L'amico americano (Der Amerikanische Freund, 1976-77). Regia di Wim Wenders. Sceneggiatura di Wim Wenders, dal romanzo di Patricia Highsmith “Ripley's Game” . Fotografia: Robert Müller Montaggio: Peter Przygodda. Suono: Martin Müller. Musica: Jürgen Knieper. Interpreti: Bruno Ganz, Lisa Kreuzer, Dennis Hopper, Gérard Blain, Nicholas Ray, Samuel Fuller, Peter Lilienthal, Daniel Schmid, Jean Eustache, Lou Castel. Durata: 123 minuti.
Wim Wenders, da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo” (ed. Ubulibri):
« Nel caso de L'amico americano (Der amerikanische Freund, 1976/77) il modello non fu un fotografo bensì un pittore: Edward Hopper. Ma ancora più importante è stato il desiderio di lavorare su un romanzo di Patricia Highsmith. Avrei voluto The Cry of the Owl (Il grido della civetta) ma purtroppo i diritti non erano disponibili. Ho tentato allora con The Tremor of Forgery (La spiaggia del dubbio) e anche in questo caso non c'era stato nulla da fare. Così lei si è impietosita e mi ha dato il manoscritto del romanzo che stava scrivendo: Ripley's Game (L'amico americano). Peter Handke, che la conosceva, ci aveva presentati e, dopo aver tenuto una corrispondenza, ci siamo incontrati. La storia si svolge in Francia e in Germania: il protagonista vive vicino a Parigi e muore ad Amburgo. Nel film ho invertito tutto ed è stato un cambiamento molto più importante di quanto avessi creduto nella mia ingenuità.
All'inizio, immaginavo chiaramente il personaggio di Ripley - soprattutto quando ho avuto la certezza che sarebbe stato interpretato da Dennis Hopper - mentre faticavo ad identificarmi con Jonathan che vedevo solo come una vittima. Ho cominciato a delinearne meglio i contorni pensando che, in fondo, faceva all'incirca il mio stesso lavoro: incorniciare immagini (in inglese,” frame” è la cornice ma anche l’inquadratura cinematografica). Poi, per avere un quadro più concreto della sua esistenza, ho immaginato che avrebbe potuto anche restaurare oggetti e apparecchi del cinema delle origini. (...) Facevo fatica anche ad immaginare i numerosi gangster che comparivano nella storia, finché non ho deciso di farli interpretare da alcuni amici registi: Dennis Hopper, Sam Fuller, Daniel Schmid, Gérard Blain, Peter Lilienthal, Jean Eustache e infine Nick Ray. Il suo ruolo originariamente non era stato previsto, sebbene nel romanzo ci sia il personaggio di un pittore, Derwatt, che dipinge "falsi". Eravamo a New York per delle riprese che facevano parte della storia sullo sfondo del film: una vicenda di porno girati a New York e poi diffusi in Europa. Per il ruolo del mafioso che finanziava i porno, avevo scelto Sam Fuller. Ma Sam, che era in Jugoslavia per delle "location", non arrivava e io stavo là con tutta la troupe senza sapere che fare. Durante questa attesa grazie a Pierre Cottrell, il coproduttore del film, ho conosciuto Nicholas Ray. L'ho incontrato un pomeriggio, in un tribunale dove doveva comparire per una storia di affitto. Dopo la sentenza siamo andati a cena con lui e Nick mi ha chiesto di raccontargli la storia del mio film. Poi abbiamo giocato a backgammon tutta la notte... L'indomani ci siamo rivisti e io gli ho confidato di sentirmi un po' disorientato a causa di Sam. Allora Nick mi ha detto: "Sei in trappola: o aspetti tutta la vita o cambi la sceneggiatura".
Così ho eliminato la storia della mafia per sostituirla con quella del pittore. È stata anche l'occasione per far lavorare di nuovo insieme Dennis Hopper e Nick che non si erano più visti dai tempi di Gioventù bruciata (Rebel without a Cause, 1955), una delle prime apparizioni cinematografiche di Dennis. Nick era entusiasta all'idea di interpretare il pittore e abbiamo scritto insieme la parte in una sola notte. E arrivato Dennis e abbiamo girato l'inquadratura in cui Nick si allontana lungo la West Side Highway, improvvisandola lì per lì, pensando si potesse utilizzare alla fine del film, come infatti è stato. L'ultimo giorno di lavorazione è arrivato Sam. Fuller e Ray non si erano mai incontrati e Sam, con il suo grosso sigaro, era piuttosto buffo. Abbiamo girato un'inquadratura anche con Sam, la sola nel film che riguardi ancora la mafia. (...) »
Wim Wenders, da “Stanotte vorrei parlare con l’angelo” (ed. Ubulibri)
“L’amico americano” è un thriller, e i thriller non si raccontano: una regola ferrea alla quale cerco sempre di attenermi, anche perché il film è molto bello e sarebbe un vero dispetto svelare qualcosa sulla trama. Forse l’unica cosa che si può dire è che ci si muove nel mondo dei falsari e dei mercanti d’arte, con sottofondo di mafie e delinquenti internazionali anche molto pericolosi; ma il protagonista del film (interpretato da Bruno Ganz) è una persona quieta, tirato a forza in un gioco più grande di lui.
Il mio problema con “L’amico americano” (ma non è detto che debba interessare chi mi legge, anzi: caso mai è vero il contrario) è che io non amo i thriller. Mi piace il cinema di Hitchcock e di Preminger, e ho letto fino in fondo soltanto qualcosa di Simenon, ma più per la qualità della scrittura che per l’interesse di sapere come va la storia, chi è l’assassino e queste cose qui. Insomma, se fin qui il cinema di Wenders mi aveva colpito moltissimo, da “L’amico americano” in poi me ne sono distaccato per qualche tempo, e non ho mai condiviso il suo interesse per i gialli. Per farla finita con il mio parere (che anch’io non ne posso più di starmi a sentire), questo non è il film che mi aspettavo a vent'anni, dopo aver visto “Nel corso del tempo”: ma i film che mi aspettavo da Wenders sarebbero presto arrivati, a partire da "Lo stato delle cose", da “Paris Texas” e da “Il cielo sopra Berlino”.
“L’amico americano” è girato a Parigi, ad Amburgo, e a New York: e sono immagini fuori dai soliti schemi, e riprese spettacolari che valgono da sole la visione del film. Per chi ama e conosce queste città, sarà un piacere rivederle com’erano. La particolarità è che Wenders ha girato il film in modo che le tre diverse città sembrino un solo luogo, pur mantenendo ogni loro caratteristica; ed è davvero un’impresa notevole, molto ben riuscita.
Gli attori sono a livelli altissimi: su tutti, direi Bruno Ganz (il corniciaio protagonista), che era un grande attore di teatro a Berlino e sulle scene tedesche, ma che prima di “L’amico americano” non aveva praticamente mai fatto cinema. A me piace molto anche il bambino che interpreta suo figlio (Wenders ha sempre avuto un ottimo rapporto con i bambini, in tutti i suoi film), e naturalmente Dennis Hopper (grande attore e regista: Easy rider, Gioventù bruciata, Il gigante, Apocalypse now...), e Lisa Kreuzer della quale sono sempre stato un po’ innamorato. In più, la piccola pattuglia di registi-colleghi qui chiamati a interpretare quasi soltanto parti di gangsters e di “uomini senza morale”: oltre a Hopper, Nicholas Ray (il pittore che si finge morto per aumentare la quotazione dei suoi quadri), Samuel Fuller (il gangster col sigaro), Gérard Blain (il francese Minot), Daniel Schmid (nella metropolitana), Peter Lilienthal (sul treno), Jean Eustache (dà un cerotto a Ganz). In una parte di fianco, ma che prende molto risalto, c’è anche Lou Castel, attore importante degli anni ’60 e ’70.
Il film è recitato in due lingue, inglese e tedesco; nel doppiaggio italiano si è scelto di dare a Dennis Hopper un leggero accento americano, pur facendo parlare tutti in italiano: mi sembra una buona scelta, ma il sonoro originale è davvero un’altra cosa. (A dire il vero, ci sono anche battute in francese e una breve conversazione in svizzero-tedesco tra Bruno Ganz – che è svizzero – e un medico).
Wenders cita Edward Hopper (che è soltanto omonimo dell’attore) come ispirazione per questo film: direi che la luce particolare dei dipinti di Hopper si vedrà di più nei film successivi di Wenders, ma gli interni e gli ambienti sono scelti con grande attenzione, così come la luce e la fotografia, opera di uno dei grandi maghi dell’immagine al cinema, Robby Müller. Müller è sempre grande, ma qui forse si è perfino superato.
Nel film ci sono anche molti oggetti che meritano attenzione: oltre alle cornici per i quadri, Ganz ripara e colleziona giocattoli e macchine per il cinema. Si vedono alcuni oggetti (ben scelti da Wenders) tra quelli che hanno preceduto la nascita del cinema, macchine da ripresa e anche il piccolo regalo di Ganz a Dennis Hopper, all’inizio, che ha una sua parte nella storia. Questa passione per la storia del cinema e per le sue macchine (un aspetto del cinema di Wenders che apprezzo moltissimo) era già ben presente in “Nel corso del tempo”, il film precedente a questo, e sfocerà in un piccolo capolavoro come “I fratelli Skladanowski” degli anni ’90.
Sul piano personale, mi ha fatto molto piacere la scena di Ganz con la foglia d’oro, al minuto 33 circa: non ho mai fatto il corniciaio, ma le foglie d’oro si usano anche per le copertine dei libri e qualche tentativo da rilegatore l’ho fatto anch’io, in anni lontani. L’oro si può tirare in fogli sottilissimi, come quello che si vede tra le mani di Ganz; serve per le dorature e va maneggiato con cura; in Asia, in ambito buddista, con queste foglie i devoti ricoprono le statue del Buddha.
Tre piccole note per chiudere: la prima è che si pronuncia Ripley, come è scritto, e non “Raipley”(lo scrivo per me che me lo dimentico sempre); la seconda è che Sam Fuller incoraggiò Wenders a girare “Alice nelle città”, e per questo gli sono infinitamente grato; e la terza è che la storia sul mondo della mafia e del cinema porno a cui accennava (nell’estratto che ho riportato all’inizio) Wenders la girerà davvero, in “Così lontano così vicino”, negli anni ’90.
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