venerdì 19 marzo 2010

Dodeskadèn

DODES'KA-DEN (idem, 1970). Regia: Akira Kurosawa. Tratto da un libro di racconti di Shugoro Yamamoto. Sceneggiatura Akira Kurosawa e Hideo Oguni. Fotografia: Takao Saito. Musica: Toru Takemitsu. Interpreti: Yoshitaka Zushi (Rokuchan, il folle), Kin Sugai (sua madre), Junzaburo Ban (Shima, l'impiegato), Kiyoko Tange (sua moglie), Michiko Hino, Tape Shimokawa, Keishi Furuyama (i suoi ospiti), Hisashi Igawa (Masuda), Hideko Okiyama (sua moglie), Kunie Tanaka (Kawaguchi), Jitsuko Yoshimura (sua moglie), Shinsuke Minami (Ryo), Yoko Kusunoki (sua moglie), Tatsuo Matsumura (Kyota Watanaka, lo zio), Tsuji Mari (sua moglie), Tomoko Yamazaki (Katsuko, sua figliastra), Masahiko Kametani (Okabe), Noboru Mitani (il barbone), Hiroyuki Kawase (suo figlio), Hiroshi Akutagawa (Hei, l'uomo solitario), Tomoko Naraoka (sua moglie), Atsushi Watanabe (Tamba, l'artigiano), Jerry Fujio (Kumamba), Sanji Kojima (il ladrone), Shoichi Kuwayama (il cuoco), Kamatari Fujiwara (il vecchio). Durata: 140' (originale 244').

“Dodeskadèn” è un film bello ma molto duro, triste, senza speranza. L’ho visto con molto ritardo sulla sua uscita, perché vedere i film di Kurosawa non è mai stato facile: da noi, nonostante la grande fama e i numerosi premi ricevuti fin dagli anni ’50, una distribuzione regolare dei suoi film ci fu solo dalla seconda metà degli anni ’70, a partire da “Ran” , da “Dersu Uzala” e da “Kagemusha”.
Di “Dodeskadèn” avevo molto sentito parlare, ma riesco a vederlo soltanto oggi grazie a un dvd: e non è come me lo aspettavo, pensavo a qualcosa di tragico e comico, magari sereno e distaccato come “Madadayo” o a “Rapsodia in agosto”; e invece è un film molto duro e disperato, non c’è quasi niente a cui aggrapparsi, una sola immagine bella (come nei film storici di Kurosawa, dove i costumi da soli valgono il prezzo del biglietto) o un momento compiacente. L’origine di tutto questo sta probabilmente, più che in una scelta stilistica, nel periodo di grave malessere che viveva in quegli anni Kurosawa: nonostante i grandi successi e l’enorme prova del suo talento data da film leggendari come “Rashomon” e “I sette samurai” (e anche da “Yojimbo-La sfida del samurai” che fu copiato da Sergio Leone e adattato sulla figura di Clint Eastwood), i progetti del grande regista giapponese venivano messi continuamente in discussione (uso un eufemismo), così che per lui era diventato difficile lavorare con il necessario entusiasmo. Purtroppo oggi questa è la realtà del cinema in tutto il mondo, ma negli anni ’60 e ’70 era un trattamento che poteva ancora stupire e ferire profondamente.
Rivedendo “Dodeskadèn” mi è tornato in mente un film di Ettore Scola del 1976, “Brutti sporchi e cattivi”, con Nino Manfredi protagonista: è più che probabile che il punto di partenza sia stato proprio questo film di Akira Kurosawa. Nel film di Scola, al di là del trucco e della sgradevolezza di fondo (Manfredi vi interpreta un senzatetto che vive di espedienti, e il trucco lo rende molto simile a un vero barbone, per di più anziano) c’è però un fondo comico, si tenta di alleggerire e di divertire rientrando spesso nella commedia. “Dodeskadèn” somiglia molto anche alle commedie di Eduardo de Filippo, alcuni personaggi sono molto simili ed Eduardo stesso vi avrebbe potuto recitare senza problemi, pur non essendo giapponese; ma il tono di commedia nel film di Kurosawa è quasi completamente assente.
Il villaggio che vediamo in “Dodeskadèn” è misero, rattoppato, in precario equilibrio; non tutti sono poveri o sporchi, e alcuni personaggi sono divertenti o commoventi. Le storie sono molte e vengono incrociate fra di loro da Kurosawa, con un metodo che può provocare sconcerto in chi ama le narrazioni lineari ma che è uno dei motivi di grande interesse del film; è interessante notare che alcune sequenze di “Dodeskadèn” anticipano in modo impressionate “Sogni”, uno dei film di Kurosawa più straordinari, girato vent’anni dopo.

Non sto qui a fare il riassuntino di tutte le storie che vengono narrate in Dodeskadèn e che vi si intrecciano come un intarsio (come nelle nostre vite); dirò solo che il titolo riproduce il rumore dei tram (e dei treni) quando viaggiano sui binari, qualcosa come il nostro “tatàm-tatàm”; e che una delle storie che vi si narrano è questa:
Il ladro che diventò discepolo
Una sera, mentre Shichiri Kojun stava recitando i sutra, entrò un ladro con una spada affilata e gli ordinò di dargli il denaro se non voleva essere ucciso. Shichiri gli disse: « Non mi disturbare. Il denaro lo troverai in quel cassetto». Poi si rimise a recitare. Poco dopo si interruppe e gridò: «Non prendertelo tutto. Domani me ne serve un po' per pagare le tasse». L'intruso aveva arraffato quasi tutto il denaro e stava per andarsene. « Ringrazia, quando ricevi un regalo» soggiunse Shichiri. L'uomo lo ringraziò e andò via.
Alcuni giorni dopo quel tale fu preso e confessò, tra gli altri, il furto ai danni di Shichiri. Quando fu chiamato come testimone, Shichiri disse: «Quest'uomo non è un ladro, almeno per quanto mi riguarda. Io gli ho dato il denaro e lui mi ha detto grazie». Dopo avere scontato la pena, l'uomo andò da Shichiri e divenne suo discepolo.
(n.44 da “Centouno storie zen”, ed. Adelphi)

PS: metto in appendice una parte di ciò che racconta Aldo Tassone sulla nascita di Dodeskadèn, dal libro “Akira Kurosawa, L’ultimo samurai” ed. BaldiniCastoldi. E’ un libro molto bello: nella sua prima parte, è Akira Kurosawa che parla in prima persona dei suoi film e della sua vita.
«(...) siamo nel 1967; dopo pochi giorni Zanuck sospende tutto e nomina un sostituto. Versione ufficiale: Kurosawa è malato. Versione ufficiosa: Kurosawa è ««Era Zanuck a far impazzire Kurosawa », obiettano i bene informati. Sembra che, vedendo i primi giornalieri firmati Kurosawa, il produttore americano abbia ammesso tra i denti che erano «eccellenti»... Peccato. Chissà come Kurosawa avrebbe filmato il generale Yamamoto e i suoi « samurai »...
Sono trascorsi ormai quattro lunghi anni di inattività. Chiusa la triste parentesi americana, l'«imperatore » ormai sessantenne decide di fondare con tre amici registi una casa di produzione indipendente. Si chiama battaglieramente « Shiki no kai », « I quattro cavalieri», e raccoglie il meglio del cinema giapponese: accanto a Kurosawa si ritrovano il coetaneo Kinoshita, Ichikawa, Kobayashi. Il primo progetto della nuova società, fondata nel giugno 1969, sarà un adattamento di un libro di racconti dello scrittore Shugoro Yamamoto (autore già del romanzo “Barbarossa”), “Il quartiere senza sole”. (...)
Per tenere bassi i costi, Kurosawa rinuncia ad attori di fama e condensa le riprese in soli 28 giorni. Un primato. È il suo primo film a colori, e l'attenzione viene concentrata sulla recitazione e sul colore, un colore irreale, espressionista. Alla stregua di Antonioni (Deserto rosso), l'ex pittore Kurosawa dipinge tutto, baracche e montagne di rifiuti. Dodes'ka-den esce nell'autunno 1970: nonostante le critiche favorevoli (è terzo nell'annuale classifica di Kinema Junpó e vince il premio Geijutsusai) Dodes'ka-den si rivela un cocente insuccesso. Un insuccesso prevedibile: in pieno miracolo economico girare un film a episodi, senza star e senza storia (...), ambientato in una bidonville della capitale, protagonisti alcuni anonimi individui emarginati dalla società, era una scommessa perduta in partenza. Dodes'ka-den sarà il primo e unico film della utopica società appena fondata dai magnifici quattro del cinema di Tokyo. « Io e i miei illustri colleghi non andavamo molto d'accordo», ricorda Kurosawa. «La compagnia dei Quattro Cavalieri era diventata la dis-società dei Tre contro Uno, e io (l'unico che all'epoca si battesse con violenza contro l'appiattimento televisivo del nostro cinema) mi trovavo sempre nell'angolo dei perdenti. Kinoshita ormai lavorava solo per la televisione, non potevamo quindi avere le stesse idee.»
L'insuccesso del suo primo film a colori rattrista profondamente l'autore, provato da cinque anni di frustrazioni. Colpito da una forma acuta di depressione, Akira Kurosawa viene ricoverato nell'agosto del 1971. Tre giorni prima di Natale, in una grave crisi d'angoscia si taglia le vene con un rasoio, nel bagno, come un antico romano. Soccorso dai familiari e finalmente curato nel modo giusto, l'«imperatore» riprende presto gusto alla vita. «No, il mio tentativo di suicidio non aveva nulla in comune con quello di mio fratello Heigo, morto nel 1933 », ci confiderà anni dopo a Parigi, «non ci sono tendenze suicide in famiglia; tutto si spiega con il fatto che ero davvero molto malato e depresso; la sola idea di vivere un altro giorno di più mi sembrava intollerabile. Ma dopo una cura adeguata sono tornato più giovane di prima, e con una gran voglia di ricuperare il tempo perduto. Sono andato persino a girare un film in Siberia!» Dopo sei anni di delusioni, il sessantaduenne regista si è ormai convinto che se vuol continuare a fare dei film (il cinema giapponese è in piena crisi) deve emigrare. Meglio verso Ovest (l'Europa) che verso l'Est (gli Usa). Durante il suo ultimo viaggio a Mosca nell'estate 1971 era rimasto molto colpito dalla calorosa accoglienza riservatagli dai cineasti russi (avevano dato un premio a “Dodes'ka-den”) e dalla MosFilm. In un soggiorno a Tokyo nel 1972 il regista Guerassimov incoraggia Kurosawa a venire a girare un film in Urss. Con la sua conoscenza della letteratura russa (ha letto persino i diari dell'esploratore Arseniev sul cacciatore mongolo Dersu Uzala) non gli sarà difficile trovare un soggetto che piaccia alla MosFilm. (...) »
(tratto dal volume “Akira Kurosawa, L’ultimo samurai” a cura di Aldo Tassone, ed. BaldiniCastoldi)


4 commenti:

Christian ha detto...

È uno dei pochi film di Kurosawa (forse il mio regista preferito) che ancora non ho visto. Non mi stupisco se lo definisci duro e disperato, sia perché in effetti Kurosawa in quegli anni era assai depresso (poco dopo tentò il suicidio, come si dice anche nel brano che hai riportato), sia perché in realtà questi sentimenti sono presenti anche in altri film precedenti, seppure a volte "mascherati" o nascosti. Curioso il parallelo con Scola o De Filippo, visto che spesso il cinema di Kurosawa è stato accostato indirettamente e in un modo o nell'altro all'Italia: da Pirandello ("Rashomon") a Sergio Leone ("La sfida del samurai" ispirò "Per un pugno di dollari") a De Sica e il neorealismo ("Vivere" ha molto in comune con "Umberto D.")

Giuliano ha detto...

Come ben sai (del Giappone so che ne sai molto), Kurosawa era anche molto europeo, di grande cultura, e non solo giapponese.
Sorvolo sul suo rapporto con Shakespeare, che è ovunque in Kurosawa, ma poco tempo fa su Raitre hanno trasmesso L'idiota (da Dostoevksij) e I bassifondi (da Gorkij).
Dire Eduardo, poi, è come dire Pirandello: si somigliano davvero molto.

Ermione ha detto...

Ho appena preso questo film e aspetto di vederlo; mi immaginavo, dal nome (ah, la potenza delle parole) qualcosa di epico, alla Ran per intenderci. Vedremo.
Grandissimo Kurosawa, comunque. Ogni volta che rivedo Rashomon (visto 10 volte) o anche Ran, oppure perfino Sogni, resto strabiliata ed inebetita

Giuliano ha detto...

Non è esattamente un film che ti metta di buon umore...Però il sorriso del papà dei tanti bambini rimane dentro, alla fine.
Alcuni film di Kurosawa ho paura a toccarli con le parole: "Sogni" è uno di questi. Se avessi dovuto scrivere qui in base alle mie preferenze, i film che nomini sarebbero stati i primi - invece sto scrivendo di cose che non ho capito, di Storia (con Novecento, o con Olmi), o magari porto qui notizie che ho raccolto nel tempo e che possono venire utili a qualcuno curioso come me...
Ciao E - Ermione, volevo dire!
:-)