martedì 16 agosto 2011

Michelangelo Antonioni ( II )

Quando si parlava molto di Antonioni, negli ani ’60 e ’70, saltava sempre fuori questa parola: “incomunicabilità”. Ce ne era anche un’altra: “alienazione”. L’immagine consueta era quella di Monica Vitti, bella, elegante, problematica. Questo accadeva quaranta o cinquant’anni fa: ma non sono sicuro che negli anni ’60 ci sia stato davvero un problema di incomunicabilità o di alienazione. Incomunicabilità e alienazione esistono oggi, nell’epoca in cui tutti girano con le orecchi chiuse dalle cuffie dell’ipod e con gli occhi fissi sul videofonino, ma nessuno ne parla più.
Un altro pensiero che mi torna spesso: se andate a vedere nei titoli di testa e di coda dei film di Antonioni, trovate sempre i nomi e gli indirizzi dei sarti che hanno realizzato i vestiti delle protagoniste. Dato che stiamo parlando degli anni ’50 e ’60, viene spontaneo osservare che i film di Antonioni (e di Fellini, e di Visconti...) hanno dato un contributo fondamentale al grande successo del “made in Italy”, dagli anni ’70 in su. Gli abiti di Monica Vitti in “Deserto rosso”, anno 1964, portati con grande eleganza da una grande attrice, non potevano non colpire gli ambienti interessati all’alta moda, a Parigi e negli USA. Da quando non ci sono più gli Antonioni e i Fellini e i Visconti, questo volano è venuto a mancare: anche da cose come questa nasce la grande crisi economica italiana, con buona pace di chi pensa che il cinema non serve a niente. In Italia si facevano cose belle ed eleganti, Antonioni e Fellini, Rossellini e Visconti, portavano prestigio al nostro Paese. Nessuno li ha sostituiti, e ci sono gravi colpe in questo declino: so anche i nomi di quelli che hanno affondato il cinema e la cultura in Italia, ma guai a dirli, questi nomi. Loro poi si offendono e protestano.
L'Avventura (1960) Regia di Michelangelo Antonioni. Scritto da Tonino Guerra, Elio Bartolini, M.Antonioni. Fotografia di Aldo Scavarda. Musiche originali di Giovanni Fusco Con Gabriele Ferzetti, Lea Massari, Monica Vitti, Dominique Blanchar, Renzo Ricci (145 minuti)
- Questa piccola villa verrà soffocata, tra poco.
- Lì ci verranno tutte case.
- Eh già. Non ci si salva più.
Difficile da riconoscere, ma questo dialogo è l'inizio di uno dei film più famosi di Michelangelo Antonioni, "L'avventura". E ' un film del 1960, ma non sembra. I protagonisti del dialogo sono Renzo Ricci, che interpreta il padre di Lea Massari (è lei che apre il film) e un anonimo muratore, che fa una rapida comparsa. Ricci è un diplomatico in pensione, e sua figlia sta per sposarsi con un architetto affermato. La piccola villa in questione è proprio quella del diplomatico, e sulle periferie romane incombe la speculazione edilizia.
Più avanti nel film, vedremo che il mancato genero, l'attore Gabriele Ferzetti, è molto ricco e affermato, ma soffre perché per il successo ha dovuto sacrificare la sua creatività, vera o presunta che fosse. Davanti allo splendore del barocco di Noto, in Sicilia, farà dei piccoli dispetti a un giovane architetto che sta studiando: rovescia sul disegno l'inchiostro di china, e sfiora la lite. Nel finale, tradisce malamente Monica Vitti, e piange.
Rivedendo questo film, dopo tanti anni, mi ha fatto una certa impressione notare che non è affatto invecchiato, e che anzi si è conservato benissimo, in tutta la sua modernità. Nel 1960, l'Italia poteva ancora salvarsi, ma la sua classe dirigente era fatta di tante persone della stessa stoffa dell'architetto interpretato da Ferzetti: per il denaro, e per il successo, si rinuncia presto al meglio di se stessi. E' una specie di patto col diavolo, un diavolo in apparenza bonario, come quello di tanti film di Alberto Sordi: praticamente non si vede, ma c'è e lavora. Ogni piccolo compromesso, con se stessi e con gli altri, è una sua vittoria. Nel film, e sempre a Noto, c'è anche questo dialogo fra Monica Vitti e Ferzetti:
- Io invece sono convinta che tu potresti fare cose belle...
- Non lo so... A chi servono ormai le cose belle? Quanto durano? Una volta avevano i secoli davanti, oggi al massimo sono dieci, vent'anni: e poi?
Ma siamo all'inizio di un amore, un amore ormai senza più remore, e quindi ci può essere un po' di ottimismo. Ma solo per la ragazza: ormai il nostro architetto sa che la redenzione attraverso l'amore non è più possibile, e che in fin dei conti anche l'Olandese Volante della leggenda viene sì salvato dall'amore di Senta, ma ad un prezzo troppo alto.
Oggi la speculazione edilizia, ben raccontata da tanti film degli anni '50 e '60 ( "Il tetto" di De Sica; "Le mani sulla città" , di Rosi...) è il nostro presente. Oggi ogni metro quadrato di asfalto o di cemento è un piccolo peggioramento, ma a convivere con il cemento e con l'asfalto ci siamo abituati, ed è questo ormai il nostro paesaggio naturale; e la stessa cosa è successa per i film, e per la pubblicità sempre più invadente con la quale vengono stravolti e infarciti, in televisione.
Il deserto rosso
Al di là dei noiosissimi discorsi che si facevano sempre su Antonioni (l’incomunicabilità, eccetera) e tenendo conto che il film è del 1964, colpisce molto vedere l’ANIC e l’AGIP, l’inquinamento da petrolio del delta del Po, le navi e i tralicci (come il Bertolucci di “La via del petrolio”, tre anni dopo), in sequenze quasi documentarie. Evidentemente, Antonioni sentiva molto questi temi, il tema del lavoro e quello degli operai: ma qui c’è anche molto la mano di Tonino Guerra, che ha scritto il film con Antonioni. Troviamo alcune cose che verranno poi riprese da Guerra negli anni successivi: in “Nostalghia” di Tarkovskij c’è il discorso dell’1+1=1, due gocce d’acqua che fanno una goccia più grande, però qui a fare l’esempio è un bambino, figlio della Vitti (a un’ora circa dall’inizio). E in “Amarcord” di Fellini c’è il Rex che passa vicinissimo alle barche, mentre qui c’è la nave da “bandiera gialla”. Interessante anche il paragone con il Bertolucci di “Prima della rivoluzione” (1963) per le sequenze di Stagno Lombardo: i due film sono praticamente contemporanei, è come se i due registi si fossero passati la parola. Nebbia, mare, banchine, nave, piattaforme petrolifere, Harris che cerca operai per la Patagonia, apparentano questo film ai documentari di Olmi per la Edison (anni ’50), oltre che al Bertolucci di “La via del petrolio” (1967). Non so cosa avesse in mente Antonioni, però visto da oggi il personaggio di Monica Vitti appare (chiedo scusa) come una cretina ricca che non sa come passare il tempo, apre un negozio pagato dal marito ma poi non sa cosa farne, eccetera. Altrettanto da cretini mi appare la scena nella casetta di legno sul mare, con i “giochini spinti”: però qui è interessante notare il confronto con il comportamento della gente comune del ferrarese, e del delta, come la giovane donna che liquida i discorsi cretini sul sesso dicendo “mi piace fare queste cose, non mi piace parlarne”.
Alle notizie sull’inquinamento, come quando il pescatore dice che le anguille “sanno di petrolio”, Richard Harris e il marito della Vitti ridono come se fossero scemenze, e ridono anche di fronte all’evidenza, come si fa ancora oggi in quegli ambienti, sia politici che industriali.
E’ molto reale anche il timore della poliomielite per il figlio della Vitti: l’anno è il 1964, erano ancora in corso le campagne di vaccinazione e quando io andavo a scuola, in quegli anni, in ogni classe c’era almeno un bambino poliomielitico.
I costumi sono di Gitt Magrini, al solito molto belli, e nei titoli di testa sono indicate le case di moda che li producono: quando si straparla del “made in Italy” ci si dimentica sempre del volano (di enorme potenza) che furono i film di Antonioni e di Fellini, visti in tutto il mondo e, cosa importante, visti dalle persone che contavano. Oggi tutto questo non esiste più, e bisognerebbe partire da qui per riflettere sulla crisi economica attuale, alla faccia dei Tremonti e dei Bossi (“con la cultura non si mangia”, dichiarazioni recentissime del ministro per l’Economia: gli ignorantoni e i ballabiott al governo...).
Musica di tal Fusco, con vocalizzi molto brutti di tal Cecilia Fusco (figlia?) e musiche elettroniche di Vittorio Gelmetti.  Nel film si nomina spesso Medicina, che è un paese in provincia di Bologna: in quanti l’avranno capito, a parte Primo Casalini?
Tra le curiosità, un coniglio sulla riva del mare (che rischia di annegare, povera anima) sulla spiaggia rosa di Budelli dove è ambientato il racconto della Vitti a suo figlio, con la bambina che nuota nel mare limpido tra rocce che sembrano persone vere: chissà se è ancora così, Budelli...
E il veliero che vi appare, così come l’immagine della ragazza giovanissima che nuota, sono un rimando d’obbligo al finale di “Dillinger è morto” di Marco Ferreri, anno 1968.
La notte
Comincia come un capolavoro, poi si affloscia. Mastroianni dorme per quasi tutto il film, la Moreau sembra Laura Antonelli a cinquant’anni, la Vitti è molto bella. Non lo direi un bel film, ma c’è la mano del maestro in quasi tutte le sequenze. (settembre 1991)
- Questa sera ero molto triste, poi giocando con te mi era passata....e a desso sento che mi ripiglia! E’ come la tristezza di un cane...
Vitti a Mastroianni, da La notte (T.Guerra?)
Ho rivisto La notte (sceneggiatura di Tonino Guerra) ed è ancora un bel film, con qualche goffaggine e ingenuità (le passeggiate della Moreau, Gaslini che suona sotto la pioggia) che forse all’epoca sembravano nuove. Imbarazzante anche l’inizio, con la sequenza in ospedale e la “pazza seduttrice ninfomane”. Roba da ricchi, fin dall’inizio: ma Antonioni è comunque un maestro anche nel trattare personaggi così aridi, nelle sue mani sembra perfino che abbiano davvero dei sentimenti. (maggio 1997)
Jeanne Moreau su Antonioni
«"La notte" ha per me uno strano significato. Avevo incontrato Antonioni nel 1950 quando preparava I vinti. Io ero "pensionnaire" alla Comedie Française e lui mi chiese di girare quel film. Ma allora la compagnia aveva regole molto rigide, la sera si recitava e non mi fu permesso di lasciare Parigi. Nel '59 ero più libera e tutto era previsto per girare La notte, tanto che io dissi di no a Visconti per Rocco e i suoi fratelli. Ma Antonioni preferì girare prima L'avventura e io dovetti aspettare un anno». Al suo posto Visconti prese Annie Girardot la quale, grazie a Rocco, iniziò una carriera e incontrò Renato Salvatori. «Quel film trasformò la vita personale di Annie, la sua vita sentimentale. Si vede che quello era il suo il destino».
Le riprese di La notte furono molto dure. «Antonioni parlava pochissimo con Marcello e con me. Si girava sempre di notte fino all'alba. In francese, in inglese e in italiano, ed ero talmente allo stremo delle forze che quando, di giorno, dormivo, sognavo di venire svegliata da qualcuno che bussava alla porta. E mi svegliavo piangendo, implorando di non svegliarmi».
Condizioni fisiche difficili, un set povero. «Sono arrivata a Milano con i miei abiti, tutti comperati da Chanel. Gli abiti che indosso sono i miei. Ma i veri problemi sono stati altri: non fui pagata, e, anzi, Marcello e io pagammo i tecnici romani perché quelli milanesi, naturalmente, ebbero il loro compenso. Ricordo che dopo fui dura con Antonioni, parlai male di lui come regista, ma mi pentii. Un maestro è un maestro, anche se ha un cattivo carattere e idee diverse dalle tue».
intervista a Jeanne Moreau di Laura Putti, Repubblica 15 aprile 2007
(continua)

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