LA VIE EST A NOUS (t.l.: La vita è nostra, 1936). Regia: Jean Renoir, André Zwoboda, Jean-Paul Le Chanois, Jacques Becker, Pierre Unik, Henri Cartier-Bresson; Soggetto e sceneggiatura: Jean Renoir, Paul Vaillant-Couturier, Jean-Paul Le Chanois, André Zwoboda, eccetera; Fotografia: Louis Page, Jean Isnard, Jean-Serge Bourgoin, Alain Douarinou, Claude Renoir, Hayer; Musica: L'Internazionale, canti del Fronte Popolare interpretati dal coro di Parigi, canzoni del Komsomol (di Shostakovich), ecc.; Interpreti: Jean Dasté (il maestro), Jacques B. Brunius (presidente del consiglio d'amministrazione), Simone Guisin (una signora al Casinó), Teddy Michaux (un fascista), Pierre Unik (segretario di Marcel Cachin), Max Dalban (Brochard), Madelaine Sologne (un'operaia), Fabien Loris (un operaio), Émile Drain (Gustave Bertin), Charles Blavette (Tonin), Jean Renoir (il padrone del bistrot), Madeleine Dax (una segretaria), Roger Blain (un metalmeccanico), Sylvain Itkine (il contabile), Georges Spanelly (il direttore dell'officina), Fernand Bercher (il segretario), Eddy Debray (l'usciere), Henri Pons (Lecocq), Gabrielle Fontan (signora Lecocq), Gaston Modot (Philippe), Léon Larive (un cliente dell'asta), Pierre Fervar (secondo cliente), Julien Bartheau (René), Nadia Sibiskaia (Ninette), Marcel Lesieur (il padrone del garage), O'brady (Mohammed), Marcel Duhamel (Moutet), Tristan Sevère (uno scioperante), Guy Favière (vecchio scioperante), Muse d'Albret (una scioperante), Jacques Becker (il giovane scioperante), Claire Gérard (una borghese), Jean-Paul Le Chanois (P'tit Louis), Charles Charras (un cantante), Francis Lemarque (secondo cantante). Nel corteo finale: Vladimir Sokoloff, François Viguier, Yolande Oliviero, Madelain Sylvain e, interpretando se stessi, Marcel Cachin, André Marty, Paul Vaillant-Couturier, Renaud Jean, Martha Desrumeaux, Marcel Gitton, Jacques Duclos, Maurice Thorez, e con la partecipazione involontaria del colonnello de la Rocque; Produzione: Partito comunista francese.
Durata: 60 minuti.
Negli anni ’30, i film di propaganda nazisti e fascisti parlano di guerra; i film di propaganda socialisti e comunisti parlano di solidarietà e di assistenza alle famiglie. Intendiamoci: i film di propaganda finiscono col somigliarsi un po’ tutti, e in quel periodo ne vengono prodotti molti. Ma questa è una distinzione che mi ha sempre colpito, e il motivo è chiaro: l’esaltazione della guerra è tipica del fascismo, è il suo carattere fondamentale fin dai suoi inizi, dalla “guerra come pulizia del mondo” di matrice futurista . Lo ha detto e scritto Marinetti, più volte: “la guerra come igiene del mondo”, se non ricordo male. In “La vie est à nous” questo concetto tipicamente fascista viene spiegato con estremo realismo e dovizia di particolari: dalla fotografia di un soldato morto nella Grande Guerra nasce il simbolo del teschio, così caro alle milizie di Mussolini e di Hitler.
Pensando al fatto che questo film è del 1935, la sorpresa più grande è scoprire che la morte, la decomposizione e la putrefazione dei corpi umani, è per molti ancora oggi un ideale da perseguire: visto che siamo ormai a metà nell’anno 2010, c’è da aver paura al pensiero che nazisti e fascisti abbiano molti seguaci, e giovani. Cosa ci aspetta nel futuro?
Guardando oggi “La vie est à nous” fa certo impressione vedere esaltati l’URSS e Stalin, ma questo è un film del 1935: i mezzi di informazione erano ancora limitati alla radio (che in Italia era completamente in mano alla dittatura) e ai giornali (che in Italia erano stati tutti asserviti al fascismo). Informarsi correttamente era quasi impossibile, in quel 1935: anche in Francia, la stampa era quasi tutta propagandistica, e i grandi giornali erano proprietà della destra: di chi fidarsi? In queste condizioni, mancando informazioni di prima mano dall’Unione Sovietica, ci si affidava alla speranza che – almeno là – ci fosse un mondo migliore. Non era così, ma la stampa libera sarebbe arrivata solo molti anni dopo.
Piuttosto, fa molta più impressione oggi, con tutti i mezzi di conoscenza che abbiamo a disposizione, e senza più analfabeti, vedere giovani istruiti, magari diplomati e laureati, che danno ancora credito a Mussolini: basterebbe guardare una mappa dei confini d’Italia prima e dopo il fascismo per capire i danni provocati dal fascismo. E, quanto a Hitler e al nazismo, che dire: se io sapessi di qualcuno che ha ucciso e bruciato una persona – una sola persona, intendo – gli girerei alla larga, e penso che così farebbero tutte le persone di buon senso; invece c’è chi discute sul numero delle persone ammazzate e bruciate, come se centomila morti innocenti ammazzati e bruciati in più o in meno facesse differenza.
Ma io sono qui per parlare di Renoir, e non voglio rubare altro spazio al lavoro del grande regista francese. “La vie est à nous” è un film a episodi, girato a più mani: difficile sapere chi ha girato questa e quella sequenza, a tratti sembra di riconoscere lo stile del grande fotografo Cartier-Bresson, che è tra gli autori del film, ma sappiamo che fu proprio Renoir a sovrintendere il montaggio finale e a girare molte sue parti. Nel film si vedono i principali esponenti del PCF (l’unico nome che conosco è quello di Maurice Thorez) e molte sue parti sono pura propaganda, ma a questo ci si arriva da soli e non c’è bisogno di soffermarsi più di quel tanto. Direi soltanto che colpisce l’ingenuità di certe asserzioni: come se bastasse uno sciopero in fabbrica per risolvere i problemi...Di scioperi se ne fecero moltissimi, pagati a durissimo prezzo; e, soprattutto, in quel 1935 il peggio doveva ancora venire.
Il film si apre con un volto famoso, quello di Jean Dasté: gli spettatori di “Fuori orario” lo vedono da più di vent’anni tuffarsi nella Senna e risalirne cercando di ritrovare la visione della donna amata (il film, per chi non sapesse, è “L’Atalante” di Jean Vigo, quasi contemporaneo a “La vie est à nous”). Dasté interpreta un maestro elementare con i suoi scolari, una lezione dove si mostra che il patriottismo non è solo della destra, anzi: la destra vanta una patria dove ci sono padroni e servi, e dove la ricchezza è destinata a pochi e non sempre ai migliori. All’uscita dalla lezione, i bambini si chiedono: ma se la Francia è un paese così ricco, come mai noi siamo poveri? Uno dei bambini osserva: “Sei povero perché tuo padre non lavora”; ma la risposta del primo bambino è sconsolata: “No, perché anche quando mio padre lavorava eravamo poveri”.
La richiesta di una paga migliore, e di orari migliori, è al centro anche del secondo episodio, che si svolge in fabbrica: un lavoratore anziano viene licenziato perché il suo rendimento non corrisponde allo standard richiesto, e verrà riassunto solo dopo uno sciopero a cui partecipano tutti gli operai del suo reparto. E’ forse l’episodio più bello, i personaggi sono molti e tutto è molto ben recitato e ben fatto: rimane, come si diceva prima, l’ingenuità di fondo; ma penso che la realtà quotidiana fosse ben chiara a tutti. “Ma gli mancano solo due anni per andare in pensione!” protesta uno degli impiegati, incaricato di preparare la liquidazione del vecchio; la risposta del capo non la trascrivo perché la conosciamo già, dato che è una cosa che torna a succedere anche ai giorni nostri, anno 2010.
Il terzo episodio si volge in campagna, dove Gaston Modot, volto notissimo del cinema francese di quegli anni (sarà il guardacaccia Schumacher in “La regola del gioco” di Jean Renoir) evita con modi divertenti la vendita all’asta della fattoria di suoi parenti finiti invischiati in un giro di usurai. Nel quarto episodio, l’ultimo, torniamo in città per assistere alla ricerca del lavoro da parte di un giovane che si è appena sposato: è diplomato, ma gli offrono solo lavori da lavamacchine. Non gli resta che rivolgersi alla “beneficenza” dei ricchi, ma anche qui le umiliazioni non mancano, e l’arroganza dei benestanti è ben mostrata dagli attori (posso assicurare che persone così non mancano e non mancheranno mai, purtroppo ne ho incontrate diverse anch’io).
Il film finisce con un corteo dove tutte le persone che abbiamo visto nel film cantano “L’Internationale”; ma prima non manca una scena che ritornerà, però ben mascherata e sublimata dal punto di vista narrativo, in “La regola del gioco”: i ricchi signori annoiati che fanno il tiro a segno su sagome di cartone vestite con abiti “da pezzenti”.
Da destra ci si chiede spesso perché quasi tutti i grandi registi siano di sinistra. Non è una questione di lobby, nessuno ha mai vietato ai “destrorsi” di fare film, e anzi i “padroni” del cinema sono quasi tutti di destra. Il fatto è che stando a sinistra, proprio per formazione culturale, ci si trova ad interessarsi della gente, dei singoli, a seguire storie umane toccanti e interessanti. Ci si trova magari anche ad amare le persone di cui si sta parlando: e questo piace, i film fatti così hanno successo. Insomma, una banale questione di audience, come si direbbe oggi, e di professionalità: “La vie est à nous” non fa eccezione, e pur nell’ambito del film di propaganda contiene storie belle e bei personaggi, e riesce anche a divertire.
« In una esperienza di tipo cooperativo Jean Renoir si cimenterà subito dopo, accettando di girare per conto del Partito comunista francese un film nel quale non sono secondarie le intenzioni di propaganda. La vie est à nous (1936) può essere considerato un film a episodi che porta la firma di Renoir perché egli ne ha curato la regia generale, ma alcune parti sono state in realtà dirette da Jean-Paul la Chanois, Jacques Becker, André Zwoboda, Pierre Unik e Henri Cartier-Bresson.
E’ un'esaltazione della classe operaia e della forza con la quale essa può agire, quando si muove
compatta per vincere le ingiustizie. Vi troviamo quel tipo di ottimismo programmatico presente in molti film sovietici che rievocano, esaltandole, le vicende della rivoluzione russa. Di questi film ci si ricorda anche per l'inserimento di parti dal vero, prelevate dai cinegiornali di attualità, che mostrano personaggi politici, della sinistra o della destra francese, ovviamente in contesti dall'opposto significato.
Fino a che punto Renoir condividesse i temi e la rigida impostazione ideologica del film è difficile precisare. Certo, la sua natura tendenzialmente anarchica si era rapidamente evoluta sia attraverso i contatti con gli intellettuali parigini, sia per la partecipazione agli avvenimenti di quel periodo. Il Fronte Popolare, la guerra di Spagna avevano toccato anche lui (nel 1937 sarà l'autore e il lettore del commento all'edizione francese di Terre d'Espagne di Joris Ivens), senza però farlo avvicinare al partito comunista più di quanto fosse lecito a un intellettuale borghese di cultura illuminata e liberale. Non fece perciò “Le vie est à nous” come un lavoro su commissione, ci mise anche del suo, e del suo entusiasmo. Si vede però che il suo umanitarismo non gli permette di aderire sino in fondo alle tesi che il film sviluppa. Cosí si alternano trovate indiscutibilmente renoiriane con brani piú rigorosamente e programmaticamente ideologici. Senza dubbio alle prime appartiene la premessa del film, l'apologo del maestro che esalta le ricchezze della Francia a una scolaresca che, uscita di scuola, paragona incredula quel ritratto alla povera realtà che essi vivono quotidianamente in famiglia.
“La vie est à nous” è purtroppo il film che si è visto di meno: nel 1936 non ottenne il visto di censura e fu proiettato irregolarmente in visioni private a pubblici popolari. Dopo la guerra fece sporadiche apparizioni nei circuiti dei cineclub. Il maggio francese ne ha infine rilanciato l'importanza, non piú soltanto in sede di circoli culturali ma anche in quella di assemblee politiche. Quantunque ne La vie est à nous Renoir dimostri di non sapersi inquadrare in un rigido schema ideologico, l'esperienza del film non mancherà di lasciare tracce nel suo lavoro: quell'esperienza lo ha messo a vivo contatto con la realtà e con i problemi concreti di un mondo che fin lì aveva esplorato ma dall’esterno, da acuto cronista. Nel 1936 la sua personale ideologia si stava ancora maturando, la sua comédie humaine non è ancora sfociata nelle opere più significative. Il bilancio, tuttavia, è già promettente, alquanto articolato e non privo di acuti (...)
(da “Jean Renoir” di C.F. Venegoni, ed. Castoro Cinema- La Nuova Italia)
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