venerdì 9 dicembre 2011

John Huston ( V )

Huston regista alla Scala
Nel 1966 John Huston è alla Scala di Milano, come regista di un’opera nuova, su musica del trentenne inglese Richard Rodney Bennett, nato nel 1936 e autore fra l’altro di molte colonne sonore. Si tratta di “The mines of sulphur” (Le miniere di zolfo), un’opera che per quanto ne so non è più stata ripresa dopo la sua prima, così come è successo quasi sempre (pochissime le eccezioni) alle opere liriche composte dal 1960 in qua. Si tratta comunque di una novità data alla Scala, e la recensice il critico musicale del Corriere d’Informazione (un quotidiano che non esce più ormai da parecchi anni, e che era fratello del Corriere della Sera). Non si tratta di un critico qualsiasi: è Eugenio Montale, che di musica se ne intendeva, dato che aveva tentato da giovane la carriera operistica come baritono. Montale stronca senza pietà (ma con molta educazione) l’opera di Bennett, e nel finale dedica qualche riga anche al regista
Le miniere di zolfo, di Richard Rodney Bennett
di Eugenio Montale, dal Corriere d’informazione, 26-27 febbraio 1966
(...) Esecuzione prestigiosa, alla quale la Scala ha dedicato tutte le possibili cure, mobilitando una schiera di artisti ben preparati e un regista e uno scenografo autorevoli quali sono John Huston e Corrado Cagli. Che poi questi due artisti si siano impegnati a fondo non può dirsi. È in ogni modo lodevole ch'essi non abbiano cercato di strafare.
Nella parte del personaggio più interessante - Jenny-Haidee - è stata stupenda Floriana Cavalli, un'artista che nel canto di tipo espressionista ha poche rivali; e dotata di buona voce e di ricco temperamento è Gloria Lane, in sensibile progresso sulle sue precedenti apparizioni alla Scala. Un'ottima dizione ha anche il robusto basso Carlo Cava nelle vesti del capocomico. Molta buona volontà e risultati apprezzabili hanno dimostrato Armanda Bonato, il tenore Giovanni Gibin (Boconnion), il tenore Misciano, il baritono Testi, i bassi Giacomotti e Calabrese e il mimo e sordomuto Ferruccio Soleri. I costumi disegnati da Cagli sono più interessanti del suo bozzetto. L'allestimento scenico è di Nicola Benois. Quanto all'orchestra e al direttore Nino Sanzogno, che in questo genere di musica si destreggia nel miglior modo possibile, nessuna parola di lode può dirsi ingiustificata. Un'opera simile - destinata per opposte ragioni a dispiacere tanto agli avveniristi che ai conservatori del mondo musicale - non poteva attendersi un consenso unanime. Si sono avuti dunque contrasti abbastanza vivaci, che non hanno impedito però all'autore e ai principali artisti e collaboratori di apparire più volte alla ribalta alla fine dell'opera.
(Eugenio Montale, Prime alla Scala, ed. Mondadori 1981, pag.446)
John Huston, frammenti da interviste
- Colorare i film in bianco e nero non ha niente a che fare con il colore, è come rovesciare 40 cucchiai di acqua zuccherata sull’arrosto.
(citato su Rctv dicembre 1995, quando era di moda “colorizzare” i film in bianco e nero)
Hemingway disse che nulla era così gratificante per lui come l’arte dello scrivere in sè, quando le parole prendevano le ali; quando la mano segue il pensiero e il pensiero si librava in aria, e la penna ne tracciava il volo. Quanto a me, l’unico piacere che mi dà la scrittura viene dopo che ho scritto qualcosa, l’ho messa via, e poi rileggendola trovo che tiene ancora: è quasi esclusivamente una sensazione di sollievo.
pag.208 dell’autobiografia di John Huston
A proposito dell’autobiografia di Huston (non so se sia mai stata ristampata), il capitolo più interessante è comunque il 35, dove finalmente Huston parla di cinema: di stile, di grammatica. (dicembre 1987)
Moby Dick
Lo scrittore rievoca la nascita della sua sceneggiatura per “Moby Dick”
Bradbury: come diventai Melville
di Michele Mari, corriere della sera 18.10.1998
Huston dice che il suo film è da considerarsi blasfemo; la chiave è in questa battuta: Se Dio si incarnasse in un pesce, sarebbe una balena. La balena rappresenterebbe una deviazione mostruosa dal culto di Dio, come si vede purtroppo spesso.
Quando John Huston si decise a portare sullo schermo Moby Dick, nel 1953, Ray Bradbury era un giovane scrittore di fantascienza ancora un passo al di qua della celebrità. Eppure la vocazione cinematografica di libri come “Cronache marziane” o “Fahrenheit 451” dovettero persuadere il grande regista a sceglierlo come sceneggiatore del romanzo di Melville. Ora non è chi non veda la difficoltà di una simile impresa, stante la densità simbolica di un testo che dialoga in continuazione con la Bibbia e che attraversa tutti i generi, dall'epico al lirico al drammatico al saggistico. Si aggiunga la speciale difficoltà di avere a che fare con un carattere come quello di Huston, incline a lasciare poca autonomia. Huston era più melvilliano di Melville, volendo un Achab prometeico e bestemmiatore della balena-dio, laddove Bradbury (e lo stesso Gregory Peck) vedevano nel capitano soltanto un pazzo: sublime, ma pazzo. Su queste premesse Bradbury arrivò in Irlanda, dove si sarebbe svolta buona parte della lavorazione del film: là tagliò, cucì, fuse, riscrisse, e il risultato (che non soddisfò né lui né Huston) è noto. Meno noto é che 40 anni dopo Bradbury raccontò quell’esperienza in un libro. Tradotto ora in italiano e corredato da un saggio di Alessandro Zaccari, “Verdi ombre, balena bianca” ci mostra la faticosa «conquista» di Moby Dick da parte di chi non l'aveva mai letto e di chi alla fine potè sentirsi invasato dallo spirito di Melville (il che per uno scrittore dev'essere come trovarsi assunto alla gloria di Dio): «Mi avvicinai allo specchio sopra la macchina da scrivere e annunciai: "Sono Herman Melville!"». A questa trance demiurgica Bradbury deve le sue più felici intuizioni, come l'avere individuato nella moneta d'oro di Achab la metafora fondamentale di Moby Dick. «Quello che teneva insieme il tutto era l'aver inchiodato l'oncia d'oro spagnolo all'albero maestro (...). Cattura per prima la metafora grossa, il resto seguirà».
RAY BRADBURY:Verdi ombre, balena bianca. ed. Fazi, pagine 310, lire 29.000
(...) Huston sta con Achab, Bradbury sta con Starbuck (il coscienzioso primo ufficiale che arriva ad un passo dall’ammutinamento ma che alla fine rimane fedele al principio d’autorità). Per Huston, Moby Dick è un dio da uccidere, per Bradbury è l’ultimo discendente dell’innocenza primitiva. Il film nasce dal conflitto di questo duplice sguardo. (...)
(Gianni Canova, dalla rivista Effe di Feltrinelli, anno 1998)
Interessante il richiamo all’innocenza primitiva: ma questo è un tema tipico di Huston, e Canova dovrebbe saperlo. E poi io non vedo conflitti, può ben darsi che ce ne siano stati durante la lavorazione ma il film finito è splendidamente unitario, “una tinta unica” come direbbe Giuseppe Verdi. E non si può neanche dire che Starbuck ceda al “qui comanda il capo”: non è una fascinazione quella che subisce, Starbuck rimane lucido e forse si può dire che arriva a capire cosa gli sta dicendo Achab, capisce qualcosa che fino ad allora gli era sfuggito: il senso del mondo, la rivalità che sostiene la Creazione, l’inutilità di combattere la natura umana, anche Achab era come lui prima di vedersi colpito e mutilato, una lotta senza senso – come dice Conrad in Lord Jim.

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