À nous la liberté (A me la libertà, 1931). Scritto e diretto da René Clair. Fotografia: Georges Périnal e Georges Raulet. Musica: Georges Auric. Con: Raymond Cordy (Louis), Henri Marchand (Emile), Rolla France (Jeanne), Paul Olivier (lo zio), André Michaud (il caporeparto), Germaine Aussey (Maud), Alexandre d'Arcy (il gigolo), Jacques Shelley (Paul), William Burke (il capobanda), Léon Lorin (il vecchio "gagà"), Vincent Hyspa. Durata: 97'
Una fabbrica, dove i pezzi vengono caricati a casaccio, come viene viene: poi i pezzi entrano in un macchinario, e dal nastro trasportatore esce il prodotto finito. Intanto, gli operai giocano a carte, vanno a pesca, ballano, fanno l’amore. Una favola, ovviamente: una cosa così, nel 1931, poteva venire in mente solo a un poeta come René Clair.
Il bello è che nel frattempo ci siamo arrivati, quasi tutte le fabbriche funzionano così. Anche alla Fiat il lavoro manuale è stato ridotto al minimo indispensabile, gli impianti chimici si caricano le materie prime da soli, e vengono comandati da un computer. Molto spesso (non sempre, purtroppo) l’operaio deve solo star seduto e controllare che tutto vada bene.
La differenza vera sta qui: nel film di Clair gli operai sono i proprietari della fabbrica. E’ per questo che possono andarsene tranquilli a pescare: non fanno fatica fisica, e i proventi vanno a loro. Nelle fabbriche moderne, nella realtà, il lavoro manuale è stato quasi azzerato e gli operai sono stati mandati a casa, ma senza stipendio e con un futuro precario. A pescare (e magari a fare la Coppa America) ci va qualcun altro.
Ma andiamo con ordine: all’inizio del film troviamo i due protagonisti, Louis ed Emile, in prigione. Sono ad una catena di montaggio, e assemblano giocattoli di legno con gli altri detenuti. Si vede subito che sono due che non farebbero del male a una mosca: Louis è un piccolo ladro e truffatore, Emile un vagabondo molto ingenuo e sognatore. Insieme provano ad evadere: Louis ci riesce, Emile viene ripreso subito. Louis ha fortuna: comincia dal poco, vendendo dischi su una bancarella (ma prima ha rubato qualcosa in un negozio, sempre senza far male a nessuno), e in poco tempo mette su una fabbrica di grammofoni, e diventa ricco e rispettato. La fabbrica è grande, Louis ha uno stuolo di collaboratori, automobili, autisti, ville lussuose, e anche un’amante bellissima – che ovviamente gli mette le corna.
Finalmente, anche Emile esce dal carcere: ma lo rimettono subito dentro, ancora per vagabondaggio. Si era fermato in un prato a guardare le nuvole che passano, pensa che roba... Ma stavolta scappa subito (è il pretesto per una piccola gag), e finisce per puro caso nella fila dei disoccupati davanti alla fabbrica di Louis. Verrà assunto suo malgrado (non era sua intenzione lavorare), e messo alla catena di montaggio dove combinerà pasticci a non finire, anticipando di qualche anno lo Charlot di “Tempi moderni”. Trova anche il tempo di innamorarsi di una bella impiegata, prima di accorgersi che il Padrone è proprio lui, Louis. Dapprima Louis ha paura di Emile, teme che possa smascherarlo; poi si accorge che Emile non lo farebbe mai e poi mai, lo abbraccia, d’ora in poi saranno amiconi come prima.
La parabola di Emile stupisce non poco i collaboratori di Louis, che però si adeguano; il problema vero è che Louis è stato riconosciuto anche da un altro ex galeotto, che ora lo ricatta. Seguiranno numerosi colpi di scena, con gags molto divertenti, sequenze che stanno a metà fra il surrealismo di “Entr’acte” (il breve film del 1924 che rivelò il talento di Clair, realizzato con Satie, Man Ray, Duchamp, Picabia ) e le comiche del cinema muto, e con la famosa scena delle banconote da mille franchi che volano dappertutto, trascinate dal vento, inseguite da omini in frac e tuba. Lo spirito anarchico e surrealista si rivela anche nel finale: che nonostante le apparenze è molto forte, così forte che la censura fascista bloccò a lungo il film, e quando lo fece uscire ne cambiò il titolo: non più “A noi la libertà” (titolo pericolosissimo) ma “A me la libertà” (a uno solo la libertà la si può anche concedere, basta che poi non disturbi).
Quando le cose si mettono davvero male, Louis regala la fabbrica agli operai e si dilegua: torna a fare il vagabondo, con l’amico Emile. Passa una macchina lussuosa, e Louis ha per un attimo la tentazione di tornare a quel mondo che non gli appartiene: meglio tenersi la libertà, suggerisce Emile. E, insieme, i due vagabondi spariscono nella strada attraverso i campi.
Solo René Clair poteva realizzare un film così, con la grazia che lo contraddistingue. E’ vero, sono passati tanti anni, questo film è davvero obsoleto dal punto di vista tecnico, ma ci sono più idee e cose da vedere qui che negli ultimi dieci anni di cinema e televisione. Niente è scontato (la bella impiegata non sposerà Emile, anche se ormai ce lo aspettiamo tutti), l’invenzione è continua, e gli attori sono molto belli e bravi, su tutti i due protagonisti, Raymond Cordy e il piccolo Henri Marchand che ricorda molto nel suo personaggio Charlie Chaplin ma che ha tutta la gentilezza del miglior Benigni.
Malgrado le molte trovate comiche e la brillantezza, non è un film felice: Clair sa bene cosa accade nel mondo, e ce lo mostra. Un film simile a questo sarà “Miracolo a Milano” di De Sica, nel dopoguerra: un’altra favola, ma che mostra meglio di qualsiasi altro il contrasto tra la povertà e la ricchezza; e in questo sia il film di Clair che quello di De Sica rischiano di diventare di grande attualità nel nostro futuro. E’ un film che risente ancora molto del muto, a differenza dei due “fratelli” girati nello stesso anno, “Il milione” e “Sotto i tetti di Parigi”: qui il dialogo è ridotto ai minimi, e la scelta di far aprire a Louis una fabbrica di grammofoni è tutt’altro che casuale. Emile è agile come un gatto, proprio come Charlot: un gatto vagabondo, pronto a nascondersi e sempre in fuga dai poliziotti anche se non sa perché (non dimentichiamoci che oggi non avere un reddito sta diventando un reato perseguibile, in molte nostre città). La fabbrica (il film ha molte sequenze girate quasi in stile documentario) è organizzata esattamente come il carcere, con i sorveglianti e il lavoro a catena; e solo l’arrivo di Emile riporterà Louis alla sua umanità. “Lavorare è obbligatorio”, dice a Emile il poliziotto che lo riarresta appena uscito dal carcere, avendolo trovato seduto in mezzo all’erba con una margherita fra i capelli. Da antologia la fuga di Louis all’inizio del film: per non farsi riconoscere si toglie la tuta del carcere, inforca una bicicletta (la ruba) e vince una gara. Con i mutandoni e il numero stampato sulla giacca, l’avevano preso per un corridore ciclista. Viene festeggiato a dovere e non si sottrae alla festa, scappa solo quando vede arrivare il fotografo...
2 commenti:
Arrivo qui per la prima volta e cosa trovo? Renè Clair, mamma mia, avessi trovato anche Sous les toits de Paris sarei svenuto dalla gioia.
E poi appena sotto un articolo in 4 parti su un Wenders da paura.
E poi Andrei, Stanley, Robert...
Non bastasse la scelta degli Autori con cui confrontarsi ritrovo qui un garbo e una sensibilità rare. E un'attenzione ai dettagli che i più tendono a trascurare.
Martin, "Sotto i tetti" è già qui: fai clic sul "Clair" qui sopra ("ETICHETTE").
Ho fatto un salto sul tuo sito, sei molto meno verboso di me! Io esagero, ma è solo perché sto mettendo in fila uno dopo l'altro i miei appunti, cercando di dargli una forma leggibile. Ormai sono almeno 35 anni di appunti, se non li metto in ordine diventano ingestibili e quindi inutili: è l'unico motivo per cui sono qui on line. Poi, se qualcuno mi legge sono contento, of course.
Mi è piaciuto molto come hai organizzato il tuo sito, e l'idea delle locandine è ottima.
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