Il diavolo, probabilmente (Le diable, probablement - 1977). Regia di Robert Bresson Fotografia di Pasqualino De Santis. Musica: nella sequenza della chiesa di Saint Remy, “Ego dormio, et cor meum vigilat” di Claudio Monteverdi . Musiche originali di Philippe Sarde. Con Antoine Monnier (Charles), Tina Irissari (Alberte), Laetita Carcano (Edwige), Henri de Maublanc (Michel), Geoffroy Gaussen (il libraio), Nicolas Deguin (Valentin), Regis Hanrion (lo psicoanalista). Durata: 95 minuti.
Si inizia con una notizia di cronaca, a Parigi: un giovane creduto suicida al Père Lachaise in realtà è stato ucciso. Se fosse il film di un altro regista, questo sarebbe un thriller in piena regola; e non si può dire che non lo sia, dato che solo alla fine sapremo tutta la verità. Ma questo è un film di Bresson, e il termine “thriller” o “giallo” lo si può usare solo nel modo in cui è stato usato, anche da critici importanti, per i romanzi di Dostoevskij. In fondo, anche “I fratelli Karamazov” è un thriller: chi ha ucciso il vecchio ricco ubriacone? Uno dei suoi figli, ma quale? Anche questo lo sapremo solo leggendo il libro.
Ho provato molte volte a leggere libri su Bresson, e sono sempre rimasto deluso. Forse Bresson è difficile da inquadrare, chissà. Si parla di cattolicesimo, di filosofia, si discute sul suo modo di girare un film e di raccontare una storia, e alla fine non rimane in tasca niente. Alle volte ho l’impressione che anche i critici più illustri non abbiano visto fino in fondo i film di Bresson, e non li biasimo perché sono film terribilmente difficili, e Bresson – che è un autore di enorme fascino - non fa assolutamente nulla per farsi piacere dal suo pubblico. Anzi, sono leggendarie, ormai una sintesi del suo stile, le sue riprese del torneo cavalleresco in “Lancillotto del lago”: che riguardano quasi esclusivamente gli zoccoli dei cavalli. Il torneo dei cavalieri c’è, non manca niente, ci sono le dame e i cavalieri, costumi e arredi sono megnifici e perfetti, ma noi vediamo quasi soltanto la terra calpestata dai cavalli, le zampe e gli zoccoli.
L’unica certezza che mi porto dietro, riguardo a Bresson, è Dostoevskij: per quanto riguarda questo film, soprattutto “L’idiota”, e soprattutto per le figure femminili: ma questo film è diversissimo dall’Idiota di Dostoevskij, che appare solo come un’eco, o un’ombra. Direi perciò che la cosa migliore da fare è provare a dare voce direttamente a Bresson, saltando i convenevoli e i riassunti e passando direttamente alla scena che dà il titolo a questo film, un titolo che colpisce: “Il diavolo, probabilmente.”
Trascrivo qui i dialoghi (siamo poco oltre la metà del film) con un’avvertenza: nei film di Bresson non si grida mai, si parla. Anche là dove io ho messo i punti esclamativi, la frase viene semplicemente detta, nel tono più neutro possibile.
La scena è questa: i due protagonisti maschili, molto giovani, stanno tornando a casa dopo aver assistito a una conferenza (o una lezione universitaria) sulla bomba atomica. Uno dei due, il maggiore, fa parte di un movimento ambientalista; molte sequenze del film sono già state dedicate all’inquinamento, alla fame nel mondo, ai nostri sprechi quotidiani (il film è di trent’anni fa, 1977: da allora le cose non sono migliorate, c’è stato qualche progresso ma nel complesso la situazione è ancora più drammatica).
Vediamo immagini di bombe atomiche, e di centrali nucleari. Una lezione universitaria, o forse una conferenza. Il relatore (giovane, sotto i trent’anni) spiega con termini tecnici precisi, poi dice che “ingegneri e tecnici ci stanno pensando”, e risponde alle domande con tono positivo e tranquillizzante.
- "Consoliamoci, saranno le generazioni future a pagare”, è il commento di Charles e Michel.
Poi, sul tram, i due tornano a casa e continuano a ragionare sulla conferenza e sulle parole del relatore. Bresson illustra il dialogo con sequenze quasi documentarie: i viaggiatori che salgono e scendono, le porte, l’obliteratrice, i gradini, gli specchietti, le manovre dell’autista. Tutto molto usato ma molto ordinato e pulito.
Charles: Per tranquillizzare la gente basta negare l’evidenza.
Michel: Quale evidenza? Siamo in pieno soprannaturale, niente è visibile. (...)
Charles: I governi hanno la vista corta.
Primo passeggero (un uomo tranquillo sui 40, voltandosi da davanti): Non prendetevela con i governi! In questo momento, in tutto il mondo, nessuno e nessun governo può vantarsi di governare. Sono le masse a determinare gli eventi, e forze oscure di cui è impossibile conoscere le leggi.
Voci di altri passeggeri (mentre è inquadrato lo specchietto retrovisore esterno del tram):
Voce femminile: La verità è che qualche cosa ci spinge contro quello che siamo.
Voce maschile: Bisogna starci, starci sempre.
Altra voce maschile: Se no passi per quello che protesta sempre.
Voce maschile: Ma chi è allora che si diverte a farsi beffe dell’umanità?
Altra voce: Già, chi ci manovra sotto sotto?
Primo passeggero (inquadrato): Il diavolo, probabilmente.
Frenata improvvisa, un incidente. Il conducente scende a controllare. Clacson, rumori di strada, inquadratura ferma sulla porta aperta e sull’estintore a lato guida.
Il bello è che questa scena si potrebbe tranquillamente tagliare: ai fini della storia che ci viene raccontata è del tutto ininfluente. Il passeggero che dice la battuta sul “diavolo, probabilmente” non lo avevamo visto prima e non lo vedremo più, Charles e Michel non fanno niente di particolare, stanno seduti, nessuno li disturba, sono come gli altri passeggeri del tram. Un tram dove si sale e si scende, come la nostra vita; un viaggio dove magari succedono delle cose, ma sono fuori, per strada, e non ci toccano: o almeno così crediamo. Possiamo passare tutta la nostra vita, dentro a quel tram, a chiacchierare dei massimi sistemi ignorando tutto quello che succede a due passi da noi.
In una scuola per sceneggiatori, nove volte su dieci la indicherebbero come un errore, una cosa inutile da togliere per non appesantire. Invece il senso del film sta qui, mettendo questi dialoghi e questa situazione l’autore ci invita a riflettere su quello che abbiamo visto e su quello che sta per succedere.
Torniamo indietro a sei mesi prima, all’inizio del film.
I protagonisti sono quattro, due ragazzi e due ragazze. Il personaggio principale è Charles, le due ragazze sono Alberta ed Edvige; tutte e due sono legate a Charles. Il quarto è Michel, elegante, ambientalista. Sono tutti volti rohmeriani, facce pulite, bei volti, eleganti. L’unico che appare un po’ trasandato è Charles, ma a Bresson il trasandato vero non riesce, Charles somiglia più a un Cristo giovane che a un hippy, nonstante i capelli lunghi e il borsone di tela a fiori. Sono tutti giovani dall’aspetto pulito, virginale, quasi angelico; gonne e golfini per le ragazze, ben pettinati e vestiti con cura anche i ragazzi.
Una delle ragazze (lo vedremo più avanti) ha una relazione con un libraio poco più vecchio dei quattro, sui trent’anni, che la paga per stare con lui. Il libraio è una presenza un po’ mefistofelica: non tanto nell’aspetto quanto nei suoi comportamenti.
Un sesto protagonista appare verso la fine: è Valentin, amico di Charles. Valentin si droga, Charles cerca di aiutarlo ma si metterà nei guai per aiutarlo. Nel finale, sarà Valentin a dare “l’aiuto da antico romano” all’amico.
(continua)
mercoledì 27 gennaio 2010
The Truman Show
The Truman Show (1998) Regia di Peter Weir. Scritto da Andrew Niccol. Fotografia: Peter Biziou. Musiche di Mozart, Brahms, Glass, Chopin, Kilar; molte canzoni. Musica originale di Burkhard von Dallwitz. Con Ed Harris (Christof), Jim Carrey, Laura Linney (la moglie), Noah Emmerich (l’amico Marlon), Natascha McElhone (Lauren), Brian Delate (padre di Truman) Holland Taylor (madre di Truman) Paul Giamatti, Philip Glass, Olan Jones e Christa Ann Landolfi (le due cameriere) Terry Camilleri (l’uomo nella vasca) David A. Nash (l’autista) . Durata:103 minuti
Delle nostre vite non capiamo quasi nulla, ci sono momenti in cui si ha davvero l’impressione che sia “il racconto di un idiota:” «La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strèpito e di furore, e senza alcun significato...» (William Shakespeare, Macbeth, atto quinto scena quinta. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)
Jaques: All the world's a stage,
and all men and women merely players.
They have their exits and their entrances,
and one man in his time plays many parts,
his act being seven ages.
(William Shakespeare, As you like, atto secondo scena settima )
(il mondo intero è un palcoscenico; uomini e donne sono soltanto degli attori, con le loro entrate e le loro uscite; e ognuno, nel tempo che gli è dato, recita molte parti: essendo la sua parte le sette età).
Alle volte nelle nostre vite succedono cose inspiegabili, magari di poco conto, che ci lasciano perplessi (“puzzles my mind...”) Il più delle volte ce le dimentichiamo subito, altre volte ce le portiamo dentro per anni o per tutta la vita. Per esempio: come mai non ho più rivisto quella ragazza che vedevo tutte le domeniche in chiesa? Come mai non sono riuscito a prendere l’aereo quel giorno? Perché non sono più riuscito a suonare il piano, pur essendo arrivato a un buon punto? Chi era la ragazza dell’83, all’ospedale? Come è stato possibile ritrovare di colpo le mie due care amiche che avevo perso di vista per tanti anni?
E ancora, ma in un ambito più serio: perché alcuni si salvano, da Auschwitz, dagli incidenti stradali, dalle guerre, dalle catastrofi naturali, e altri no? I reduci se lo chiedono da sempre, e non hanno risposta.
I went to the Garden of Love,
and saw what I never had seen :
a Chapel was build in the midst,
where I used to play on the green.
And the gates of this Chapel were shut,
and “Thou shalt not” writ over the door;
so I turned to the Garden of Love
that so many sweet flowers bore;
and saw it was filled with graves,
and tomb-stones where flowers should be;
and Priests in black gowns were walking their rounds,
and binding with briars my joys and desires.
(William Blake, The garden of love)
(sono andato al Giardino dell’Amore, e ho visto quello che non avevo mai visto: una Cappella era costruita lì in mezzo, dove andavo a giocare sul prato. E i cancelli di questa Cappella eran chiusi, e “tu non devi” era scritto sulla porta; così mi volsi verso il Giardino dell’Amore, che tanti bei fiori portava. E vidi che era pieno di tombe, e lapidi dove dovevano essere i fiori; e preti in nere vesti andavano intorno, e circondavano di rovi le mie gioie e i miei desideri)
Il soggetto di “The Truman Show”, il bambino che appena nato diventa protagonista di uno show televisivo e per il quale si costruisce un set apposito, gigantesco, popolato soltanto di comparse e dove perfino il cielo è finto, è opera di Andrew Niccol, scrittore e sceneggiatore che ha al suo attivo anche altri bei soggetti, come quello di “Gattaca” (del 1997, Niccol ne è anche il regista). E’ un film di fattura raffinatissima, non facile da girare, che ha avuto molti cloni e imitazioni ad un livello più elementare, più facili ed accessibili perciò più graditi al pubblico: il più riuscito è forse “Pleasantville”, che risolve tutta la questione giocando sull’alternanza fra colore e bianco e nero (curiosamente, "Pleasantville" è però uscito nello stesso anno, il 1998).
Riprendendo la visione dopo dieci anni, pur sapendo e ricordando già tutto, non sono riuscito a staccarmi da “The Truman Show” e l’ho rivisto tutto di un fiato, come al cinema. Abbiamo tutti una grande nostalgia dell’Eden, e anch’io non faccio eccezione.
« Anguste – pensò Mr. Pickwick – anguste sono le vedute di quei filosofi che, paghi dell’apparenza delle cose, non ricercano la verità che vi si cela dietro.»
(Charles Dickens, Il circolo Pickwick, capitolo primo)
Nessuno come Peter Weir sa filmare gli archetipi. Dietro la veste simpatica di un film sulla tv, Weir riprende il suo discorso già evidente in "L'ultima onda" e in "Fearless". Nel film australiano, l'avvocato veniva chiamato nel suo mondo, il mondo del sogno degli aborigeni. In “Fearless”, il film di Weir precedente, il protagonista dopo una miracolosa salvezza da un incidente aereo, cambia; sente che non è più la stessa persona di prima, e vorrebbe poter cambiare tutto il mondo in meglio, dandogli la sua stessa forza. Ma il tempo, e il mondo, lo riportano sui suoi binari obbligati: e qui ci si ricollega alla storia di Truman Burbank, quando ti senti un manichino metallico sui pattini, e c'è da qualche parte una potente e lontana calamita che ti attira a sè; e quindi molte strade ti sono vietate, non puoi sposare la donna che hai scelto, non puoi attraversare il mare, e così via. Lo stile di Weir è chiaro fin dall'inizio: avevo qualche dubbio su questo film, ma mi è bastata la scena della barca semiaffondata, all'inizio, per capire che Weir è ancora lo stesso. E, a proposito di archetipi, è indimenticabile la citazione di Achab (Huston) legato con la corda alla balena-nave... E' un film sul Destino, camuffato da satira tv. Ed è sconvolgente il potente cozzo della barca contro i nostri limiti, contro "il confine del mondo".
Non c'è nessun altro regista di cinema, come Peter Weir, che sappia filmare quello che c'è dietro la nostra realtà quotidiana. C'è un primo livello, nelle storie che racconta Weir, che è quello spettacolare, necessario per invitare la gente al cinema e farle passare un paio d'ore, magari discutendone dopo con gli amici; e c'è un livello nascosto, inquietante, non sempre facile da cogliere. Truman Show sembra una satira sulla tv, e infatti così ci è stato presentato: Jim Carrey, uno dei comici più strampalati degli ultimi anni, entra da grande attore nei panni del protagonista, un giovane che, a sua insaputa, è da più di vent'anni il protagonista di un reality show di grande successo. Tutti seguono, dalla tv, la vicenda del bambino Truman, dalla sua nascita fino all'inizio del film, quando Truman è ormai adulto. Il mondo intorno a lui è stato ricostruito con grande cura, e tutte le persone che incontra sono attori: ma lui non lo sa, e comincia a capirlo man mano che il film avanza. L’azione inizia nel momento in cui Truman comincia ad accorgersi che qualcosa non va; non descrivo i particolari per chi non avesse ancora visto il film, ma si può dire (è evidente fin dal principio) che Truman deciderà di fuggire. La conclusione è un colpo di scena divertente e ben trovato, direte voi. Anche il mare era una finzione, tutto era finto - ecco una satira della tv, molto ben fatta e molto intelligente. Tutto bene, ma io al cozzo della barca di Truman contro quella parete sono saltato sulla sedia. Troppo forte l'emozione: questi non sono i confini del mondo fittizio, ma di uno ben più reale. Truman è andato a cozzare contro i suoi limiti: quelli veri e quelli imposti dagli altri. E' come una seconda nascita, e d'ora in avanti la vita di Truman non potrà più essere la stessa. Questa ricerca del limite, il nostro scontrarci con i limiti, nostri e del mondo, fino a farci del male e persino a superarli o a scomparire dietro (o dentro) di essi è il tema principale delle opere di Peter Weir; solo che Weir è così bravo che riesce a farci credere che si sta occupando d'altro. Del nostro divertimento, per l'appunto.
« Confidiamo che il gentile lettore non ci sarebbe grato per una di quelle particolareggiate spiegazioni che sono così noiose e, alla fin fine, tanto insufficienti a spiegare i misteri romantici di una narrazione. Egli è troppo saggio per insistere a osservare da vicino il rovescio di una tappezzeria dopo che gli è stata spiegata in modo sufficiente la parte diritta, intessuta con la più alta maestria dall'artista e abilmente disposta perché ne risalti l'armonia dei colori. Se è stato raggiunto un effetto brillante, o bello o almeno discreto, questo campione di lettore benevolo l'accetterà per quel che vale, senza strapparne la trama col vano proposito di scoprire come sono stati intessuti i fili; poiché la sagacia che lo distingue gli avrà insegnato da tempo che ogni racconto di fatti e vicende umane - si chiamino storie o romanzi - è un manufatto d'indubbia fragilità, più facile a lacerarsi che a rammendare. L'esperienza reale, anche quella della vita più comune, è piena di eventi che non si spiegano mai, sia per quel che riguarda l'origine sia per quel che concerne la tendenza.» (Nathaniel Hawthorne “Il fauno di marmo”, cap.50)
Come Hawthorne, anche Peter Weir racconta una storia ma parla d’altro. Come Hawthorne, anche Weir è un grande stilista, nei suoi film è tutto molto vero e molto accurato, e la narrazione piacevole e avvincente. Negli arazzi di Weir, costruzioni complesse che si risolvono in disegni di cui l’aspetto esteriore gradevole è solo uno degli elementi, i personaggi hanno più risalto; e nei loro occhi, nei loro comportamenti, c’è sempre qualcosa che non ci viene spiegato e che sta a noi capire: un volo d’uccelli, un paesaggio, uno sguardo. Forse l’unico film di Weir totalmente esplicito è “L’ultima onda”, e come è giusto che sia è anche il suo film più difficile.
Un tema simile è presente anche in “L’attimo fuggente” (Dead poets society), girato dieci anni prima: «Quando i ragazzi scopriranno di non essere né Mozart né Byron ti odieranno. Quello che stai facendo è pericoloso.», dice un collega al professor Keating. Nel film, ambientato a scuola, Keating sorride e risolve la situazione con una battuta: ma sta davvero facendo qualcosa di molto pericoloso. Pericolosa è la ricerca di noi stessi, la ricerca del vero io, delle proprie potenzialità ma anche la scoperta dei propri limiti: guai a chi è troppo lucido e sensibile, un po’ di ottusità nella vita è fondamentale. Come diceva Pasolini, molto lucido e anche molto amaro, “il più delle volte una buona quinta elementare è quello che basta ad un figlio di operai; tutto quello che arriva in più, in termini di cultura, servirà solo a farli soffrire.” Ed è vero, con i propri limiti (quelli con cui siamo nati e quelli che ci vengono dall’esterno) bisogna fare i conti; e si soffrirà e si rischierà di naufragare, a meno di non imparare a guardare dentro se stessi. Per questo è importante avere a che fare con chi è diverso da noi, soprattutto con i deboli e i piccoli: e magari scoprire di essere “dalla loro parte”, come capita ad alcuni dei ragazzi di “L’attimo fuggente”: ma solo ad alcuni, perché nel finale non è tutta la classe a salire sui banchi, non tutti...
« (...) Non bisogna fraintendermi, non sto asserendo che l' arte è più grande della scienza, che il suo campo di interesse è più universale, che è più saggia nella triste ammissione dei suoi limiti. No, ciò che voglio dire è che a un certo livello, essenziale, l' arte e la scienza sono talmente vicine che è difficile distinguerle. La sola vera distinzione che posso trovare è che la scienza ha un' estensione pratica nella tecnologia, mentre l' arte no ... . Il critico Frank Kermode ha affermato che una delle maggiori attrazioni dell' arte è l'offerta di ciò che Kermode identifica come "il senso di una fine". La sensazione di completezza che il lavoro artistico emana, quella staticità, quella luminescenza, quel senso di entità superiore che finalmente si riposa nella quiete della sera, sono irreperibili altrove. Non possiamo ricordare il momento della nascita, né sapere che cosa si prova morendo. Nel mezzo c'è lo sgangherato circo dei giorni che viviamo e delle cose che facciamo. Ma in una poesia, in un quadro, in una sonata, il cerchio si chiude e la forma trionfa. E’ un inganno, ma nonostante ciò lo desideriamo. L' aspetto consolatorio dell' arte è molto importante e potente. (...) (John Banville, dal Corriere della Sera 28 febbraio 2009) (responsabile delle pagine culturali dell' "Irish Time", ha scritto diversi romanzi, tra cui: "La notte di Keplero", "La spiegazione dei fatti" e "L' intoccabile", editi da Guanda)
Davvero voi pensavate che si stesse parlando di tv?
P.S: Molto bella la colonna sonora. Siccome è elencata per esteso nei titoli di coda, mi fa molto piacere riportare tutte le musiche del film:
- Wolfgang A. Mozart, Sonata per pianoforte n.11 K331 (il terzo movimento, la famosa “marcia turca”)
- Wolfgang A. Mozart, Concerto per corno n.1 in re maggiore K412 (primo movimento, “allegro")
- Johannes Brahms, "Wiegenlied ": la ninna nanna più famosa del mondo, suonata da un carillon per cullare Truman appena nato.
- Chopin: Concerto per pianoforte n.1 in mi minore, op.11 (il secondo movimento, romance –larghetto)
- Philip Glass: "The Beginning"; "Living Waters"; "Anthem - Part 1"; "Opening" (Philip Glass appare brevemente anche nel film, è uno degli assistenti di Christof).
- "Twentieth Century Boy" di Marc Bolan, performed by The Big Six
- "Scales to America", di David Hirschfelder (David Hirschfelder & Orchestra, Mary Doummany arpa, dir. Ricky Edwards)
- "Love Is Just Around the Corner" di Leo Robin and Lewis E. Gensler, performed by Jackie Davis
- "Underground" di Burkhard von Dallwitz
- "Father Kolbe's Preaching" (Preghiera di Padre Kolbe) di Wojciech Kilar, Orchestre Philharmonique National de Pologne dir. Kazimierz Kord
Delle nostre vite non capiamo quasi nulla, ci sono momenti in cui si ha davvero l’impressione che sia “il racconto di un idiota:” «La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strèpito e di furore, e senza alcun significato...» (William Shakespeare, Macbeth, atto quinto scena quinta. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)
Jaques: All the world's a stage,
and all men and women merely players.
They have their exits and their entrances,
and one man in his time plays many parts,
his act being seven ages.
(William Shakespeare, As you like, atto secondo scena settima )
(il mondo intero è un palcoscenico; uomini e donne sono soltanto degli attori, con le loro entrate e le loro uscite; e ognuno, nel tempo che gli è dato, recita molte parti: essendo la sua parte le sette età).
Alle volte nelle nostre vite succedono cose inspiegabili, magari di poco conto, che ci lasciano perplessi (“puzzles my mind...”) Il più delle volte ce le dimentichiamo subito, altre volte ce le portiamo dentro per anni o per tutta la vita. Per esempio: come mai non ho più rivisto quella ragazza che vedevo tutte le domeniche in chiesa? Come mai non sono riuscito a prendere l’aereo quel giorno? Perché non sono più riuscito a suonare il piano, pur essendo arrivato a un buon punto? Chi era la ragazza dell’83, all’ospedale? Come è stato possibile ritrovare di colpo le mie due care amiche che avevo perso di vista per tanti anni?
E ancora, ma in un ambito più serio: perché alcuni si salvano, da Auschwitz, dagli incidenti stradali, dalle guerre, dalle catastrofi naturali, e altri no? I reduci se lo chiedono da sempre, e non hanno risposta.
I went to the Garden of Love,
and saw what I never had seen :
a Chapel was build in the midst,
where I used to play on the green.
And the gates of this Chapel were shut,
and “Thou shalt not” writ over the door;
so I turned to the Garden of Love
that so many sweet flowers bore;
and saw it was filled with graves,
and tomb-stones where flowers should be;
and Priests in black gowns were walking their rounds,
and binding with briars my joys and desires.
(William Blake, The garden of love)
(sono andato al Giardino dell’Amore, e ho visto quello che non avevo mai visto: una Cappella era costruita lì in mezzo, dove andavo a giocare sul prato. E i cancelli di questa Cappella eran chiusi, e “tu non devi” era scritto sulla porta; così mi volsi verso il Giardino dell’Amore, che tanti bei fiori portava. E vidi che era pieno di tombe, e lapidi dove dovevano essere i fiori; e preti in nere vesti andavano intorno, e circondavano di rovi le mie gioie e i miei desideri)
Il soggetto di “The Truman Show”, il bambino che appena nato diventa protagonista di uno show televisivo e per il quale si costruisce un set apposito, gigantesco, popolato soltanto di comparse e dove perfino il cielo è finto, è opera di Andrew Niccol, scrittore e sceneggiatore che ha al suo attivo anche altri bei soggetti, come quello di “Gattaca” (del 1997, Niccol ne è anche il regista). E’ un film di fattura raffinatissima, non facile da girare, che ha avuto molti cloni e imitazioni ad un livello più elementare, più facili ed accessibili perciò più graditi al pubblico: il più riuscito è forse “Pleasantville”, che risolve tutta la questione giocando sull’alternanza fra colore e bianco e nero (curiosamente, "Pleasantville" è però uscito nello stesso anno, il 1998).
Riprendendo la visione dopo dieci anni, pur sapendo e ricordando già tutto, non sono riuscito a staccarmi da “The Truman Show” e l’ho rivisto tutto di un fiato, come al cinema. Abbiamo tutti una grande nostalgia dell’Eden, e anch’io non faccio eccezione.
« Anguste – pensò Mr. Pickwick – anguste sono le vedute di quei filosofi che, paghi dell’apparenza delle cose, non ricercano la verità che vi si cela dietro.»
(Charles Dickens, Il circolo Pickwick, capitolo primo)
Nessuno come Peter Weir sa filmare gli archetipi. Dietro la veste simpatica di un film sulla tv, Weir riprende il suo discorso già evidente in "L'ultima onda" e in "Fearless". Nel film australiano, l'avvocato veniva chiamato nel suo mondo, il mondo del sogno degli aborigeni. In “Fearless”, il film di Weir precedente, il protagonista dopo una miracolosa salvezza da un incidente aereo, cambia; sente che non è più la stessa persona di prima, e vorrebbe poter cambiare tutto il mondo in meglio, dandogli la sua stessa forza. Ma il tempo, e il mondo, lo riportano sui suoi binari obbligati: e qui ci si ricollega alla storia di Truman Burbank, quando ti senti un manichino metallico sui pattini, e c'è da qualche parte una potente e lontana calamita che ti attira a sè; e quindi molte strade ti sono vietate, non puoi sposare la donna che hai scelto, non puoi attraversare il mare, e così via. Lo stile di Weir è chiaro fin dall'inizio: avevo qualche dubbio su questo film, ma mi è bastata la scena della barca semiaffondata, all'inizio, per capire che Weir è ancora lo stesso. E, a proposito di archetipi, è indimenticabile la citazione di Achab (Huston) legato con la corda alla balena-nave... E' un film sul Destino, camuffato da satira tv. Ed è sconvolgente il potente cozzo della barca contro i nostri limiti, contro "il confine del mondo".
Non c'è nessun altro regista di cinema, come Peter Weir, che sappia filmare quello che c'è dietro la nostra realtà quotidiana. C'è un primo livello, nelle storie che racconta Weir, che è quello spettacolare, necessario per invitare la gente al cinema e farle passare un paio d'ore, magari discutendone dopo con gli amici; e c'è un livello nascosto, inquietante, non sempre facile da cogliere. Truman Show sembra una satira sulla tv, e infatti così ci è stato presentato: Jim Carrey, uno dei comici più strampalati degli ultimi anni, entra da grande attore nei panni del protagonista, un giovane che, a sua insaputa, è da più di vent'anni il protagonista di un reality show di grande successo. Tutti seguono, dalla tv, la vicenda del bambino Truman, dalla sua nascita fino all'inizio del film, quando Truman è ormai adulto. Il mondo intorno a lui è stato ricostruito con grande cura, e tutte le persone che incontra sono attori: ma lui non lo sa, e comincia a capirlo man mano che il film avanza. L’azione inizia nel momento in cui Truman comincia ad accorgersi che qualcosa non va; non descrivo i particolari per chi non avesse ancora visto il film, ma si può dire (è evidente fin dal principio) che Truman deciderà di fuggire. La conclusione è un colpo di scena divertente e ben trovato, direte voi. Anche il mare era una finzione, tutto era finto - ecco una satira della tv, molto ben fatta e molto intelligente. Tutto bene, ma io al cozzo della barca di Truman contro quella parete sono saltato sulla sedia. Troppo forte l'emozione: questi non sono i confini del mondo fittizio, ma di uno ben più reale. Truman è andato a cozzare contro i suoi limiti: quelli veri e quelli imposti dagli altri. E' come una seconda nascita, e d'ora in avanti la vita di Truman non potrà più essere la stessa. Questa ricerca del limite, il nostro scontrarci con i limiti, nostri e del mondo, fino a farci del male e persino a superarli o a scomparire dietro (o dentro) di essi è il tema principale delle opere di Peter Weir; solo che Weir è così bravo che riesce a farci credere che si sta occupando d'altro. Del nostro divertimento, per l'appunto.
« Confidiamo che il gentile lettore non ci sarebbe grato per una di quelle particolareggiate spiegazioni che sono così noiose e, alla fin fine, tanto insufficienti a spiegare i misteri romantici di una narrazione. Egli è troppo saggio per insistere a osservare da vicino il rovescio di una tappezzeria dopo che gli è stata spiegata in modo sufficiente la parte diritta, intessuta con la più alta maestria dall'artista e abilmente disposta perché ne risalti l'armonia dei colori. Se è stato raggiunto un effetto brillante, o bello o almeno discreto, questo campione di lettore benevolo l'accetterà per quel che vale, senza strapparne la trama col vano proposito di scoprire come sono stati intessuti i fili; poiché la sagacia che lo distingue gli avrà insegnato da tempo che ogni racconto di fatti e vicende umane - si chiamino storie o romanzi - è un manufatto d'indubbia fragilità, più facile a lacerarsi che a rammendare. L'esperienza reale, anche quella della vita più comune, è piena di eventi che non si spiegano mai, sia per quel che riguarda l'origine sia per quel che concerne la tendenza.» (Nathaniel Hawthorne “Il fauno di marmo”, cap.50)
Come Hawthorne, anche Peter Weir racconta una storia ma parla d’altro. Come Hawthorne, anche Weir è un grande stilista, nei suoi film è tutto molto vero e molto accurato, e la narrazione piacevole e avvincente. Negli arazzi di Weir, costruzioni complesse che si risolvono in disegni di cui l’aspetto esteriore gradevole è solo uno degli elementi, i personaggi hanno più risalto; e nei loro occhi, nei loro comportamenti, c’è sempre qualcosa che non ci viene spiegato e che sta a noi capire: un volo d’uccelli, un paesaggio, uno sguardo. Forse l’unico film di Weir totalmente esplicito è “L’ultima onda”, e come è giusto che sia è anche il suo film più difficile.
Un tema simile è presente anche in “L’attimo fuggente” (Dead poets society), girato dieci anni prima: «Quando i ragazzi scopriranno di non essere né Mozart né Byron ti odieranno. Quello che stai facendo è pericoloso.», dice un collega al professor Keating. Nel film, ambientato a scuola, Keating sorride e risolve la situazione con una battuta: ma sta davvero facendo qualcosa di molto pericoloso. Pericolosa è la ricerca di noi stessi, la ricerca del vero io, delle proprie potenzialità ma anche la scoperta dei propri limiti: guai a chi è troppo lucido e sensibile, un po’ di ottusità nella vita è fondamentale. Come diceva Pasolini, molto lucido e anche molto amaro, “il più delle volte una buona quinta elementare è quello che basta ad un figlio di operai; tutto quello che arriva in più, in termini di cultura, servirà solo a farli soffrire.” Ed è vero, con i propri limiti (quelli con cui siamo nati e quelli che ci vengono dall’esterno) bisogna fare i conti; e si soffrirà e si rischierà di naufragare, a meno di non imparare a guardare dentro se stessi. Per questo è importante avere a che fare con chi è diverso da noi, soprattutto con i deboli e i piccoli: e magari scoprire di essere “dalla loro parte”, come capita ad alcuni dei ragazzi di “L’attimo fuggente”: ma solo ad alcuni, perché nel finale non è tutta la classe a salire sui banchi, non tutti...
« (...) Non bisogna fraintendermi, non sto asserendo che l' arte è più grande della scienza, che il suo campo di interesse è più universale, che è più saggia nella triste ammissione dei suoi limiti. No, ciò che voglio dire è che a un certo livello, essenziale, l' arte e la scienza sono talmente vicine che è difficile distinguerle. La sola vera distinzione che posso trovare è che la scienza ha un' estensione pratica nella tecnologia, mentre l' arte no ... . Il critico Frank Kermode ha affermato che una delle maggiori attrazioni dell' arte è l'offerta di ciò che Kermode identifica come "il senso di una fine". La sensazione di completezza che il lavoro artistico emana, quella staticità, quella luminescenza, quel senso di entità superiore che finalmente si riposa nella quiete della sera, sono irreperibili altrove. Non possiamo ricordare il momento della nascita, né sapere che cosa si prova morendo. Nel mezzo c'è lo sgangherato circo dei giorni che viviamo e delle cose che facciamo. Ma in una poesia, in un quadro, in una sonata, il cerchio si chiude e la forma trionfa. E’ un inganno, ma nonostante ciò lo desideriamo. L' aspetto consolatorio dell' arte è molto importante e potente. (...) (John Banville, dal Corriere della Sera 28 febbraio 2009) (responsabile delle pagine culturali dell' "Irish Time", ha scritto diversi romanzi, tra cui: "La notte di Keplero", "La spiegazione dei fatti" e "L' intoccabile", editi da Guanda)
Davvero voi pensavate che si stesse parlando di tv?
P.S: Molto bella la colonna sonora. Siccome è elencata per esteso nei titoli di coda, mi fa molto piacere riportare tutte le musiche del film:
- Wolfgang A. Mozart, Sonata per pianoforte n.11 K331 (il terzo movimento, la famosa “marcia turca”)
- Wolfgang A. Mozart, Concerto per corno n.1 in re maggiore K412 (primo movimento, “allegro")
- Johannes Brahms, "Wiegenlied ": la ninna nanna più famosa del mondo, suonata da un carillon per cullare Truman appena nato.
- Chopin: Concerto per pianoforte n.1 in mi minore, op.11 (il secondo movimento, romance –larghetto)
- Philip Glass: "The Beginning"; "Living Waters"; "Anthem - Part 1"; "Opening" (Philip Glass appare brevemente anche nel film, è uno degli assistenti di Christof).
- "Twentieth Century Boy" di Marc Bolan, performed by The Big Six
- "Scales to America", di David Hirschfelder (David Hirschfelder & Orchestra, Mary Doummany arpa, dir. Ricky Edwards)
- "Love Is Just Around the Corner" di Leo Robin and Lewis E. Gensler, performed by Jackie Davis
- "Underground" di Burkhard von Dallwitz
- "Father Kolbe's Preaching" (Preghiera di Padre Kolbe) di Wojciech Kilar, Orchestre Philharmonique National de Pologne dir. Kazimierz Kord
martedì 26 gennaio 2010
Il diavolo, probabilmente ( II )
Il diavolo, probabilmente (Le diable, probablement - 1977). Regia di Robert Bresson Fotografia di Pasqualino De Santis. Musica: nella sequenza della chiesa di Saint Remy, “Ego dormio, et cor meum vigilat” di Claudio Monteverdi . Musiche originali di Philippe Sarde. Con Antoine Monnier (Charles), Tina Irissari (Alberte), Laetita Carcano (Edwige), Henri de Maublanc (Michel), Geoffroy Gaussen (il libraio), Nicolas Deguin (Valentin), Regis Hanrion (lo psicoanalista). Durata: 95 minuti.
La prima sequenza è il controllo delle suole delle scarpe. Da come è consumata la suola, Charles decide: tu non sai camminare, tu nemmeno, tu sì (l’unica “che sa camminare” è una ragazza).
Poi il gruppo degli amici va ad un comizio studentesco, forse all’università.
L’oratore: Proclamo la distruzione! Tutti possono servire a distruggere! E’ facile. Si possono tenere in pugno migliaia di persone, con gli slogan.
(grida di “bravo!” e applausi)
Charles: Distruggere chi, e come?
Un ragazzo vicino a lui: Sempre domande! E’ per questo che non si fa mai niente.
Altro ragazzo: E che cosa ci sarà, dopo?
Ragazza: Qualsiasi cosa sarà sempre meglio di adesso.
Terzo ragazzo: Se ci facciamo rompere la testa adesso, è meglio sapere a che cosa servirà, se possibile.
Charles: A che cosa servirà? A niente. La nostra sola forza... (ci pensa un attimo, poi ripete alzando la voce) La nostra sola forza...
Ragazza (che è con lui): Lascia perdere.(Charles viene insultato; se ne va con la ragazza e con gli altri del suo gruppo).
Nella sala di un’associazione ambientalista due ragazzi e una ragazza proiettano un film sulle devastazioni ambientali. Sono in giacca e cravatta, eleganti. Dal proiettore (la ragazza prende appunti con una pila, non è ancora epoca di cassette e dvd) immagini di pesticidi, vapori tossici, lavaggio petroliere, traffico aereo, discariche, piccole foche massacrate. “Minacce di prigione e di morte non li fermerebbero.” “nessuno li ha mai minacciati”. “la Terra sempre più abitata sarà inabitabile. “ “ distruzione di intere specie per il profitto.”La ragazza (Edwige) lascia Michel (il ragazzo con la giacca) e gli dice che lo ama, ma andrà a vivere con Charles.
In chiesa, a Saint Sulpice. Il grande organo viene riparato, si fa manutenzione. Vediamo l’accordatore al lavoro, poi l’aspirapolvere sul tappeto rosso, gesti studiati e lenti, poi le sedie di legno, e i ragazzi che arrivano per ascoltare il giovane prete che tiene una conferenza, un dibattito.
Inquadrati i giovani sulle sedie di legno; fuori campo, voce di ragazza.
Ragazza (fuori campo) E’ perchè Lutero aveva detto che l’ostia si consacrava solo dopo essere stata inghiottita che voi la fate toccare da mani impure?
Prete (fuori campo): Impure?
Ragazza (fuori campo): Mani non consacrate dal sacerdozio.
Ragazzo con giacca di pelle (inquadrato): Montesquieu diceva che il cattolicesimo avrebbe distrutto il protestantesimo, e che poi i cattolici sarebbero diventati protestanti.
Voce maschile (fuori campo): Correte dietro ai protestanti a causa del libero arbitrio e della possibilità che vi dà di vivere e pensare come volete?
(Inquadrato l’aspirapolvere sul tappeto rosso.)
Altra voce maschile (fuori campo): Vogliamo fare entrare il cristianesimo nella vita di oggi.
Ragazzo con giacca e camicia aperta (inquadrato): E perché no la vita di oggi nel cristianesimo?
Terza voce maschile (più anziano, non inquadrato): Siamo stanchi delle vecchie formule.
(Inquadrato ancora l’aspirapolvere, poi l’organo in manutenzione)Prete (inquadrato): E’ una ricerca che portiamo avanti con i fedeli ogni giorno.
Voce maschile (fuori campo): Lasciateci in pace con le vostre ricerche.
Prete: (continua) ...facendo riunioni anche con i protestanti per preparare la chiesa di domani, costruire un cristianesimo più logico.
Nota d’organo.
Due ragazzi:
- Logico? Ma la religione non è logica..
- E proprio per questo, lo si voglia o no, il cristianesimo di domani non sarà una religione.
Due note d’organo. Inquadrato il grande organo di Saint Sulpice.Voce femminile: Bisogna evolversi, vivere il nostro tempo.
Ragazzo (inquadrato): Me ne frego del vostro tempo. (Charles?)
(l’inquadratura è su un ragazzo e una ragazza tra le sedie vuote)
Donna sui 40 (leggermente polemica): Siete tutti così civili e così colti, voi e i vostri vescovi!
Ragazza (a fianco del ragazzo con la giacca di pelle): E’ per questo che le vostre musiche sono insipide e i vostri canti gelidi.
Note acute e secche dall’organo. La ragazza ne è colta di sorpresa, salta via ma poi continua:Ragazza (come sopra): Tutti gesti e parole più o meno di vostra invenzione, umilianti in quanto insignificanti. Non è con la mediocrità che Dio si fa conoscere.
Arriva un’auto bianca sul sagrato.Ragazzo con giacca e camicia aperta (inquadrato): Visto che non credete più in niente di soprannaturale, fateci condividere non solo a parole la sorte dei poveri e degli oppressi. C’è una sofferenza immensa nel mondo. Ieri un prete di periferia mi ha detto: “mi annoio, mi annoio...”
Ragazzo (Charles): Anche noi, andiamocene.(tutto il gruppo di Charles si allontana dalla chiesa).
Vediamo Charles in una libreria, mentre mette foto di donne nude dentro a testi sacri ed edificanti; lo farà anche in chiesa, lasciando altre foto sulle sedie di legno, tra i fogli per la Messa. Con lui, Edvige. Queste cose le fa per conto del misterioso libraio, in giacca e cravatta, che lo paga per farle. “E’ ignobile quello che lei mi fa fare”, gli dice. Il libraio è in una libreria molto ricca, appare dotato di molti mezzi e soldi; quando Charles se ne va, riprende a dettare a una dattilografa (molto carina, elegante) il suo programma:
- Accelerare il processo di disgregazione in corso, con i libri, con il cinema, con la droga.Edvige va da lui regolarmente, si appartano per un’ora, probabilmente lui la paga. Nella scena successiva la vediamo mentre viene accompagnata in una stanza dalla segretaria di lui, prendere l’ascensore, percorrere un corridoio, bussare alla porta. Poi la segretaria se ne va, lasciandoli soli.
Questo è il dialogo fra Edvige e il libraio (la ragazza gli dà del lei):
- Sa bene che sono venuta qui solo per un’ora. Che aspettiamo?Mentre Edvige sta con il libraio, per l’ora pattuita, Charles è in strada e aspetta che abbiano finito. Poi vediamo Edvige che si allaccia una scarpa, è tutto fatto. Il libraio è sul letto, legge Le Monde.
- Perché mi hai dato tanta felicità? – le chiede.
- Ora per piacere non faccia lo stupido.
- Ma come hai potuto ridurti così?
- Ma di che cosa si preoccupa? Non piangerà anche lei? Ha un’aria talmente comica che mi fa ridere. Riderò di lei per tutta la vita.Edvige esce dalla stanza. La vedremo per strada, sottobraccio a Charles.
Una scena simile è in Balthasar, però l’uomo qui è giovane e l’ambiente è ricco e cittadino, non povero e rurale.
Edvige e Charles commentano il fatto.
Edvige: E’ soltanto un’idea borghese, un pregiudizio ormai superato.
Charles: Un pregiudizio non è mai superato.Lunga pausa. I due camminano a fianco.Edvige: Mi annoio.(sembra una scena dall’Idiota di Dostoevskij).
Cambio scena. Tavolo di legno, canestro rustico per il pane, Alberta e Michel. Lui in giacca e cravatta, come al solito; lei in abito verde (quasi medievale, un’immagine virginale, trobadorica) con i capelli raccolti e la nuca scoperta. Lei ha trovato del cianuro nello zaino di Charles, e un libro di chimica.
Michel le dice di buttare via il cianuro, non importa se lui se ne accorgerà.
Poi entra Charles:
- Ora ti dirò tutto.
- Non dire niente.Più che la casa degli amici di Charles, si direbbe che siamo di fronte ai suoi genitori. Non è così, ma l’impressione è forte (il contrasto antico-moderno, tipico di Bresson).
Sulle rive della Senna, Charles aiuta un ragazzo con i logaritmi; poi gli dice di non tornare più. Il ragazzo risale, incontra Michel, gli dice che Charles non vuol più far lezioni. Michel scende da Charles.
Michel: Ma non ci sono dei limiti a non far niente?
Charles: Sì, ma una volta che li superi provi una voluttà inaudita. (...)
Michel: Ti comporti in modo indegno.Charles chiede a Michel: “Amo di più Edvige o Alberta?” e l’altro gli risponde: “Non ami nessuna delle due.”Poi vediamo Michel e Charles su una Citroen 2CV celeste, mentre vanno in campagna. Boscaioli abbattono gli alberi, immagini di motoseghe e alberi che cadono, una lunga sequenza. Michel paga i boscaioli.
- Ci fai la cellulosa per i tuoi libri?
- Dobbiamo tagliare per seminare.Michel è un ambientalista convinto, scrive libri sull’argomento. Come nelle prime sequenze del film, lo vediamo al lavoro intento a far scorre immagini di inquinamento grave, come l’intossicazione da mercurio in Giappone. E’ una scena come quella all’inizio, con la ragazza che prende appunti con la pila.
Charles (che continua ad avere un aspetto quasi da bambino, al di là dei capelli lunghi e dello sguardo duro) dice che vuole dedicarsi al sesso sfrenato, fare eccessi.
- Non ci saranno più rivoluzioni, è troppo tardi.
Un concerto all’aperto, flauto e congas, di sera. Charles prende la pistola di un amico (che vorrebbe venderla), Michel e l’amico vanno a cercarlo e lo trovano che spara nell’acqua. Riprendono l’arma e tornano ad ascoltare la musica tutti insieme.
(continua)
La prima sequenza è il controllo delle suole delle scarpe. Da come è consumata la suola, Charles decide: tu non sai camminare, tu nemmeno, tu sì (l’unica “che sa camminare” è una ragazza).
Poi il gruppo degli amici va ad un comizio studentesco, forse all’università.
L’oratore: Proclamo la distruzione! Tutti possono servire a distruggere! E’ facile. Si possono tenere in pugno migliaia di persone, con gli slogan.
(grida di “bravo!” e applausi)
Charles: Distruggere chi, e come?
Un ragazzo vicino a lui: Sempre domande! E’ per questo che non si fa mai niente.
Altro ragazzo: E che cosa ci sarà, dopo?
Ragazza: Qualsiasi cosa sarà sempre meglio di adesso.
Terzo ragazzo: Se ci facciamo rompere la testa adesso, è meglio sapere a che cosa servirà, se possibile.
Charles: A che cosa servirà? A niente. La nostra sola forza... (ci pensa un attimo, poi ripete alzando la voce) La nostra sola forza...
Ragazza (che è con lui): Lascia perdere.(Charles viene insultato; se ne va con la ragazza e con gli altri del suo gruppo).
Nella sala di un’associazione ambientalista due ragazzi e una ragazza proiettano un film sulle devastazioni ambientali. Sono in giacca e cravatta, eleganti. Dal proiettore (la ragazza prende appunti con una pila, non è ancora epoca di cassette e dvd) immagini di pesticidi, vapori tossici, lavaggio petroliere, traffico aereo, discariche, piccole foche massacrate. “Minacce di prigione e di morte non li fermerebbero.” “nessuno li ha mai minacciati”. “la Terra sempre più abitata sarà inabitabile. “ “ distruzione di intere specie per il profitto.”La ragazza (Edwige) lascia Michel (il ragazzo con la giacca) e gli dice che lo ama, ma andrà a vivere con Charles.
In chiesa, a Saint Sulpice. Il grande organo viene riparato, si fa manutenzione. Vediamo l’accordatore al lavoro, poi l’aspirapolvere sul tappeto rosso, gesti studiati e lenti, poi le sedie di legno, e i ragazzi che arrivano per ascoltare il giovane prete che tiene una conferenza, un dibattito.
Inquadrati i giovani sulle sedie di legno; fuori campo, voce di ragazza.
Ragazza (fuori campo) E’ perchè Lutero aveva detto che l’ostia si consacrava solo dopo essere stata inghiottita che voi la fate toccare da mani impure?
Prete (fuori campo): Impure?
Ragazza (fuori campo): Mani non consacrate dal sacerdozio.
Ragazzo con giacca di pelle (inquadrato): Montesquieu diceva che il cattolicesimo avrebbe distrutto il protestantesimo, e che poi i cattolici sarebbero diventati protestanti.
Voce maschile (fuori campo): Correte dietro ai protestanti a causa del libero arbitrio e della possibilità che vi dà di vivere e pensare come volete?
(Inquadrato l’aspirapolvere sul tappeto rosso.)
Altra voce maschile (fuori campo): Vogliamo fare entrare il cristianesimo nella vita di oggi.
Ragazzo con giacca e camicia aperta (inquadrato): E perché no la vita di oggi nel cristianesimo?
Terza voce maschile (più anziano, non inquadrato): Siamo stanchi delle vecchie formule.
(Inquadrato ancora l’aspirapolvere, poi l’organo in manutenzione)Prete (inquadrato): E’ una ricerca che portiamo avanti con i fedeli ogni giorno.
Voce maschile (fuori campo): Lasciateci in pace con le vostre ricerche.
Prete: (continua) ...facendo riunioni anche con i protestanti per preparare la chiesa di domani, costruire un cristianesimo più logico.
Nota d’organo.
Due ragazzi:
- Logico? Ma la religione non è logica..
- E proprio per questo, lo si voglia o no, il cristianesimo di domani non sarà una religione.
Due note d’organo. Inquadrato il grande organo di Saint Sulpice.Voce femminile: Bisogna evolversi, vivere il nostro tempo.
Ragazzo (inquadrato): Me ne frego del vostro tempo. (Charles?)
(l’inquadratura è su un ragazzo e una ragazza tra le sedie vuote)
Donna sui 40 (leggermente polemica): Siete tutti così civili e così colti, voi e i vostri vescovi!
Ragazza (a fianco del ragazzo con la giacca di pelle): E’ per questo che le vostre musiche sono insipide e i vostri canti gelidi.
Note acute e secche dall’organo. La ragazza ne è colta di sorpresa, salta via ma poi continua:Ragazza (come sopra): Tutti gesti e parole più o meno di vostra invenzione, umilianti in quanto insignificanti. Non è con la mediocrità che Dio si fa conoscere.
Arriva un’auto bianca sul sagrato.Ragazzo con giacca e camicia aperta (inquadrato): Visto che non credete più in niente di soprannaturale, fateci condividere non solo a parole la sorte dei poveri e degli oppressi. C’è una sofferenza immensa nel mondo. Ieri un prete di periferia mi ha detto: “mi annoio, mi annoio...”
Ragazzo (Charles): Anche noi, andiamocene.(tutto il gruppo di Charles si allontana dalla chiesa).
Vediamo Charles in una libreria, mentre mette foto di donne nude dentro a testi sacri ed edificanti; lo farà anche in chiesa, lasciando altre foto sulle sedie di legno, tra i fogli per la Messa. Con lui, Edvige. Queste cose le fa per conto del misterioso libraio, in giacca e cravatta, che lo paga per farle. “E’ ignobile quello che lei mi fa fare”, gli dice. Il libraio è in una libreria molto ricca, appare dotato di molti mezzi e soldi; quando Charles se ne va, riprende a dettare a una dattilografa (molto carina, elegante) il suo programma:
- Accelerare il processo di disgregazione in corso, con i libri, con il cinema, con la droga.Edvige va da lui regolarmente, si appartano per un’ora, probabilmente lui la paga. Nella scena successiva la vediamo mentre viene accompagnata in una stanza dalla segretaria di lui, prendere l’ascensore, percorrere un corridoio, bussare alla porta. Poi la segretaria se ne va, lasciandoli soli.
Questo è il dialogo fra Edvige e il libraio (la ragazza gli dà del lei):
- Sa bene che sono venuta qui solo per un’ora. Che aspettiamo?Mentre Edvige sta con il libraio, per l’ora pattuita, Charles è in strada e aspetta che abbiano finito. Poi vediamo Edvige che si allaccia una scarpa, è tutto fatto. Il libraio è sul letto, legge Le Monde.
- Perché mi hai dato tanta felicità? – le chiede.
- Ora per piacere non faccia lo stupido.
- Ma come hai potuto ridurti così?
- Ma di che cosa si preoccupa? Non piangerà anche lei? Ha un’aria talmente comica che mi fa ridere. Riderò di lei per tutta la vita.Edvige esce dalla stanza. La vedremo per strada, sottobraccio a Charles.
Una scena simile è in Balthasar, però l’uomo qui è giovane e l’ambiente è ricco e cittadino, non povero e rurale.
Edvige e Charles commentano il fatto.
Edvige: E’ soltanto un’idea borghese, un pregiudizio ormai superato.
Charles: Un pregiudizio non è mai superato.Lunga pausa. I due camminano a fianco.Edvige: Mi annoio.(sembra una scena dall’Idiota di Dostoevskij).
Cambio scena. Tavolo di legno, canestro rustico per il pane, Alberta e Michel. Lui in giacca e cravatta, come al solito; lei in abito verde (quasi medievale, un’immagine virginale, trobadorica) con i capelli raccolti e la nuca scoperta. Lei ha trovato del cianuro nello zaino di Charles, e un libro di chimica.
Michel le dice di buttare via il cianuro, non importa se lui se ne accorgerà.
Poi entra Charles:
- Ora ti dirò tutto.
- Non dire niente.Più che la casa degli amici di Charles, si direbbe che siamo di fronte ai suoi genitori. Non è così, ma l’impressione è forte (il contrasto antico-moderno, tipico di Bresson).
Sulle rive della Senna, Charles aiuta un ragazzo con i logaritmi; poi gli dice di non tornare più. Il ragazzo risale, incontra Michel, gli dice che Charles non vuol più far lezioni. Michel scende da Charles.
Michel: Ma non ci sono dei limiti a non far niente?
Charles: Sì, ma una volta che li superi provi una voluttà inaudita. (...)
Michel: Ti comporti in modo indegno.Charles chiede a Michel: “Amo di più Edvige o Alberta?” e l’altro gli risponde: “Non ami nessuna delle due.”Poi vediamo Michel e Charles su una Citroen 2CV celeste, mentre vanno in campagna. Boscaioli abbattono gli alberi, immagini di motoseghe e alberi che cadono, una lunga sequenza. Michel paga i boscaioli.
- Ci fai la cellulosa per i tuoi libri?
- Dobbiamo tagliare per seminare.Michel è un ambientalista convinto, scrive libri sull’argomento. Come nelle prime sequenze del film, lo vediamo al lavoro intento a far scorre immagini di inquinamento grave, come l’intossicazione da mercurio in Giappone. E’ una scena come quella all’inizio, con la ragazza che prende appunti con la pila.
Charles (che continua ad avere un aspetto quasi da bambino, al di là dei capelli lunghi e dello sguardo duro) dice che vuole dedicarsi al sesso sfrenato, fare eccessi.
- Non ci saranno più rivoluzioni, è troppo tardi.
Un concerto all’aperto, flauto e congas, di sera. Charles prende la pistola di un amico (che vorrebbe venderla), Michel e l’amico vanno a cercarlo e lo trovano che spara nell’acqua. Riprendono l’arma e tornano ad ascoltare la musica tutti insieme.
(continua)
La carrozza d'oro ( I )
La carrozza d’oro (La carrosse d'or , 1952). Regia: Jean Renoír; Soggetto: liberamente ispirato a Le carrosse du Saint-Sacrement di Prosper Mérimée; Sceneggiatura: Jean Renoir, Renzo Avanzo, Giulio Macchi, Jack Kirkland e Ginette Doynel; Fotografia: Claude Renoir e H. Ronald; Scenografia: Mario Chiari e Gianni Polidori; Musica: Antonio Vivaldi adattato da Gino Marinuzzi; Interpreti: Anna Magnani (Camilla), Duncan Lamont (il viceré), Odoardo Spadaro (Don Antonio), Riccardo Rioli (Ramon), Paul Campbell (Felipe), Nada Fiorelli (Isabella), Georges Higgins (Martinez), Dante (Arlecchino), Rino (il dottore), Gisella Mathews (la marchesa Altamirano), Lina Marengo (la vecchia attrice), Ralph Truman (Duca di Castro), Elena Altieri (Duchessa di Castro), Renato Chiantoni (Capitan Fracassa), Giulio Tedeschi (Baldassarre), Alfredo Kolner (Florindo), Alfredo Medini (Pulcinella), i fratelli Medini (quattro bambini), John Pasetti (capitano delle guardie), William Tubbs (l'albergatore), Cecil Mathews (il barone), Fedo Keeling (il visconte), Jean Debucourt (il vescovo). Durata: 103’
Ci sono film che di per sè non sono complicati, ma che restano ugualmente difficili da capire finché non se ne conosce la chiave, la parola d’ordine per potervi entrare. Per esempio, la mia esperienza personale è che se non si conosce “La Périchole” di Offenbach è difficile entrare dentro “La carrozza d’oro” di Jean Renoir (con Luchino Visconti dietro le quinte, ad imparare il mestiere); ed è quindi dall’operetta di Offenbach che inizio a raccontare la storia.
La Périchole (che si pronuncia, non so spiegare perchè, Perikòl) è, nell’opera buffa del grande musicista franco-tedesco, la favorita del Re: una peruviana. La giovane donna, per non dare troppo nell’occhio, viene data in sposa a un giovane ufficiale che se ne innamora subito, ricambiato. Ma, quando salta fuori l’inghippo, il giovane si sente ingannato e si ribella. Si passa attraverso varie peripezie, compreso un tentativo di colpo di Stato, ma alla fine il bene trionfa (non avevamo dubbi) e i due innamorati possono cantare insieme queste sublimi parole: “Felicità Felicità etcetera etcetera” (l’opera è cantata in francese ma Offenbach, da vero burlone, si sta prendendo un po’ gioco dell’opera italiana). L’operina a prima vista ha poco a che vedere con “La carrozza d’oro” di Renoir, ma ha una musica molto bella (c’è un’incisione discografica ottima, con Teresa Berganza e Josè Carreras) e condivide col film di Renoir l’ambientazione in un Perù di fantasia, con una donna di teatro al centro della rappresentazione, e che donna. Una donna contesa da diversi uomini, preda ambita soprattutto per la sua fama e l’aura esotica che la circonda.
Si capisce meglio a questo punto, al di là degli obblighi della coproduzione italiana, la scelta di Renoir di scegliere per la parte principale Anna Magnani: che per quella parte non avrebbe il fisico, “le physique du role”, soprattutto per noi che siamo abituati a vederla come donna del popolo. La Magnani appare nel film come una forza naturale, quasi come una albero o una pianta, forse una rosa antica e un po’ selvatica, robusta, vitale, nodosa e forte, intorno a cui ronzano e vivono api, bombi, cetonie e altri insetti, al caldo e nell’ombra.
La Magnani dentro a questo film è soprattutto il Teatro, come la Servetta nel Capitan Fracassa di Théophile Gautier. Troppo vecchia per far innamorare uomini visibilmente più giovani di lei, e troppo sanguigna e popolaresca per un ambiente di corte? No, se si tiene conto di questi particolari: è questo l’effetto che voleva Renoir.
“La Carrozza d’oro” è l’illusione che il teatro cambi tutto: come i libri, i film, Don Chisciotte, chiudersi nell’illusione e nei sogni per evitare la realtà e non dover combattere con i mulini a vento. I racconti sul teatro sono spesso spietati: quasi sempre le attrici sono belle solo sul palcoscenico, il loro fascino dura solo lo spazio della recita: è questo che ci racconta Gautier nel “Capitan Fracassa” (che ha lunghi capitoli dedicati al teatro, quello vero); ma per esempio, per venire a tempi un po’ più vicini a noi, non sono lusinghieri i ricordi di Wanda Osiris vista da vicino.
L’altro piano di lettura rimanda a “La regola del gioco”, un altro dei grandi capolavori di Renoir. Girato nel 1939, alla vigilia della guerra, “La regola del gioco” mette in scena i rapporti di potere, ma sotto la forma di una commedia dove tutto sembra leggero e futile ma dove la violenza c’è e si manifesterà anche là dove sembra impossibile che arrivi.
“La carrozza d’oro” assomiglia molto a “La regola del gioco”, soprattutto quando Renoir dà spazio al Vicerè e alla sua corte, anche qui un tono di commedia per sfiorare e toccare argomenti serissimi; e lo stile adottato è sempre quello del gioco, quasi dello scherzo. Renoir mette in scena il Potere in un gioco ancora più stilizzato, un esercizio di stile apparentemente futile, a tratti irritante, come lo Stravinskij del Pulcinella e di “The Rake’s progress”, andato in scena negli stessi anni. Ma, alla fine, sarà il volto del Capocomico ad assumere su di sè tutta la serietà e la drammaticità necessaria, nel suo dialogo con Camilla: uno dei momenti più alti e più significativi del cinema di Jean Renoir.
Non è un film facile, e le perplessità sono più che giustificate, ma è comunque un evento, una rara avis, la manifestazione di Qualcosa, un’epifania necessaria e inaspettata, non necessariamente bella ma di rara attrazione, quasi disturbante. Cattura anche senza volere, ci si trova attirati quasi senza rendersene conto, così come fece la Magnani nella sua vera vita con Rossellini.
Solo Renoir poteva fermare un momento come questo, ritrarlo (fotografarlo) e consegnarlo ai posteri. Un dodo di Alice, o un dinosauro, un unicorno, un grifone...
Bisogna proprio mettersi d’impegno per non vedere il Teatro, le Maschere, le mille declinazioni di Arlecchino e Colombina: eppure molti critici ci sono riusciti. Tra di loro, il pur ottimo Venegoni che scriveva: « (...) Il soggetto de “La carrozza d'oro” è un complicato pastiche sovrapposizione di diverse storie, parte delle quali collocate nella realtà e parte nella finzione scenica recitata dagli attori che sono i protagonisti del film, con continui scambi fra i due piani e la continua allusione maligna che, per quanto riguarda lo spettatore, anche ciò che si suppone essere la realtà è a sua volta una finzione scenica. Altra complicazione da questo punto di vista l'ambientazione del film in un Perú settecentesco di maniera, che imbroglia molto le carte di una possibile interpretazione realistica della realtà rappresentata. Protagonista è Anna Magnani, circondata da un piccolo stuolo di caratteristi, tutti mobilitati per dare all'interpretazione quel tono guittesco che sottolinei il concetto di commedia della vita che il film vuole appunto essere ( « Tu non sei fatta –dice il capocomico Don Antonio, alla Magnani-Camilla – per ciò che si chiama vita.... »). E su tutto domina il fascino della musica di Antonio Vivaldi, alla quale Renoir era stato in quell'occasione iniziato da Giulio Macchi, che del film era l'aiuto regista. » (dal volume su Jean Renoir di Carlo F. Venegoni, Il Castoro Cinema)
Su internet ho trovato molte foto, quasi tutte della Magnani e del torero. Ma, vedendo il film, che meraviglia questi arlecchini bambini, degni di Picasso (e di Velazquez)... Il “tono guittesco” e “il piccolo stuolo di caratteristi” del pur bravo Venegoni significano non aver centrato il film. Ammetto che non è facile, se io sono riuscito a entrarci (almeno un po’) lo devo soprattutto – oltre che a Offenbach - a Pergolesi, a Paisiello, a Mozart, a Stravinskij...
Il film inizia con l’arrivo della prestigiosa Carrozza D’Oro, voluta dal Vicerè del Perù in persona. E’ quasi come avere una Ferrari, o una Rolls-Royce: “E’ per rappresentanza”, spiega il Governatore, e i presenti annuiscono (pagherà lo Stato, questo è chiaro).
Ma sulla nave che ha portato la prestigiosa Carrozza viaggiavano anche dei Comici, un’intera compagnia di attori; e adesso sono anche loro nella piazza principale.
“Attori? Che scandalo! Il vescovo ne sarà sicuramente disgustato, quel santo.” – si commenta a corte.
Ma è proprio su un teatro, e su un sipario che si alza, che si apre il film: una scenografia a due piani, molto bella e molto classica, che si trasforma subito nella vita vera, a corte, dove il Vicerè sta per vedere, finalmente, la magnifica carrozza che si è fatto fabbricare apposta in Italia (proprio come se fosse una Ferrari). Ne loda le sospensioni (“puro acciaio inglese”) e conta di scaricarne il costo sullo Stato, come spese di rappresentanza.
Intanto gli attori sono arrivati, e il Capocomico don Antonio si guarda in giro.
- Cosa ne dite del Nuovo Mondo? – gli chiede il suo impresario.
- Che sarà bello quando sarà finito. – risponde, ancora di buon umore; ma il buon umore gli passerà quando vedrà il teatro, un rudere da ricostruire ex novo. Ma gli attori si rimboccano le maniche, e sanno il fatto loro anche come muratori e carpentieri: presto il teatro prende forma.
(continua)
PS: gli arlecchini che non sono di Renoir sono opera di Pablo Picasso.
Ci sono film che di per sè non sono complicati, ma che restano ugualmente difficili da capire finché non se ne conosce la chiave, la parola d’ordine per potervi entrare. Per esempio, la mia esperienza personale è che se non si conosce “La Périchole” di Offenbach è difficile entrare dentro “La carrozza d’oro” di Jean Renoir (con Luchino Visconti dietro le quinte, ad imparare il mestiere); ed è quindi dall’operetta di Offenbach che inizio a raccontare la storia.
La Périchole (che si pronuncia, non so spiegare perchè, Perikòl) è, nell’opera buffa del grande musicista franco-tedesco, la favorita del Re: una peruviana. La giovane donna, per non dare troppo nell’occhio, viene data in sposa a un giovane ufficiale che se ne innamora subito, ricambiato. Ma, quando salta fuori l’inghippo, il giovane si sente ingannato e si ribella. Si passa attraverso varie peripezie, compreso un tentativo di colpo di Stato, ma alla fine il bene trionfa (non avevamo dubbi) e i due innamorati possono cantare insieme queste sublimi parole: “Felicità Felicità etcetera etcetera” (l’opera è cantata in francese ma Offenbach, da vero burlone, si sta prendendo un po’ gioco dell’opera italiana). L’operina a prima vista ha poco a che vedere con “La carrozza d’oro” di Renoir, ma ha una musica molto bella (c’è un’incisione discografica ottima, con Teresa Berganza e Josè Carreras) e condivide col film di Renoir l’ambientazione in un Perù di fantasia, con una donna di teatro al centro della rappresentazione, e che donna. Una donna contesa da diversi uomini, preda ambita soprattutto per la sua fama e l’aura esotica che la circonda.
Si capisce meglio a questo punto, al di là degli obblighi della coproduzione italiana, la scelta di Renoir di scegliere per la parte principale Anna Magnani: che per quella parte non avrebbe il fisico, “le physique du role”, soprattutto per noi che siamo abituati a vederla come donna del popolo. La Magnani appare nel film come una forza naturale, quasi come una albero o una pianta, forse una rosa antica e un po’ selvatica, robusta, vitale, nodosa e forte, intorno a cui ronzano e vivono api, bombi, cetonie e altri insetti, al caldo e nell’ombra.
La Magnani dentro a questo film è soprattutto il Teatro, come la Servetta nel Capitan Fracassa di Théophile Gautier. Troppo vecchia per far innamorare uomini visibilmente più giovani di lei, e troppo sanguigna e popolaresca per un ambiente di corte? No, se si tiene conto di questi particolari: è questo l’effetto che voleva Renoir.
“La Carrozza d’oro” è l’illusione che il teatro cambi tutto: come i libri, i film, Don Chisciotte, chiudersi nell’illusione e nei sogni per evitare la realtà e non dover combattere con i mulini a vento. I racconti sul teatro sono spesso spietati: quasi sempre le attrici sono belle solo sul palcoscenico, il loro fascino dura solo lo spazio della recita: è questo che ci racconta Gautier nel “Capitan Fracassa” (che ha lunghi capitoli dedicati al teatro, quello vero); ma per esempio, per venire a tempi un po’ più vicini a noi, non sono lusinghieri i ricordi di Wanda Osiris vista da vicino.
L’altro piano di lettura rimanda a “La regola del gioco”, un altro dei grandi capolavori di Renoir. Girato nel 1939, alla vigilia della guerra, “La regola del gioco” mette in scena i rapporti di potere, ma sotto la forma di una commedia dove tutto sembra leggero e futile ma dove la violenza c’è e si manifesterà anche là dove sembra impossibile che arrivi.
“La carrozza d’oro” assomiglia molto a “La regola del gioco”, soprattutto quando Renoir dà spazio al Vicerè e alla sua corte, anche qui un tono di commedia per sfiorare e toccare argomenti serissimi; e lo stile adottato è sempre quello del gioco, quasi dello scherzo. Renoir mette in scena il Potere in un gioco ancora più stilizzato, un esercizio di stile apparentemente futile, a tratti irritante, come lo Stravinskij del Pulcinella e di “The Rake’s progress”, andato in scena negli stessi anni. Ma, alla fine, sarà il volto del Capocomico ad assumere su di sè tutta la serietà e la drammaticità necessaria, nel suo dialogo con Camilla: uno dei momenti più alti e più significativi del cinema di Jean Renoir.
Non è un film facile, e le perplessità sono più che giustificate, ma è comunque un evento, una rara avis, la manifestazione di Qualcosa, un’epifania necessaria e inaspettata, non necessariamente bella ma di rara attrazione, quasi disturbante. Cattura anche senza volere, ci si trova attirati quasi senza rendersene conto, così come fece la Magnani nella sua vera vita con Rossellini.
Solo Renoir poteva fermare un momento come questo, ritrarlo (fotografarlo) e consegnarlo ai posteri. Un dodo di Alice, o un dinosauro, un unicorno, un grifone...
Bisogna proprio mettersi d’impegno per non vedere il Teatro, le Maschere, le mille declinazioni di Arlecchino e Colombina: eppure molti critici ci sono riusciti. Tra di loro, il pur ottimo Venegoni che scriveva: « (...) Il soggetto de “La carrozza d'oro” è un complicato pastiche sovrapposizione di diverse storie, parte delle quali collocate nella realtà e parte nella finzione scenica recitata dagli attori che sono i protagonisti del film, con continui scambi fra i due piani e la continua allusione maligna che, per quanto riguarda lo spettatore, anche ciò che si suppone essere la realtà è a sua volta una finzione scenica. Altra complicazione da questo punto di vista l'ambientazione del film in un Perú settecentesco di maniera, che imbroglia molto le carte di una possibile interpretazione realistica della realtà rappresentata. Protagonista è Anna Magnani, circondata da un piccolo stuolo di caratteristi, tutti mobilitati per dare all'interpretazione quel tono guittesco che sottolinei il concetto di commedia della vita che il film vuole appunto essere ( « Tu non sei fatta –dice il capocomico Don Antonio, alla Magnani-Camilla – per ciò che si chiama vita.... »). E su tutto domina il fascino della musica di Antonio Vivaldi, alla quale Renoir era stato in quell'occasione iniziato da Giulio Macchi, che del film era l'aiuto regista. » (dal volume su Jean Renoir di Carlo F. Venegoni, Il Castoro Cinema)
Su internet ho trovato molte foto, quasi tutte della Magnani e del torero. Ma, vedendo il film, che meraviglia questi arlecchini bambini, degni di Picasso (e di Velazquez)... Il “tono guittesco” e “il piccolo stuolo di caratteristi” del pur bravo Venegoni significano non aver centrato il film. Ammetto che non è facile, se io sono riuscito a entrarci (almeno un po’) lo devo soprattutto – oltre che a Offenbach - a Pergolesi, a Paisiello, a Mozart, a Stravinskij...
Il film inizia con l’arrivo della prestigiosa Carrozza D’Oro, voluta dal Vicerè del Perù in persona. E’ quasi come avere una Ferrari, o una Rolls-Royce: “E’ per rappresentanza”, spiega il Governatore, e i presenti annuiscono (pagherà lo Stato, questo è chiaro).
Ma sulla nave che ha portato la prestigiosa Carrozza viaggiavano anche dei Comici, un’intera compagnia di attori; e adesso sono anche loro nella piazza principale.
“Attori? Che scandalo! Il vescovo ne sarà sicuramente disgustato, quel santo.” – si commenta a corte.
Ma è proprio su un teatro, e su un sipario che si alza, che si apre il film: una scenografia a due piani, molto bella e molto classica, che si trasforma subito nella vita vera, a corte, dove il Vicerè sta per vedere, finalmente, la magnifica carrozza che si è fatto fabbricare apposta in Italia (proprio come se fosse una Ferrari). Ne loda le sospensioni (“puro acciaio inglese”) e conta di scaricarne il costo sullo Stato, come spese di rappresentanza.
Intanto gli attori sono arrivati, e il Capocomico don Antonio si guarda in giro.
- Cosa ne dite del Nuovo Mondo? – gli chiede il suo impresario.
- Che sarà bello quando sarà finito. – risponde, ancora di buon umore; ma il buon umore gli passerà quando vedrà il teatro, un rudere da ricostruire ex novo. Ma gli attori si rimboccano le maniche, e sanno il fatto loro anche come muratori e carpentieri: presto il teatro prende forma.
(continua)
PS: gli arlecchini che non sono di Renoir sono opera di Pablo Picasso.
Le soulier de satin ( IV )
Le soulier de satin (La scarpina di raso, 1985) . Regia di Manoel de Oliveira. Testo di Paul Claudel, Adattamento di Manoel de Oliveira. Prodotto da Paulo Branco. Fotografia di Elso Roque. Costumi di Jasmin de Matos. Musiche originali di João Paes, con arrangiamenti e citazioni da “La folie d’Espagne” e dal “Don Carlos di Giuseppe Verdi (arie di Filippo II e della Contessa Eboli). Durata: 410 minuti ( sei ore e cinquanta minuti)
INTERPRETI: Jean-Luc Buquet (Le présentateur) Luís Miguel Cintra (Don Rodrigue), Patricia Barzyk (Dona Prouhèze) Anne Consigny (Marie des Sept-Épées) Anne Gautier (Dona Musique) Bernard Alane (Le vice-roi de Naples) Jean-Pierre Bernard (Don Camille) Marie-Christine Barrault (La lune) Isabelle Weingarten (L'Ange Gardien) Henri Serre (Le premier roi) Jean-Yves Berteloot (Le deuxième roi) Catherine Jarret (La premier actrice) Anny Romand (La deuxième actrice) Bérangère Jean (La bouchère) Franck Oger (Don Pélage) Jean Badin (Don Balthazar) Denise Gence (Le chemin de Saint-Jacques) Maria Barroso (La voix des saints) Odette Barrois (Dona Honoria) Madeleine Marion (La religieuse) Roland Monod (Le frère Léon) Rosette (La Camériste) Manuela de Freitas (Dona Isabel) Yann Roussel (Le Chinois) Claude Merlin (Diégo Rodriguez) Yves Llobregat (L'Irrépressible) Jean-Luc Porraz (Don Gil) Pascal Jouan (L'archéologue) Marthe Moudiki-Moreau (La Négresse Jabarbara) Francis Frappat (Mangiacavallo) Takashi Kawahara (Le Japonais Daibutsu) Paulo Rocha (Premier prêtre) Jorge Silva Melo (Deuxième prêtre) Diogo Dória (Almagro) Jacques Le Carpentier (Don Ramire) Catherine Georges (La Logeuse) Pierre Decazes (Don Léopol August) Patrick Osmond (Don Fernand) Didier Lesour (Le secrétaire) Bernard Métreaux (Le capitaine) Christophe Allwright (Un seigneur) Frédéric Youx (Un seigneur) Filipe Ferrer (Le chapelain) Daniel Briquet, Luís Lucas , Fernando Oliveira , Melim Teixeira (Banderantes), Jasmim de Matos (Le tailleur de Cadix) Alain Ganas, Paul Pavel, Dominique Ratonnat, João Botelho (Seigneurs chez le tailleur) Jean Dolande (Le sergent napolitain) Bernard Ristroph (L'annoncier) Olivier Achard (L'Alférès) Michel Caccia (Envoyé du Roi) Patrick Valverde (Capitaine de Diégo Rodriguez) Michel Roubaix (Don Alcindas) Olivier Rabourdin (Un pêcheur) Stéphane May (Bogotillos) Olivier Dayan (Alcochette) Carlos Wallenstein (Professeur Hinnulus) Jacques Parsi (Professeur Bidince) Jean-Claude Broche (Un soldat) Rémy Darcy (Le Chambellan) Raymond Meunier, Bernard Montini, Claude-Bernard Perot, Christian Kursner , Christian Baltauss , Bernard Tixier , José Capela , José Manuel Mendes , Pedro Queiroz (Ministres) Duarte de Almeida , Jean-Pierre Tailhade, Alexandre de Sousa (Courtisans) Rogério Vieira, Antonio Caldeira Pires , Marques D'Arede (Soldats) Manuel Cintra , José Wallenstein , Nuno Carinhas (Sentinelles) Virgílio Castelo, Alexandre Melo, Rogério Samora (Officiers) Miguel Azguime (Tambour)
Lasciamo la nave nell’Oceano ed entriamo nella Fortezza di Mogador, dove troviamo Donna Prodezza alle prese con il compito assegnatole dal marito; poi ci spostiamo in Sicilia. “Sicilia, foresta vergine”: così recita la didascalia, e forse nel ‘500 in Sicilia la foresta vergine c’era davvero.
Qui vediamo Donna Musica e il Vicerè, naufraghi. Lei vive prendendo le offerte da un tempio pagano, nasce l’amore tra i due.
Intanto, nella Fortezza di Mogador, Rodrigo potrebbe forse rivedere Prodezza; ma vi rinuncia.
Nella scena successiva siamo in America, alle soglie della foresta vergine: vediamo soldati spagnoli e indios, quasi come in “Aguirre” di Werner Herzog.
Dentro le mura di Mogador, i due amanti, Rodrigo e Prodezza, non possono ancora incontrarsi; ma assistiamo al dialogo delle loro ombre, al loro fondersi insieme. E’ la luna piena a creare queste ombre, ed è la Luna che ci parla.
Si tratta di una delle sequenze più strane ed affascinanti del film; con un trucco preso tale e quale da Georges Méliès, Oliveira ci mostra il volto della luna (l’attrice Marie Christine Barrault) prima sullo sfondo, poi in primissimo piano. Il testo di Claudel è un tantino delirante, ma ha momenti molto belli, e la recitazione della Barrault lo rende magico e ipnotico, decisamente affascinante.
La luna dà voce ai due amanti.
- L’ombra doppia si è disgiunta dal muro che in fondo alla prigione corrisponde alla mia presenza in cielo. Al posto del ramoscello che si distaccava da quel braccio nudo di donna con la mano che dondolava c’è solo quella palma che il vento del mare fa muovere e tremolare, libera e prigioniera, concreta e senza peso. Povera pianta! Non si sarà stancata di difendersi contro il sole?
Era ora che io arrivassi. E’ bello. Quanto è dolce dormire con me! Io sono qui, in lei e fuori di lei; ma la creatura che amo sa che la mia luce conviene all’oscurità; non ha più niente da fare, non sta lì a colmare ciò che le toglie la vita. Cede, accetta, e io sono qui per sostenerla. Lo sa, ci crede, è chiusa, è piena, galleggia, dorme.
Tutte le creature, gli esseri buoni e cattivi, si immergono nella misericordia di Adonai: ignorerebbero questa luce non fatta per gli occhi del corpo? Una luce che non va vista ma bevuta, perché l’anima viva ci beva tutta l’anima all’ora del riposo, vi si bagni e beva.
Che silenzio! Appena un debole grido di quell’uccello che stenta a svegliarsi; l’ora del Mare di Latte è nostra. Se sono così bianca è perché sono Mezzanotte, il Lago di Latte, le Acque. Tocco chi piange con mani ineffabili.
Sorella, perché piangi? Non è la tua notte nuziale? Guarda il cielo e la terra pieni di luce! Dove credevi di passarla, con Rodrigo, se non sulla Croce? Non si tratta del suo corpo, ma di quel battito sacro con il quale le anime si conoscono le une con le altre così come il padre e la madre nell’attimo della concezione. Ecco quanto manifesto. Guardate...guardate quel dolore di donna sepolto nella luce! Non sarebbe cominciato se io non l’avessi baciata in mezzo al cuore. E’ cominciato con lacrime simili alle nausee dell’agonia, che nascono dal più profondo dell’essere profondamente intagliato, che l’anima che vuole vomitare e che il ferro penetra!
Forse sarebbe spirata al primo assalto tra le mie braccia, (qui comincia lo zoom) se durante la pausa del suo cuore avessi proferito questa parola: Mai! Mai, Prodezza! Mai... (qui si arriva al primissimo piano). «E’ questa una cosa che io e lui possiamo condividere... Mai! Ha udito dalla mia bocca, in quel bacio che ci fece una sola cosa! Mai! (jamais!). E’ questa una specie d’eternità che non si può cominciare subito. Mai potrò più essere senza di lui, e mai egli potrà essere senza di me. Da parte di Dio, ci sarà sempre qualcuno per vietargli la presenza del mio corpo, perché io l’avrei amato troppo, volevo dargli molto di più! Sì, non basta che gli manchi: voglio tradirlo.
Ecco cosa seppe di me in quel bacio in cui si unirono le nostre anime. So che mi sposerò soltanto sulla Croce; le nostre anime saranno nella morte fuori da ogni impulso umano! Non potendo essere il suo paradiso, sarò la sua croce: affinché il suo corpo vi sia squartato, io valgo quanto questo legno. Poiché io non posso dargli il paradiso, posso almeno strapparlo alla terra; solo io posso dargli un’insufficienza (sic) uguale al suo desiderio, solo io sono capace di privarlo di lui stesso! Quando non potrà più sfuggire, quando sarà attaccato a me per sempre, quando non potrà più strapparsi dalla mia carne potente e da questo vuoto spietato, quando avrà provato il suo nulla con il mio, quando non ci sarà più segreto che io non possa verificare, allora lo darò a Dio, nudo (decouvert) e straziato, che Egli lo riempia alla luce d’un lampo. Allora avrò uno sposo e terrò un Dio fra le mie braccia; mio Dio, vedrò la sua gioia! la vedrò con Voi, ne sarò io la causa! Egli chiese Dio ad una donna, e la donna è stata capace di darglielo, perché non c’è niente in cielo e sulla terra che l’amore non possa dare...» Queste cose lei disse nel suo delirio. Ma non si accorge che sono già passate, che lei stessa per sempre passa dove sono passate; resta solo la pace.
E’ la mezzanotte; è piena fino all’orlo la coppa di delizie che Dio offre a tutte le sue creature. Essa parla, e io le bacio il cuore.
In quanto al suo navigatore, che l’uragano tante volte non ha potuto trattenere tra i due mondi, egli dorme, a vele piegate, alternando al fondo del mio piacere perduto il sonno infinito di Adamo e di Noè. Come Adamo dormiva quando la donna gli fu tolta dal petto, è giusto che egli dorma il giorno delle nozze in cui la sua donna gli è resa, e soccomba alla pienezza.
Rodrigo... odi questa voce che ti dice: “Rodrigo”...? Lo sai ora che l’uomo e la donna potevano amarsi solo in paradiso? «Il Paradiso che Dio non mi ha aperto, e che le tue braccia hanno ricreato per un istante... Ah, donna, mi dai il Paradiso solo per comunicarmi che ne sono escluso; ogni tuo bacio mi dà un Paradiso che mi è proibito. O donna, hai scoperto in me quel posto che potevi raggiungere solo ad occhi chiusi... (un rimando al Parsifal?) Eccola la ferita che mi potevi fare solo ad occhi chiusi! Mi apri il Paradiso, ma mi impedisci di restarci; come vuoi che sia se mi rifiuti di essere altrove solo con te? Ogni pulsazione del tuo cuore mi rinnova il supplizio, quell’impotenza di sfuggire al paradiso da cui sono escluso...Ti ritrovo in questa ferita, e mi nutro di te come la fiamma fa dell’olio, l’olio di cui brucerà in eterno questa lampada, senza però farci luce...»
Egli parla, e io gli bacio il cuore... (la luna svanisce)
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