Qualcuno volò sul nido del cuculo (One flew over the cuckoo’s nest, 1975) Regia di Milos Forman. Da un romanzo di Ken Kesey. Sceneggiatura di Laurence Hauben, Bo Goldman, Ken Kesey, Dale Wassermann. Fotografia di Haskell Wexler. Musica di Jack Nitzsche. Con Jack Nicholson, Louise Fletcher, Will Sampson, William Redfield, Sydney Lassick, Brad Dourif, Danny De Vito, Christopher Lloyd, Scatman Crothers, Marya Small, Louisa Moritz. Durata 133 minuti
Ecco un film che ebbe un enorme successo quando uscì. L’avevano visto tutti, anche le persone che non avresti mai detto; ed era piaciuto a tutti. A me a scuola, che ero grande e grosso, vennero a dire che sembravo l’indiano amico di Jack Nicholson: ed era gente che non andava certo a vedere i film difficili e impegnati. Ma il “Cuculo” è un film sui manicomi, i suoi protagonisti sono dei malati mentali, più o meno gravi. La condizione dei malati mentali nei manicomi è esattamente il soggetto di questo film, né più né meno. Il tema è trattato con mano da maestro, gli attori sono ottimi e tutto fila via alla perfezione, con molte sequenze divertenti, spettacolari, commoventi: ma non è un film d’amore o un film di guerra, non ci sono mostri e alieni, non ci sono né bambini né animali né cartoni animati: resta sempre un film di matti, sulla malattia mentale, sulla lobotomia e l’elettroshock. “One flew over the cuckoo’s nest”, il titolo originale (in italiano è stato tradotto alla lettera) riprende i versi di una filastrocca popolare, e pare che “cuckoo”, forse per via del verso del cucù, o dell’orologio omonimo, sia una parola gergale per indicare chi dà fuori di matto.
Ecco, il fatto che questo film abbia avuto successo di pubblico, e che successo, è un pensiero che può rendere bene l’idea di cos’è stato il ’68, nei suoi momenti migliori. Perché il “Cuculo” è un film difficile e duro su un argomento penoso – la malattia mentale – trattato senza pietà e senza nessuna voglia di addolcire le durezze. Ed era anche una riflessione sulla normalità: che cosa significa essere normali? Chi è più pericoloso per la società, un matto come il giovane Billy Dibbit o la severa dottoressa che vuole curarlo?
In quegli anni, i 60 e i 70, succedeva anche questo: che film difficili fossero visti da tutti, e discussi da tutti. E’ questo che fanno rimarcare gli osservatori più attenti, come Nanni Moretti, quando dicono che non esiste più un’opinione pubblica. Oggi si ragiona (si sragiona, mi vien da dire) per slogan, gli slogan più rozzi del mondo: la violenza la fanno solo gli extracomunitari, a rubare sono solo gli zingari, la mafia non esiste. E quando la realtà ti mette davanti se stessa in tutta la sua potenza, si fa finta di niente; perché è ben difficile da accettare che una persona normale possa rubare e commettere atti violenti senza motivo, eppure è quello che accade tutti i giorni, spesso anche sotto i nostri occhi.
Il “cuculo” di Forman è una favola, una favola triste. Un apologo duro con momenti leggeri e felici, la pesca in alto mare, la festa di Natale, il basket; e due morti alla fine che fanno star male, Billy Dibbit e il povero McMurphy. Penso che ci sia ben poco di verosimile, a parte i ricordi personali di Kesey, che ha scritto il libro basandosi sui suoi ricordi personali; l’elaborazione poetica c’è e si vede molto.
Ugo Casiraghi , dalla vhs allegata a “L’Unità”, spiegava così l’origine del film:
(...) l'istituzione psichiatrica al centro del racconto è legata a esperienze personali sia dello scrittore che del regista. Nel forte romanzo omonimo che gli diede la notorietà, Ken Kesey, americano dell'Oregon, campione della 'controcultura' degli anni Sessanta, aveva trasfuso i propri ricordi di infermiere in un manicomio formalmente aperto quanto repressivo nella sostanza. Così, nel clamoroso en plein conseguito all'Oscar '76, l'esule cecoslovacco Milos Forman, brillante alfiere della 'nuova ondata' di Praga, si vide riconosciuta, oltre all'indubbia maestria spettacolare, anche l'evidente dissociazione dai metodi terapeutici operanti nei paesi del blocco sovietico, nelle cui 'cliniche per dissidenti' si praticava a scopo ideologico il lavaggio del cervello. (...) La caratteristica del film mediano è di oscillare da un genere all'altro, in una contaminazione che mira a conciliare due spinte contrastanti: l'adesione alla denuncia e la necessità di smussarne le asprezze per renderlo appetibile al largo pubblico. Così, se nella produzione del 1975, si voleva vedere un vero film 'antipsichiatrico', bisognava rivolgersi all'italiano “Matti da slegare” (Bellocchio, Agosti, Rulli, Petraglia) e non certo alla sua versione all'americana. Scampato alla colonia penale fingendosi pazzo, McMurphy approda in un manicomio dove gli autentici matti diventano sempre più matti grazie a psicofarmaci che ne spengono la personalità e a terapie di gruppo che ne aumentano i complessi. Tanto che, pur avendo licenza di uscire, rimangono volontariamente dentro.
Alla disciplina del reparto, ammantata di ordine scientifico e perfino di democrazia, pensa con modi untuosi e pugno di ferro la capo-infermiera miss Ratched, donna di ghiaccio dallo sguardo obliquo, custode inflessibile del potere. L'arrivo di McMurphy, con la sua irresistibile carica di vitalismo libertario, ha l'effetto di una bomba. Mattacchione, ribelle, inesausto organizzatore di giochi, è uno capace, a televisore spento per decisione superiore, di improvvisare il commento alla finale di base-bali, suscitando nella comunità un tifo da stadio. Insomma, è il pifferaio che seduce tutti, li smuove dall'inerzia e dalla paura, li trascina dietro a sé in avventure spericolate e felici, come quella di andare su un peschereccio in mare aperto. Sbruffonata che gli costa un elettrochoc, dal quale emerge più pimpante di prima. Questo è l'aspetto 'leggero', l'ospedale trasformato in circo, e McMurphy-Nicholson impareggiabile clown. Lo scontro diretto con l'istituzione è invece foriero di tragedia. La 'diversità' estroversa, generosa, inevitabilmente provocatoria, non ha scampo nel disumano rigore del sistema e viene schiacciata. Organizzando l'orgia notturna in corsia, McMurphy passa il segno (e il film gli tien dietro con una certa truculenza). È l'inizio della fine. All'alba il ragazzo sessualmente frustrato, che grazie a McMurphy ha trascorso la sua prima notte con una donna, viene terrorizzato dalla Ratched che minaccia di dirlo alla madre-castratrice (non per niente sua amica); e in un rigurgito di follia si dà la morte. Allora McMurphy non si trattiene più e si avventa alla gola della responsabile. E questa volta, per lui, la punizione sarà definitiva: la lobotomia. A collegare le due parti così distanti - anche se la seconda è la conseguenza della prima, cioè l'eccesso di commedia produce l'eccesso di dramma - provvede un personaggio dal pathos trattenuto, l'enigmatico indiano che il protagonista si fa amico. (...) Nel romanzo l'indiano è lo schizofrenico che lo narra. Qui è la figura simbolica che conclude la storia: soffoca pietosamente l'amico per non lasciarlo sopravvivere come un vegetale, e grandiosamente si apre la strada verso la libertà, anche in onore di lui. In “Qualcuno volò sul nido del cuculo” il simbolismo aleggia, sopra e sotto, dentro e fuori il tessuto narrativo. Ogni lettura è possibile perché il film è giocato su tutte le possibili antitesi (normalità-follia, libertà-schiavitù, tolleranza-repressione, individuo-establishment, eros-castrazione, ecc.), ma anche su una labilità o meglio fluttuazione ideologica e psicologica, su un'ambiguità sfuggente che lascia ogni cosa al punto di partenza. (...)
(Ugo Casiraghi, dalla vhs edita da "L'Unità")
Ed ecco cosa disse del suo film Milos Forman, in due interviste alla rivista francese “Positif” (sempre dalla vhs allegata all’Unità):
"Non ho mai avuto conflitti politici con il governo Ceco, ma nessuno ha mai risposto alla mia richiesta di conservare il passaporto cecoslovacco. Era intollerabile non avere il passaporto. Soprattutto quando si viaggia, a causa delle ore che si passano nei consolati, dove ti sospettano di tutto, soprattutto oggi che ci sono tanti movimenti di emigrazione. Ho anche trascorso due ore in un consolato britannico e conosciuto l'esperienza umiliante di dover provare che avevo abbastanza soldi per vivere a Londra e di mostrare le banconote, che esaminavano una per una, per essere certi che non fossero false. E' soprattutto per questo che ho voluto avere il passaporto americano". (Milos Forman, int. a "Positif", luglio-agosto 1979)
"L'oppressione ti viene sempre presentata come destinata a farti del bene. Per qualche tempo l'accetti, ti sforzi di disciplinarti. E obiettivamente si può dire che in certi casi l'oppressione è per il tuo bene, non foss'altro che perché ti insegna come sopravvivere in una società in cui non sei solo. Ma quando l'oppressione oltrepassa certi limiti, diventa micidiale e ti costringe a compiere certe azioni, entra in conflitto non soltanto con il tuo istinto vitale, ma anche con la tua filosofia, perché tutto ciò che hai imparato a scuola rappresenta gli ideali più belli che l'uomo possa concepire, dai greci a Faulkner, passando per Shakespeare". (Milos Forman, int. a"Positif", cit.)
"...non volevo saperne troppo dal punto di vista medico. Ero molto più a mio agio nell'osservare il comportamento se non sapevo ciò che causa questo comportamento. E per due ragioni: anzitutto penso che a volte la conoscenza scientifica vi limiti. Sembra una sciocchezza, ma più si sa, più si ha la tendenza a voler spiegare attraverso la logica, mentre il comportamento umano è psicologico e non logico. Ho voluto evitare che ci fosse in me un conflitto tra quel che provavo, che mi sembrava più vivo e un punto di vista medico che avrebbe potuto essere contraddittorio. In secondo luogo, per mia protezione personale non ne volevo sapere troppo. Più cose si sanno sul proprio corpo, più si è infelici. Quando avevo male allo stomaco, non ero sconvolto, era semplicemente male allo stomaco. Dopo che mi hanno spiegato che poteva essere la spia di scompensi cardiaci, di cancro, di problemi psichici, sono assalito dai sintomi più terribili. Quello che c'e di terrificante nei disordini mentali è che nessuno ne conosce veramente le cause". (Milos Forman, int. a Michel Ciment, Positif marzo 1996)
Sono molto belle le musiche di Jack Nitzsche, e nel film troviamo molti attori che poi sarebbero diventati famosi, come Danny De Vito (ancora coi capelli in testa), Christopher Lloyd (lo zio Fester e “Ritorno al futuro”), Brad Dourif (che è il giovane Billy), e il nero Scatman Crothers in duo con Nicholson, come sarà poi in “Shining”(qui è lo sciagurato guardiano del turno di notte, nel finale del film). Ma la mia favorita è la bionda Louise Fletcher, che continuo a trovare bellissima e bravissima, qui alle prese con una parte davvero ingrata, che risolve alla grande; ed è molto piacevole da vedere anche la morettina che le fa da assistente, quasi sempre in silenzio, e della quale non conosco il nome. Il film è del 1975, ed ha un contemporaneo importante in “Stroszek” di Werner Herzog: anche qui c’è una barca che gira in tondo su se stessa (Herzog usa un camion, come aveva già fatto nei suoi “Nani” del 1971), ma qui è una metafora allegra. Un’allegria che purtroppo durerà poco.
2 commenti:
i veri matti sono gli psichiatri, sia nel film in questione che nella realtà
leggi questo articolo, per gli psichiatri adesso mangiare cibo sano è segno di follia
Hai molte ragioni, però è un discorso molto ampio e qui mi sono limitato a parlare del film. A proposito della lobotomia, che è centrale nel film, mi aveva colpito molto la storia della sorella di John F. Kennedy (presidente degli USA, una delle famiglie più ricche ed influenti d'America), che fu fatta lobotomizzare più come capita a Nicholson nel film. Il motivo, se non ricordo male, era che la ragazza era piuttosto entusiasta nei confronti del sesso: il che è spaventoso, ma la lobotomia fu premiata con il Nobel per la medicina...
Rimanendo nel privato, molte volte mi è capitato di pensare, incontrando persone strambe ma ben inserite nel mondo del lavoro (e produttive): ecco, questo/questa prima della Legge Basaglia sarebbe stato rinchiuso.
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