giovedì 24 marzo 2011

Olmi alla Edison ( III )

- Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggiere (1954). Regia di Ermanno Olmi. s.: dall'omonima "operetta morale" di Giacomo Leopardi; f. (b/n): Adriano Bernacchi, Carlo Pozzi; m.: Pier Emilio Bassi; mo.: Giampiero Viola; orch.: Aniello Costabile; org.: Alberto Soffientini; prod.: RCT; o.: Italia (1954); interpreti e personaggi: Enzo Tarascio (passeggiere), Paolo Pampurini (venditore di almanacchi). Durata: 10 minuti
- Tre fili fino a Milano (1958). Regia di Ermanno Olmi. f. (Ferraniacolor): Carlo Bellero; m.: Pier Emilio Bassi; orch.: Aniello Costabile; mo.: Giampiero Viola; coll. tecn.: Lamberto Caimi, Walter Locatelli, Attilio Torricelli; dir. prod.: Ugo Franchini; org.: Alberto Soffientini; prod.: Sezione Cinema Edisonvolta; o.: Italia (prima: 25.6.1958);  rip.: Val Daone nell'alto Chiese. Durata: 17 minuti

Questo piccolo film tratto da Leopardi, che risale al 1954, fu girato da Olmi per un motivo strettamente tecnico: doveva ancora imparare ad usare bene la sincronizzazione del sonoro con le immagini. Come è andata lo lascio spiegare direttamente a lui nel brano che riporto qui sotto; come spettatore, è divertente notare l’inizio e lo sviluppo di questo film, che finisce con Leopardi (un brano che dò per scontato, perché lo si dovrebbe studiare a scuola) ma che inizia con due suonatori di zampogna che arrivano dalla campagna, presumibilmente del bresciano o dal bergamasco, e arrivano in centro a Milano per fare qualche soldo sotto Natale. Erano scene vere, in tutto l’arco delle Alpi e delle Prealpi i suonatori di zampogna e di cornamusa c’erano davvero: a Roma scendevano dall’Abruzzo, a Milano da quei posti dove oggi ci sono le stazioni sciistiche.
I due musicisti attraversano la campagna, che nel 1954 era a due passi da Milano, si fermano in un posto che sembra promettere bene ma poi si accorgono che è già occupato da un suonatore d’organetto, e allora proseguono fino in centro: un’ottima scusa per fare una bella panoramica di Milano. In centro, in galleria, è ambientato il “Dialogo” di Leopardi, con due ottimi attori; uno di essi, Enzo Tarascio (il cliente) è stato per molti anni una colonna del Piccolo Teatro di Giorgio Strehler, e compare anche in molti film (ha una bella parte nel “Conformista” di Bertolucci). Si può ancora far notare una cosa: la venditrice di cartoline e il venditore di giocattoli. Oggi queste cose le vediamo fare da zingari ed extracomunitari, ma non è sempre stato così.
- Torniamo alla Filodrammatica della Edison, a com'era organizzata...
«Il regista era un vecchio dipendente, che aveva tutte le caratteristiche dell'attore d'epoca, quindi un po' gigione, col birignao nella recitazione... alla Zacconi insomma, ma rivisto da un impiegato volonteroso, ed era un tratto che si portava dietro anche fuori dal palcoscenico, nella quotidianità. La prima volta che mi hanno assegnato una parte avevo quindici anni e dovevo fare il vecchio, con un enorme parruccone. Dopo un paio d'anni subentrò un regista più giovane, ma ancora legato a un repertorio alla Renzo Ricci.»
- Quando inizi ad assumere un ruolo di rilievo in questa Filodrammatica?
«Per due anni frequento dopo il lavoro un corso di recitazione alla Giostra, un'accademia privata di Milano con un gruppo di bravi insegnanti, in una parrocchia vicino alle carceri di San Vittore, che cercava di mettere in piedi attività per attirare i ragazzi. A diciassette anni per la Edison mi capita l'occasione di mettere in scena Tovarich, la commedia di Jacques Deval che era una sorta di anticipo di Ninotchka, portata sullo schermo con Claudette Colbert. Da lì parte la mia ribellione nei confronti di un teatro vecchio e per me insopportabile. Con Tovarich vinciamo il primo premio a Pesaro, il festival di tutte le filodrammatiche italiane. Così mi ringalluzzisco e al ritorno inizio a fare proposte di testi da mettere in scena, a partire da Tennessee Williams. Da lì sono cominciate le divergenze e a diciotto-diciannove anni ho iniziato a operare nell'ambito della Sezione Teatro del Dopolavoro in modo indipendente. Oltre a mettere in scena testi teatrali celebri, comincio a montare spettacoli di varietà, che vengono portati in giro per i dipendenti delle centrali elettriche della Edison, che conducevano una vita molto sacrificata. Davamo le recite negli oratori, con grandissimo successo, perché davvero la gente delle valli viveva letteralmente tagliata fuori dal mondo per gran parte dell'anno. Erano spettacolini con scenette comiche, un presentatore che faceva da filo conduttore, il cantante, i ballerini, insomma quella che si chiamava "arte varia". Naturalmente i risultati erano spesso molto incerti. Ricordo per esempio un "Canto del cigno" dove il cigno era davvero spennacchiato, interpretato da una volonterosa dilettante dai movimenti piuttosto precari, che a malapena riusciva a stare in equilibrio... Eppure bastava la suggestione di una luce e di un costume per incantare un pubblico che non aveva mai visto nulla. Il primo copione completo lo scrissi nel 1950, l'anno santo; prima facevamo ricorso a commediole o atti unici pubblicati per gli oratori, ma era roba vecchia e ormai non corrispondeva più alla nostra sensibilità. Per cui mi metto a scrivere copioncini sulla realtà del mondo impiegatizio, e tutti si divertivano da matti perché si rivedevano, tant'è vero che mettevo in scena anche il capo del personale e il dottor De Biase, presidente della Edison, che erano i primi a riderne. Il più riuscito di questi spettacoli, dopo una lunga tournée nelle valli alpine dove c'erano insediamenti Edison, ebbe un gran finale alla Triennale di Milano e il successo fu tale che la dirigenza volle farmi un regalo, una piccola macchina da presa.»
- Alla Edison però c'era già la tradizione di filmare le fasi della produzione.
«Prima della guerra l'Istituto Luce talvolta faceva delle riprese nelle occasioni ufficiali, le visite di Mussolini o del Re. Nel dopoguerra, piccole strutture produttive cominciarono a capire che il cinema poteva essere interessante per l'azienda, così filmavano nelle centrali e vendevano brevi montaggi alla Edison. Un po' di questo materiale lo ritrovai quando cominciammo a lavorare come Sezione Cinema: erano spezzoni di pellicola infiammabile, che venivano tenuti sotto canfora perché si pensava che così il nitrato si conservasse meglio.»
- Con la prima cinepresa cominci a farti la mano nelle attività del dopolavoro, come Gita sociale in Val Formazza...
« Ero assolutamente inesperto, anche di fotografia non sapevo nulla. A volte non sapevo che diaframmi usare, come servirmi dell'esposimetro, quali erano i tipi di pellicola. Quindi all'inizio ho fatto cose spaventose. Poi man mano capisci gli errori, cerchi di correggerli, ma soprattutto è stato il montaggio di questi spezzoni che mi ha fatto capire il cinema. Tutti i giorni, alle sei di sera dopo l'orario d'ufficio, andavo nel laboratorio di sviluppo e stampa Donato, che era stato fondato a Milano prima della guerra da quattro fratelli originari della Val di Non appassionati di cinema. Lì c'era una moviola a 16 mm con un vecchio montatore che mi lasciava stare lì dopo l'orario di chiusura: "Poi chiude lei..." mi diceva - e invece di andarmene alle otto stavo fino all'una di notte lavorando sugli spezzoni che avevo girato. Ecco perché oggi considero ancora la formazione come qualcosa che si fa con le mani, lavorando con responsabilità non di apprendista ma di chi deve consegnare un lavoro. Perché l'ambito scolastico, alla fine, bene o male, resta sempre una zona franca, ma se devi consegnare qualcosa di cui ti sei preso l'impegno, allora bisogna svegliarsi. Quindi io provavo e riprovavo nuove ipotesi di montaggio. Non è che potessi rifare più che tanto, perché le giunte della pellicola si facevano ancora con l'acetone, e ogni volta si perdevano dei fotogrammi e alla fine le inquadrature si accorciavano sempre di più... Ma tutto questo mi è stato molto utile.»
- Come nasce la vera e propria Sezione Cinema della Edison?
« Dopo questi documentari dopolavoristici; ma subito all'inizio giro anche “Piccoli calabresi a Suna sul Lago Maggiore”, sui bambini accolti nelle colonie Edison dopo l'alluvione in Calabria e alcuni dirigenti mi danno l'incarico di fare delle riprese di una diga in costruzione come documentazione aziendale. Quindi mi assento dall'ufficio come impiegato e vado alla diga di Morasco, in alta Val Formazza. Solo che lì faccio un colpo di mano: anziché girare in 16 mm, mi procuro una Arri 35mm, perché nel frattempo, frequentando il laboratorio, guardando le riprese degli operatori che giravano i cinegiornali con l'Arriflex, mi ero reso conto della differenza tra il passo ridotto e il passo normale. Così, con la mia Arri, giro per tre settimane nel cantiere, era il 1954. Poi sonorizzo il montato in laboratorio con uno speaker della televisione che, finito il lavoro, porta una copia de “La diga del ghiacciaio” in Rai, che decide di mandarla in onda. I dirigenti della Edison si trovano così, all'improvviso, con la tv che rappresenta la loro realtà in senso positivo e si fanno prendere
anche loro dall'entusiasmo per la realizzazione di documentari aziendali.»
- Con la Sezione Cinema della Edison tu però non giri solo film strettamente industriali; come nasce la trasposizione "leopardiana" del Dialogo tra un venditore di almanacchi e un passeggiere?
«La caratteristica tecnica più evidente di tutti i miei documentari - e non solo dei miei, perché all'epoca lavoravamo tutti così - è la postsincronizzazione del sonoro. Giravamo le immagini, montavamo e poi si aggiungeva un commento letto da uno speaker. A un certo punto, comincio a vagheggiare l'idea di fare un film in presa diretta, cioè un racconto dove le persone parlano e tu registri quello che dicono. E dunque ho bisogno di una macchina sonora e non della Arri che era rumorosa.»
- Come si dice in gergo, di una macchina "blimpata"...
«C'era il blimp della Arri ma era abbastanza scadente. Così chiedo alla direzione generale di acquistare una nuova macchina da presa. Era un investimento abbastanza importante, che corrisponderebbe oggi a 150-200 milioni di lire. Ma all'epoca producevamo documentari che, a volte, godevano dei premi governativi, venivano abbinati ai film in sala e potevano dunque avere una notevole diffusione. I:acquisto viene autorizzato direttamente dal direttore generale. Arriva la nuova Eclair 300, una bellissima macchina da presa, con cui poi faccio “Il tempo si è fermato”. Naturalmente si tratta di capire come usarla, perché è molto differente guidare un'automobile normale o una Ferrari. Ci sarebbe stato bisogno di tecnici specializzati, mentre io potevo contare su dipendenti della Edison che, come me, un po' alla volta avevano imparato a cavarsela, anche se poi diventeranno buoni operatori come Lamberto Caimi o Roberto Seveso. Così, per collaudare la macchina - e collaudare anche noi stessi - decido di girare un piccolo dialogo. Scelgo Leopardi perché l'autorevolezza dell'autore giustificava il provino di una macchina così importante. Poi mi interessava l'intreccio di varie nozioni di tempo: quello del calendario, il tempo del pensiero, delle aspirazioni del futuro.»
- Lamberto Caimi, Roberto Seveso, Walter Locatelli, Alberto Soffientini, un po' alla volta attorno a te si costruisce una squadra molto affiatata alla Edison...
«Caimi era il fattorino del piano, avrà avuto sedici anni, ho visto che aveva l'occhio vispo e gli ho detto "vieni con me che andiamo a fare il cinema", e lui ha fatto immediatamente capire che aveva delle curiosità, presto trasformate in interessi, poi tradotti in qualità professionali. Anche Seveso viene dai quadri dell'azienda. Locatelli invece era operatore dei cinegiornali. Soffientini, che poi va alla Titanus e a Mediaset, era un ragazzo che frequentava i teatri di posa portando le valigie, aiutando a caricare i camion, comincia a lavorare con noi e poi viene assunto. Infatti, un po' alla volta, riesco a prendere anche collaboratori esterni, che mi parevano giusti per far parte del gruppo, fino ad arrivare a una trentina di persone.» (...)
- Molti di questi documentari sono girati in Ferraniacolor; ti piaceva questa pellicola?
«Aveva i colori troppo saturi, era instabile, non dava mai lo stesso risultato, aveva bassa sensibilità, 14 din, addirittura 11 all'inizio, il che vuol dire dover caricare di luce gli interni in modo spaventoso. Infatti si disse che in “Totò a colori”, il primo film che la Ferrania finanziò per reclamizzare il proprio negativo, ci fosse un'illuminazione talmente forte da bruciare gli occhi a Totò, rendendolo progressivamente cieco. Però, se si stampa un negativo Ferrania su pellicola Kodak si riesce a ottenere una gamma molto differente da quella normale, lo spettro di colore è diverso, come sono riuscito a ottenere per L'albero degli zoccoli, dove ho utilizzato la pellicola Gevaert per forzare la gamma Kodak. Nei negativi colore talvolta la stesura degli strati di emulsione dei tre colori fondamentali non viene perfetta. Per esempio, per “Cammina cammina”, il negativo Kodak mi ha dato problemi, forse perchè con Pasqualino De Santis lavoravamo sempre al limite della sensibilità, alle massime aperture, per non avere il colore troppo saturo. La mia pellicola preferita comunque era la Dupont bianco e nero, perché aveva una gamma di grigi fantastica. Il cinema francese di prima della guerra era straordinario, forse anche per questa gamma di grigi che nessuno è più stato in grado di ricreare; diciamo che la creatività dei registi e degli attori si è incontrata con le opportunità offerte dalla gamma della Dupont. Con la Dupont, per esempio, ho girato “Il posto”, mentre “Il tempo si è fermato” era in Ferrania. Oggi la scelta delle pellicole di fatto si è ridotta a Kodak e Fuji. Certo ci sarebbe anche il digitale. Il cinema forse è finito, ma io continuo a girare su pellicola. Diciamo che sono ancora indeciso tra l'automobile e la carrozza.» (...)
(Ermanno Olmi, pag.74 da “I volti e le mani”, volume allegato al dvd Feltrinelli per i film di Olmi alla Edison)

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