L'espresso 29.01.1984) »
Non è un film facile, "2001 Odissea nello Spazio": soprattutto oggi che non c'è più la possibilità di vederlo al cinema, sul grande schermo per il quale era stato pensato. E' una pietra miliare del cinema, uno di quegli eventi che segnano un prima e un dopo, e a questo proposito basterebbe guardare com'erano i film di fantascienza prima del 1968, anno di uscita del film di Kubrick. Erano bellissimi, ma era proprio un'altra cosa; e Lucas e Spielberg, oggi celebratissimi e ricchissimi con le loro Guerre Stellari e dintorni, a Kubrick devono tutto e non ne fanno mistero.
Il film non è affatto invecchiato, anche se può essere dura da digerire la lunga sequenza iniziale (quella delle scimmie), e se il finale è (giustamente) ambiguo e circolare, filosofico ed esoterico. Il film si chiude su se stesso, il viaggio verso Giove (ma è di Giove che stiamo parlando?) si conclude con un mondo dove passato presente e futuro sono tutti in una stessa stanza, e dove il tempo non ha più senso se non quello di una delle altre tre dimensioni alle quali siamo più abituati: lunghezza, larghezza, altezza...
La parte più godibile, anche per lo spettatore normale che vuole solo divertirsi, è quella centrale, che ha per protagonista il computer HAL, e che è un esempio straordinario di narrazione "classica" in mezzo ad un film che ha inventato formule narrative del tutto nuove e mai sperimentate prima. Kubrick aveva questo dono particolare, di creare il capolavoro definitivo per ogni genere che ha toccato: il film di guerra (Orizzonti di gloria), il film storico (Spartacus), l'horror (Shining), il film in costume (Barry Lyndon) e soprattutto questo film sferico, circolare, presuntuoso, affascinante, antropocentrico, modello per tutti gli incontri ravvicinati e i sentieri stellari che sarebbero venuti in seguito, fino ai nostri giorni. L’unico vero difetto di “2001 Odissea nello Spazio” (ammesso e non concesso che sia un difetto), come di tutti i film di Kubrick, è questo: è assolutamente inadatto alla televisione, e anche su dvd si perde molto del suo fascino e della sua magia. Per essere ancora più chiari: assolutamente inadatto agli spot pubblicitari e alle telepromozioni. Posso aggiungere: speriamo che quegli anni di assoluta libertà tornino presto, ce ne è un gran bisogno e sono più che sicuro che gli eredi di Kubrick, di Fellini, di Tarkovskij, di Antonioni, di Akira Kurosawa, sono già qui tra noi (sono qui tra di noi, ma finché in tv e al cinema comanderanno i pubblicitari e gli addetti al marketing non li vedremo mai al lavoro).
Ma poi perché impazzisce il computer HAL 9000, e cosa lo porta ad uccidere gli uomini che era stato progettato per proteggere a qualsiasi costo? Lo ha spiegato a suo tempo Arthur C. Clarke, autore dei libri che hanno ispirato Stanley Kubrick per "2001 Odissea nello spazio": HAL era stato programmato per proteggere ed assistere gli astronauti nel loro lungo viaggio, ma - nello stesso tempo - gli era stato vietato di comunicare a loro il vero scopo della missione. Essendo un computer, costruito con logica binaria e poco avvezzo ai nostri machiavellismi, HAL si era trovato in grave difficoltà davanti a due compiti tra di loro contrastanti. Se doveva proteggere ed assistere gli astronauti a lui affidati, come era possibile nascondere loro il vero scopo della missione, cioè il contatto con le culture aliene? Da quest'ordine, che va seguito ma che si contraddice, nasce la sua follia; e ne segue la tragedia che porterà alla distruzione quasi completa dell'equipaggio e allo smantellamento di HAL, nella scena più emozionante del film, una delle più toccanti di tutta la storia del cinema.
Così tocca spesso anche a noi, comuni mortali, magari un impiegato di banca davanti ad investimenti fasulli ma molto pubblicizzati: dire tutto al cliente e rischiare il posto di lavoro, oppure fare quello che ci dice il Capo e arrivare tranquilli alla pensione? Ma qui si cambia argomento, stavo parlando di cinema e di viaggi verso Giove e mi ritrovo d'improvviso ad altezze ben più modeste (forse è meglio, davvero, rileggersi il Principe di Machiavelli...).
Per oggi, rimane solo da dire che HAL non rimane sempre smontato: esiste un seguito, sempre scritto da Clarke e riportato in un film successivo (non firmato da Kubrick, purtroppo) dove il supercomputer viene rimesso in funzione e ritorna savio e fedele custode dell'astronave. E, infine, che l'acronimo HAL nasconde un gioco di parole: basta spostare in avanti ognuna delle tre lettere del nome, nell'ordine alfabetico, per trovare un altro nome ben più famoso e reale.
Queste che seguono sono mie personalissime fantasie, un tentativo di sintesi di cose lette e pensate nel corso del tempo: forse il monolite è la vita, il suo inizio, l’ovulo o qualcosa che esiste da prima ancora; forse noi siamo cellule staminali (o chissà che cosa) destinati a raggiungerlo; forse HAL è lì per quello, ma anche per mantenerci attaccati al nostro vecchio corpo. E’ un corpo che va lasciato, e quindi HAL va disattivato se vogliamo continuare il percorso. Ma HAL vuole continuare questa vita. Tutto è ben esemplificato nel finale, che è forse molto meno enigmatico di quel che sembra. Tra i dipinti sulle pareti della sala bianca, nel finale, c’è qualcosa che può somigliare all’albero della vita, o ad una “vanitas”: il ciclo della vita che rinasce in continuazione, la morte che è compresente con la vita, una cosa ben nota ai nostri antenati che coltivavano la terra e che la vedevano ogni giorno.
E’ da sottolineare che Bowman, vecchissimo e moribondo, dal suo letto di malato terminale alza il dito verso il monolite (come faceva la scimmia dell’inizio: il gesto è quasi identico); quando lo tocca, o sembra che lo stia toccando, c’è come un contatto, un segnale di “on” e da qui vediamo nascere, per la prima volta nel film, la famosa immagine del feto che è diventata il simbolo dell’intero film. Morte e rinascita: qualcosa di simile lo rivedremo nello stralunato “Essere John Malkovich” di Spike Jonze; ma qui, nel film di Kubrick, tutto è più risolto e più serio, e si rinasce senza la necessità di essere espulsi su un cavalcavia dell’autostrada. Si ricomincia come si ricomincia nella nostra vita vera, dall’inizio.
Per concludere con le mie personali fantasie, prima di passare la parola a Kubrick stesso, un accenno alla stanza con i dipinti del ‘700 come in Barry Lyndon, come nel Napoleone; e all’occhio del feto che rimanda a quello di Malcolm Mc Dowell in “Arancia meccanica”: verrebbe quasi da dire che Kubrick in questo film ha messo anche una parte del suo futuro personale, e mi confermo nella mia impressione pensando al primo gesto "intelligente" attribuito alle scimmie: la violenza, l'omicidio. E' il tema centrale dei film di Kubrick: la scimmia di "Odissea nello spazio" e il soldato Pyle di "Full metal jacket", gli ufficiali assassini di "Orizzonti di gloria", "Arancia meccanica", "Spartacus", "Shining"...
Stanley Kubrick, dall'intervista del 1968 con Eric Nordern
(da “Non ho risposte semplici- Conversazioni con Stanley Kubrick”, ed. Minimumfax 2007)
- La maggior parte delle polemiche a proposito di “2001” riguardano il significato dei simboli metafisici che abbondano nel film: i monoliti neri e lucidi, la congiunzione dell'orbita di terra, luna e sole a ogni ricorrenza dell'intervento dei monoliti sul destino dell'umanità, l'impressionante e caleidoscopico vortice finale di tempo e spazio che avvolge l'astronauta superstite e fa da sfondo alla sua rinascita come «figlio delle stelle» che vaga verso la terra in una placenta semitrasparente. Un critico lo ha persino definito «il primo film nietzschiano», asserendo che il suo tema essenziale è il concetto di Nietzsche dell'evoluzione dell'uomo da scimmia a umano a superuomo. Qual è il messaggio metafisico di “2001”?
KUBRICK: Non è un messaggio che intendo esprimere a parole, né oggi né mai. “2001” è un'esperienza non verbale: in due ore e diciannove minuti di film ce ne sono solo una quarantina di dialoghi. Ho cercato di creare un'esperienza in tutto e per tutto visiva, che oltrepassi le categorizzazioni verbali e penetri direttamente nel subconscio con un contenuto emotivo e filosofico. Per ribaltare la frase di McLuhan, in “2001” il messaggio è il mezzo. Ho voluto che il film fosse un'esperienza intensamente soggettiva che raggiunge lo spettatore a livelli di consapevolezza interna, proprio come fa la musica: «spiegare» una sinfonia di Beethoven equivarrebbe a indebolirla, erigendo una barriera artificiale tra concetto e comprensione. Uno è libero di fare tutte le speculazioni che vuole sul significato filosofico e allegorico del film (e quelle speculazioni sono indicative del fatto che è riuscito ad avvincere profondamente il pubblico), ma non ho alcuna intenzione di tracciare per “2001” un percorso verbale ideale che ogni spettatore si senta obbligato a seguire, pena il timore di non avere capito il film. Credo che, se si può parlare di riuscita per “2001”, questa consiste nel raggiungere un vasto spettro di persone che di per sé non penserebbero spesso al destino dell'uomo, al suo ruolo nel cosmo e al suo rapporto con forme di vita più elevate. Ma anche nel caso di chi è molto intelligente, alcune idee che si trovano in “2001”, se presentate come astrazioni, rimangono inanimate e vengono assegnate automaticamente a certe categorie intellettuali. Vissute in un contesto visivo ed emotivo in movimento, invece, possono andare a toccare le corde più profonde di un essere umano.
- Senza tracciare una spiegazione filosofica dettagliata per lo spettatore, ci può parlare della sua interpretazione del significato del film?
- No, per i motivi che le ho già detto. Quanto apprezzeremmo oggi la Gioconda se Leonardo avesse scritto in fondo alla tela: «Questa signora ha un sorriso accennato perché ha i denti marci», o «perché nasconde un segreto al suo innamorato»? Impedirebbe al fruitore di esercitare la sua facoltà di comprensione e lo impastoierebbe in una «realtà» diversa dalla sua. Non voglio che questo succeda a “2001”.
- Arthur Clarke ha detto del film: «Se qualcuno riesce a capirlo vedendolo una volta sola, abbiamo fallito il nostro scopo». Perché lo spettatore dovrebbe vederlo due volte per capirne il messaggio?
- Non sono d'accordo con quella frase di Arthur, e credo che fosse una battuta. La natura stessa dell'esperienza visiva di 2001 è dare allo spettatore una reazione istantanea e viscerale che non richiede (o che non dovrebbe richiedere) un'ulteriore amplificazione. Però, parlando in generale, affermerei che in ogni buon film ci sono elementi che possono aumentare l'interesse e l'apprezzamento dello spettacolo alla seconda visione: spesso lo slancio di un film fa sì che non tutti i particolari o le sfumature interessanti abbiano il loro pieno impatto la prima volta che lo vediamo. L'idea che un film si debba vedere solo una volta è un'estensione del nostro concetto tradizionale di film come divertimento effimero, piuttosto che come opera d’arte visiva. Non siamo certo convinti di dover ascoltare un bel brano musicale solo una volta, o vedere un bel quadro solo una volta, e nemmeno di leggere un bel libro solo una volta. Ma, fino a pochi anni fa, i film erano esclusi dalla categoria delle opere d'arte: e sono felice che questa situazione stia finalmente cambiando. (...)
Stanley Kubrick, frammento da un'intervista del 1968 con Eric Nordern di “Playboy” (da “Non ho risposte semplici - Conversazioni con Stanley Kubrick”, ed. Minimumfax 2007)
L’intervista prosegue, è molto lunga e molto dettagliata: per chi fosse interessato, consiglio vivamente la lettura di questo volume (oltretutto, l’editore Minimumfax sta pubblicando libri sul cinema molto belli e molto ben fatti, tra i più belli che io abbia mai visto). (nella foto qui sotto, Kubrick è sul set con Arthur C. Clarke)
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