- Manon finestra 2 (1956) Regia: Ermanno Olmi. Testo: Pier Paolo Pasolini; m.: Pier Emilio Bassi; a.r.: Walter Locatelli; mo.: Lilli Scarpa, Giampiero Viola; op.: Carlo Pozzi; ass. macch.: Attilio Torricelli; dir. prod.: Ugo Franchini; segr.: Lamberto Caimi; prod.: Sezione Cinema Edisonvolta; o.: Italia, 1956; Durata: 13 minuti.
- La pattuglia del Passo San Giacomo (1954) regia di Ermanno Olmi. f (Ferraniacolor): Carlo Pozzi; m.: Pier Emilio Bassi; mo.: Carla Colombo; comm.: Silvano Rizza; dir. prod.: Ugo Franchini; segr. prod.: Walter Locatelli; prod.: Sezione Cinema Edisonvolta; o.: Italia (prima: 28.12.1954); rip.: alta Val Formazza. Durata: 14 minuti.
- La diga del ghiacciaio (1955). Regia di Ermanno Olmi. f (b/n): Carlo Pozzi; m.: Pier Emilio Bassi; mo.: Carla Colombo; comm.: Silvano Rizza; dir. prod.: Ugo Franchini; segr. prod.: Walter Locatelli; pr.: Sezione Cinema Edisonvolta; o.: Italia (prima: 28.12.1955); d.: 10'35"; rip.: alta Val Formazza. Durata: 10 minuti.
- Tre fili fino a Milano (1958). Regia di Ermanno Olmi. f. (Ferraniacolor): Carlo Bellero; m.: Pier Emilio Bassi; orch.: Aniello Costabile; mo.: Giampiero Viola; coll. tecn.: Lamberto Caimi, Walter Locatelli, Attilio Torricelli; dir. prod.: Ugo Franchini; org.: Alberto Soffientini; prod.: Sezione Cinema Edisonvolta; o.: Italia (prima: 25.6.1958); rip.: Val Daone nell'alto Chiese. Durata: 17 minuti
Questi quattro film, di durata fra i dieci minuti e il quarto d’ora, documentano il lavoro degli operai della Edison che costruiscono dighe, innalzano tralicci, portano l’elettricità ovunque. Siamo nei primi anni ’50, l’elettricità non arrivava ancora dappertutto, e c’era sempre più bisogno di energia elettrica: il boom economico era alle porte. Dunque un tema di grande attualità, alla luce anche di quanto sta accadendo oggi in Giappone: i film di Olmi sono molto belli ancora oggi ma sono inevitabilmente invecchiati, e in fin dei conti erano “soltanto” film di propaganda per la Edison; ma sarebbe bello che qualcuno documentasse e facesse conoscere quello che succede oggi nei cantieri, e non solo per l’energia elettrica.
Comincio da “Manon finestra 2”, che è del 1956 e documenta lo scavo di un tunnel, per un motivo facilmente intuibile: la collaborazione di Olmi con Pasolini, che ne ha scritto il commento. Vi si maneggia la dinamite: sono gli artificieri i protagonisti del film, e li vediamo all’opera. Il titolo può sembrare strano, ma il suo significato viene subito spiegato: le “finestre” sono i tunnel laterali a quello principale, che per ovvi motivi di sicurezza vengono scavati per primi. Ogni finestra ha anche un nome, oltre al numero progressivo: qualche appassionato della musica di Puccini (o magari di Massenet) ha chiamato con il nome di Manon Lescaut questa “finestra numero 2”.
« Col giovane scrittore Pier Paolo Pasolini feci invece due documentari: uno era intitolato “Il grigio” ed era la storia di un cane che viene catturato per esperimenti scientifici, l'altro era “Manon finestra 2”, sui minatori che scavano gallerie per impianti idroelettrici. Con Pasolini parlammo molto di cinema, non in senso tecnico, ma di come l'autore deve porsi nei confronti della realtà. In una sera piovosa, a piazza del Popolo, mi raccontò di un soggetto che avrebbe voluto scrivere per un autore cinematografico, su una corsa ciclistica per dilettanti, con premi messi in palio dai bar, in cui uno dei ciclisti veniva urtato e fatto cadere per impedirgli di vincere e la caduta provocava nel ragazzo tutta una serie di problemi dovuti a un rapporto nuovo con la realtà. Problematiche che il cinema allora non trattava in quanto il neorealismo era passato dai soggetti epici della Resistenza a una “maniera”: si facevano le favolette di sempre, ma truccate da neorealismo.
Pasolini credo che sia stata una delle figure più significative, più incisive, di questi anni. L'ho conosciuto in tempi in cui non era famoso. Le sue opere confermano che aveva questa grande libertà rispetto al ruolo che gli competeva ogni giorno come intellettuale, scrittore, giornalista, cineasta. Pasolini non ha colto nel mio film su papa Giovanni aspetti che riguardano in modo diretto e vincolante la disciplina cinematografica, ma ha capito anche in un film non riuscito - è così, io mi sono spaventato di me stesso nel fare quel film, della presunzione forse che mi aveva spinto ad accettare la sfida - il sentimento che sottintendeva quel lavoro. E lo difese non con gesti polemici, ma attraverso la sua adesione al film.»
(Ermanno Olmi, pag.24 da “I volti e le mani”, volume allegato al dvd Feltrinelli per i film di Olmi alla Edison)
- Manon finestra 2, che giri nel 1956, ha un commento di Pier Paolo Pasolini; quando vi conoscete?
« Due anni prima. A Milano avevo conosciuto Goffredo Parise, che collaborerà con me per Michelino 1° B. Insieme facciamo varie incursioni su Roma e una volta, al Premio Strega, dove incontro tra gli altri Mario Soldati, c'era anche Pasolini. Eravamo giovani, quasi coetanei e, quando tornavo a Roma, molto spesso ci incontravamo da Rosati a piazza del Popolo. Pier Paolo aveva scritto “Ragazzi di vita” e cominciava a lavorare nel cinema, così gli faccio vedere “Manon finestra 2”, a lui piace molto e io gli chiedo di scrivere il testo. All'epoca infatti i documentari dovevano avere sempre un commento parlato, altrimenti il pubblico non ne voleva sapere. Insieme abbiamo poi fatto “Il grigio”. Una sera, pioveva a dirotto, lo accompagnai a casa in macchina - lui non ce l'aveva ancora - e sotto casa gli racconto che volevo smettere coi documentari e fare un film di finzione. E Pier Paolo mi risponde che un tale di Milano aveva scritto un bellissimo racconto su due amici che si iscrivono a una gara ciclistica rionale, la gara del bar, ma nella volata finale, quando sono gomito a gomito, uno dà una gomitata all'altro che cade... Era “Il dio di Roserio” di Giovanni Testori, e negli anni in cui sui nostri schermi imperava la commedia, l'idea di portarlo al cinema fa capire quanto Pasolini fosse in anticipo sul suo tempo. Lui per me era diventato un interlocutore abituale. Parise, tra l'altro, a Roma era ospite della foresteria della Edison. Eravamo un gruppo di giovani molto affiatato; a Milano c'erano anche Mastronardi, un altro ragazzo straordinario, e Bianciardi, che scrive Il lavoro culturale e poi La vita agra. Tra l'altro, avrei dovuto farlo io il film, però avevo già l'impegno con la Titanus per girare in Sicilia “I fidanzati”, così passa a Carlo Lizzani.»
- Quali sono i rapporti tra questo gruppo di giovani intellettuali e la Edison?
«Questi amici erano tutti squattrinati, così se gli commissionavo un testo portavano a casa le 20.000 lire, in anni in cui un'impiegata a fine mese ne guadagnava 15.000. E oggi confesso di aver fatto scrivere vari testi che non ho mai utilizzato... In quegli anni a Milano conosco anche Tullio Kezich, che lavorava a "Settimo giorno", e che scriverà per me, tra l'altro, Un metro lungo cinque. E dopo Il posto, dove fa anche una piccola parte, sarà uno dei fondatori della "22 Dicembre" con cui produrremo i film d'esordio di Lina Wertmuller, Eriprando Visconti, Gianfranco De Bosio, e ancora La rimpatriata di Damiano Damiani, il primo film televisivo di Rossellini, L'età del ferro... Se non ricordo male il nostro primo incontro avviene all'Hungaria di via Montenapoleone, perché volevo chiedere il suo parere su un copione che stavo preparando da Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern.»
(Ermanno Olmi, pag.81 da “I volti e le mani”, volume allegato al dvd Feltrinelli per i film di Olmi alla Edison)
“La pattuglia del Passo san Giacomo” mostra la riparazione di un traliccio, in alta montagna: un albero caduto ha troncato un filo. La pattuglia Edison, formata elettricisti che sono anche esperti montanari, inforca gli sci (sci di legno) e si mette all’opera, usando i muli per portare i materiali. Girato a colori, ha un bel piglio narrativo e mostra panorami di grandi bellezza.
“La diga del ghiacciaio”, in bianco e nero, segue le fasi della costruzione di una grande diga per l’energia idroelettrica. A colpire, vista da oggi, è la grande chiarezza nella narrazione. Si tratta del film che fu trasmesso dalla Rai, e che di fatto aprì le porte del grande cinema a Ermanno Olmi.
“Tre fili fino a Milano”, del 1958, documenta invece la costruzione di un grande traliccio in alta montagna: su un traliccio ci sono infatti tre fili, che porteranno la corrente dalla diga fino a Milano. Chi ha visto “E venne un uomo” o “L’albero degli zoccoli” noterà subito la grande somiglianza tra alcune scene di questo piccolo film e i capolavori successivi.
- Nei tuoi documentari industriali si vede da un lato l'amore per il cinema, anche per quello d'avventura, come in La pattuglia del Passo San Giacomo, che sembra un "western di montagna”, ma soprattutto colpisce come per le non ci sia conflitto tra il lavoro dell'uomo e la natura, esattamente come non c'è soluzione di continuità nella trasformazione degli uomini da montanari a operai. Fin dall'inizio, ed è una caratteristica che ritroviamo spesso nel tuo cinema, sei forse il cineasta che ha saputo mostrare meglio il lavoro dell'uomo.
«Io appartengo sia al mondo contadino che al mondo operaio e ho sempre pensato fortemente che la storia si faccia con "i grandi numeri", dunque che i veri protagonisti siano i contadini, gli operai, gli impiegati e oggi gli operatori dei computer, dei telefonini... la storia passa soprattutto lì, mentre in genere si tende a raccontarla attraverso i grandi protagonisti che, al limite, hanno prodotto i presupposti perché avvengano i grandi cambiamenti che poi, dalle piramidi alle dighe, si fanno sempre sulla pelle della gente. Infatti, se guardiamo le facce dei lavoratori della Edison, sono facce da operai perché lì vediamo in un cantiere, se le pensiamo in un campo diventano facce da contadini, non cambia nulla: era il popolo italiano.»
- Oggi però le facce sono cambiate, tendono a omologarsi; Pasolini in “Lettere luterane” diceva che in Italia è in atto una mutazione antropologica visibile sulle facce della gente...
«Oggi hanno tutti facce da merendine, si vede la differenza quando in televisione compaiono le espressioni rubate alle persone dei cosiddetti paesi sottosviluppati, quelle persone hanno volti straordinari, mentre le nostre facce non hanno più identità... Quando ho girato film sul mondo del lavoro, ho sempre avuto in mente come destinatari i lavoratori stessi. Per esempio, la più grande soddisfazione del mestiere che ho avuto in quegli anni è stata dopo la proiezione a Venezia de Il posto; alla fine mi sono sentito strattonare, mi sono girato e una signora mi ha detto: "Sono un'impiegata anch'io". E lì ho capito chi era il mio destinatario. Quella signora, è come se mi avesse detto: "Mi sono riconosciuta, lei ha parlato a me".»
- Un'altra cosa che colpisce è la tua capacità di trovare la bellezza nelle strutture industriali, nelle macchine in funzione, nella geometria dei tralicci, nella fuga prospettica dei cavi tesi. Come per esempio in Costruzioni Meccaniche Riva, dove si vede che resti affascinato dai riccioli di materia che il trapano incide nel metallo, dalla descrizione delle turbine, si sente il fascino per il lavoro industriale, che in genere viene visto soltanto nei suoi aspetti alienanti per il lavoratore stesso. Sia nelle persone, nelle loro facce, sia in te che le riprendi, si vede la fierezza di essere parte di un grande lavoro collettivo.
« Quando un progetto diventa un oggetto reale, c'è dentro il lavoro dell'uomo, il sudore, le ore che ci sono volute per realizzarlo, e anche se è stato fatto a macchina, comunque alla fine resta un prodotto realizzato dalle mani dell'uomo. C'era ancora, a quel tempo, la fierezza di appartenere a un'azienda, a un gruppo, a un popolo, a un'entità umana che produce una trasformazione storica. Del resto è un'esperienza corale del lavoro che ancora oggi si sente: gli operai che fanno una diga - la troupe che fa un film - celebrano un lavoro fatto insieme e che gratifica non soltanto il caporeparto o il regista, ma anche l'apprendista che porta i cavi.»
(Ermanno Olmi, pag.77 da “I volti e le mani”, volume allegato al dvd Feltrinelli per i film di Olmi alla Edison)
(continua)
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