Tokyo Ga (1983). Regia, soggetto, sceneggiatura di Wim Wenders. Fotografia: Ed Lachman. Documentario su Yasujiro Ozu e sul Giappone. Con Chishu Ryu, Yuharu Atsuta, Werner Herzog, Chris Marker. Musica: “Dick Tracy” (Laurent Petitgand, Mèche Mamacier, Chico Ortega). Durata originale: 92 minuti.
“Tokyo Ga” significa “immagine di Tokyo”. E’ un documentario su Tokyo, e sul grande regista giapponese Yasujiro Ozu: ipnotico e affascinante, è per molti versi da considerare come il prologo a “Il cielo sopra Berlino”.
« La tomba di Ozu non ha nome, solo un antico ideogramma cinese: Mu, che significa “il vuoto, il nulla”. Tornando, in treno, pensavo a quell’ideogramma. Da bambino avevo spesso provato ad immaginare il Nulla. L’idea stessa mi incuteva paura: il Nulla. Cercavo di negarne l’esistenza, poteva solo esistere ciò che era reale, la realtà.... Non c’è nozione più inutile e vuota nel contesto del cinema. Ognuno apprende da sè ciò che significa la percezione della realtà. Si vedono gli altri, soprattutto chi amiamo, e si vedono le cose che ci circondano: le città, i paesaggi... Si vede anche la morte. La mortalità degli uomini, la fragilità delle cose, si vede e si vive l’amore, la solitudine, la felicità, la tristezza, la paura... Insomma, ciascuno vede per conto proprio la vita e riconosce da solo lo scarto, spesso ridicolo, tra le esperienze personali e le rappresentazioni al cinema. Si è talmente abituati a questo scarto, ci sembra così evidente che cinema e vita si siano distanziati, che quando vediamo qualcosa di vero, di reale, che sia un uccello che attraversa l’immagine o una nuvola che proietta per un istante la sua ombra, o il gesto di un bambino ripreso in secondo piano, restiamo sorpresi al punto di farci trattenere il respiro. E’ raro nel cinema d’oggi che tali momenti di verità si riproducano, che gli uomini e le cose si mostrino come sono. Era questo l’incredibile dei film di Ozu, soprattutto gli ultimi. Tali momenti di verità non erano solo dei momenti, ma una verità estesa dalla prima immagine all’ultima. Erano film che parlavano della vita stessa, nei quali si rivelavano uomini, cose, città, paesaggi. Una tale rappresentazione della realtà, una tale arte, non esistono più nel cinema. Lo erano un tempo. Mu, il vuoto... Ecco cos’è che regna attualmente.»
Ozu ha filmato Tokyo per quarant’anni, attraverso delicate storie familiari, e ne ha registrato i cambiamenti, dagli inizi con il cinema muto fino al 1963, anno della sua morte. Ma “Ozu è grande per conto suo, non c’è bisogno che io ne stia a parlare”, dice Wenders; e aggiunge: « Il mio viaggio a Tokyo non ha nulla del pellegrinaggio: ero solo curioso. Avrei trovato ancora qualche traccia? Forse qualche immagine o qualcuno che l’aveva conosciuto; o forse Tokyo era tanto cambiata dalla morte di Ozu da non poterla più riconoscere? La memoria mi ha abbandonato, non ho più ricordi. Ero a Tokyo, questo lo so: era la primavera dell’83. Avevo puntato una cinepresa ed ho filmato. Quelle immagini esistono e sono diventate la mia memoria, ma penso che se ci fossi andato senza cinepresa ora i miei ricordi sarebbero più nitidi.»
Nel 1983 il Giappone era una potenza che metteva paura, le sue aziende comperavano ditte che erano il simbolo stesso degli USA (come la CBS Columbia); oggi è passato di moda e si parla solo della Cina, negli stessi termini in cui si parlava del Giappone fino a una decina d’anni fa. Nel frattempo, da quel 1983 è passato un quarto di secolo, molte delle immagini di Wenders, che all’epoca erano nuove, oggi sono diventate esse stesse reperti d’epoca: i giapponesi che giocano a golf in grandi stadi coperti, le ragazze e i ragazzi in stile rockabilly, le architetture del metrò, i videogames e e il Pachinko, il grande gioco d’azzardo simile a un flipper, ormai non stupiscono più nessuno; e anche per noi è diventata una cosa normale incontrare per strada bambini con i tratti orientali.
La parte più bella del film, spesso toccante, è quando Wenders incontra Chishu Ryu e Yuharu Atsuta, attore e cameraman di fiducia di Ozu. Chishu Ryu è un uomo ancora molto bello, elegante; con lui Wenders va alla tomba di Ozu. Di Chishu Ryu dice Wenders: «Con l’aiuto dell’interprete gli chiesi se Ozu era solito provare a lungo. Ovviamente, dipendeva dalla scena che si stava provando: in genere, bastavano 2-3 prove, poi si girava. Ma nel suo caso, bisogna ammetterlo, era raro che Ozu fosse soddisfatto alle prime riprese. Con Chishu Ryu spesso ci voleva molto più tempo: si ricordava perfino di aver provato una scena 20 volte, e di averla anche girata 20 volte, ma non sapeva ciò che non andava. Diceva a se stesso: "Anche il peggiore dei tiratori prima o poi colpisce il bersaglio, se gli si concede tempo sufficiente." Ozu gli aveva chiesto, con molto tatto: "Non è il suo giorno, Ryu, o sta cercando di mettermi alla prova?"
Anche l’incontro con Atsuta è commovente, e si meriterebbe uno spazio a sè per il suo racconto, cioè il racconto del lavoro nel cinema. Atsuta mostra nei dettagli come lavorava Ozu: teneva la macchina da presa bassissima, a livello terra: la visuale di un uomo seduto alla giapponese, in casa. « Nei suoi ultimi anni, dalla maturità in poi, Ozu usava solo il 50mm, un teleobiettivo leggero, con la macchina da presa rigorosamente fissa, sistemata all’altezza di una persona seduta: la visuale era quella, sempre.» Yuharu Atsuta ha ottant’anni e sembra un adolescente. Si commuove solo alla fine, vorrebbe piangere e chiede di finire l’intervista; fin lì era stato meticoloso e preciso, entusiasta nel raccontare tutte le minime cose relative al maestro Ozu e ai suoi film.
Nel suo giro per Tokyo, alla ricerca dei luoghi di Ozu, o di situazioni che lo avrebbero interessato, Wenders sale sul punto più alto della città, la Torre. Sulla Tokyo Tower, incontra Werner Herzog: è a Tokyo di passaggio, sta per andare in Australia (vi girerà “Dove sognano le formiche verdi”). Herzog è elegantissimo, giacca e cravatta e abito scuro: il che sembra strano per un avventuriero come lui, ma probabilmente è il mezzo migliore per mimetizzarsi. Insieme guardano la città dall’alto, e a Werner Herzog non piace quello che si vede: « Le cose stanno così: ormai restano poche immagini. Osservando il panorama da qui, si vedono solo edifici. Le immagini non sono più possibili; bisognerebbe cominciare a scavare, come un archeologo, con una vanga, per riuscire a ritrovare qualcosa di questo paesaggio offeso. Infatti io non mostro mai questo genere di cose. Oggi ci sono pochissime persone in questo mondo che lottano per il bisogno di immagini adeguate. Abbiamo assolutamente bisogno di immagini che si armonizzino con la nostra civiltà e il nostro intimo più profondo; a volte bisogna affrontare una dura lotta per ottenerle. Io non mi lamento del fatto che spesso di debba salire su una montagna alta ottomila metri per trovare delle immagini pulite, chiare e trasparenti... Ma qui non c’è più niente. Bisogna cercare bene. Andrei anche su Marte o Saturno se un’astronave mi ci portasse. Su questa terra è diventato difficile trovare quella trasparenza delle immagini che una volta era presente. Io andrei ovunque per trovarle.»
Ma quel panorama artificiale a Wenders piace, e qui emergono le differenze tra i due grandi registi tedeschi: « Benché capissi la ricerca di Werner per le immagini pure e trasparenti, le immagini che io cercavo erano solo quaggiù nel caos della città. Nonostante tutto, Tokyo continuava a colpirmi.»
Wenders intende dire che la Tokyo moderna colpisce ancora come quella vista nei film di Ozu: del resto, Ozu aveva iniziato a mostrare i primi cambiamenti “americani”, i rockers, le gonne, i jeans, la radio, la tv... Qualcosa di simile è successo e sta succedendo anche da noi, come spiegava bene Pasolini negli anni ’70, e come abbiamo visto tutti in seguito: confesso che, anche se capisco il parere di Wenders (berlinese di città) il panorama di cemento non mi è mai piaciuto molto e sto più dalla parte di Herzog (bavarese, cresciuto in montagna), che ama avere davanti l’orizzonte e magari vedere in cielo le stelle e non le insegne al neon. Wenders gira per Tokyo in cerca del mondo di Ozu, ma non lo trova più, tutto è cambiato e il Giappone (a Tokyo) è ormai interamente americanizzato. Nei film di Ozu tutto era più lento e dolce, oggi è tutto duro e colorato artificialmente, musiche e rumori elettronici hanno sostituito le vecchie voci e i silenzi. Rimangono le immagini dei treni, treni superveloci che hanno sostituito le locomotive di “Viaggio a Tokyo”, il film di Ozu che vediamo all’inizio e alla fine di “Tokyo Ga”.
« I treni, tutti i treni dei film di Ozu. Non c’è un solo suo film dove non si veda un treno.»
(Wim Wenders, speaker in Tokyo-Ga)
4 commenti:
Un documentario molto bello, fra i migliori di Wenders. Affascinante per chi (come me) è sensibile al fascino del Giappone, comprese le sue contraddizioni e le bizzarrie "moderne" (come i cibi di plastica da esporre nei ristoranti: a Tokyo c'è un intero quartiere, Kappabashi, dedicato alla loro produzione), e naturalmente anche per chi ama e ha amato il grandissimo Ozu.
A me piace molto anche come riflessione sul cinema in generale, e ho trovato molto bello l'intervento di Herzog.
Ma tutto il film è bello, penso che piacerà anche a chi non conosce Ozu. Wenders era in un momento di grazia, se non sbaglio aveva appena conosciuto Solveig Dommartin...
Ho molto amato anch'io Tokyo-Ga.
Grazie Giuliano per questa splendida recensione.
Grazie a te, Adalberto (e grazie a Wenders, che ci ha regalato tante cose belle e inaspettate).
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