giovedì 10 febbraio 2011

Harvey

Harvey (idem, 1950) Regia di Henry Koster . Tratto da una commedia di Mary Chase. Sceneggiatura di Mary Chase, Oscar Brodney, Myles Connolly Fotografia: William H.Daniels Musica: Frank Skinner Interpreti: James Stewart, Josephine Hull, Peggy Dow, Charles Drake, Cecil Kellaway, Victoria Horne, Jesse White (104 minuti)

« Vede, dottore, mia madre mi diceva sempre: “In questo mondo, Elwood (...) devi essere o molto astuto o molto amabile”. Io preferivo l’astuzia, ma consiglio l’amabilità. (pausa, sorriso appena accennato) Vi autorizzo a citarmi.»
(minuto 80)


- Tutti dobbiamo affrontare la realtà, Mr. Dowd, un giorno o l’altro...
- Vede, dottore, io ho lottato con la realtà per 35 anni, e sono felice di dire che l’ho vinta sfuggendola.
(minuto 58)

Harvey è sparito. Che tristezza: quand’ero bambino l’avevo visto, e mi era piaciuto molto anche se l’esistenza di un coniglio gigante, grande come un uomo adulto e per di più invisibile, mi aveva inquietato parecchio. Ma il coniglio era amico di James Stewart, e quindi non poteva essere cattivo.
Mi dispiace molto che i bambini di oggi siano privati della compagnia di Harvey, e siano costretti ad accontentarsi di Sponge Bob o dei Simpsons o di qualche cartoon giapponese dozzinale. Mi dispiace molto perchè Harvey non è uno qualsiasi, non è uno di quelli fatti con lo stampino da un ufficio marketing. Harvey non è pubblicità, non è un logo, non è un jingle: va dove vuole, sta con chi vuole, di farsi vedere non se lo sogna neanche. Se uno vuole davvero vedere Harvey, non c’è problema: ma bisogna rispettare certe regole, le prime delle quali sono la buona educazione e la correttezza nei rapporti umani. Se non vediamo Harvey, oggi, è solo perché è lui che preferisce stare lontano.
Harvey non si vede mai, nel film, ma è come se ci fosse: era un “mostro” gentile e simpatico, per la precisione un “pookah”, stretto parente degli animali incontrati da Alice nel paese delle meraviglie, creato su misura per tutte quelle generazioni che erano cresciute sui libri, e quindi avevano abbastanza immaginazione per vedere un coniglio anche dove non c’era. Oggi i bambini non leggono più, gli adulti men che meno; e si tende a far vedere tutto nei minimi dettagli, anche i fantasmi e i mostri dell’ID, e questo secondo me è un grave difetto – però mi si dice che piacciono, questi orchi e diavoli e vampiri tutti uguali e indistinguibili gli uni dagli altri, che vagano dall’uno all’altro film senza nemmeno lavarsi o cambiarsi l’abito di scena. Ma io ho molta nostalgia per quella paura che sapevano mettere i libri, una paura che nasceva anche non facendo vedere nulla: un conto è dire “un coniglio alto un metro e ottanta seduto vicino a te”, e un altro è vederlo rappresentato, diventato un pupazzone come tanti.
Nei libri non c’è quasi mai una descrizione precisa (“il caos strisciante Nyarlathothep”, o magari “una donna bellissima”) perché la fantasia può ben riempire questi spazi, e le creature fantastiche che sappiamo inventarci da soli saranno sempre superiori a quello che gli esperti di trucchi cinematografici potranno mettere in immagine. In ogni caso la creatura evocata, mostro o donna bellissima che sia, sarà qualcosa di nostro, di personale, che non condivideremo con nessun altro; nei film ci tocca accontentarci della fantasia di qualcun altro.
In questo caso poi non c’è proprio da aver paura: sì, forse il protagonista del film (che fu prima recitato anche in teatro proprio da Jimmy Stewart, con grande successo) è davvero matto, ma forse sono più matti gli altri, quelli che non vedono il Grande Coniglio e cercano di normalizzare anche la fantasia più innocua.
Comunque sia, so per certo che il mio Harvey (quello che ho visto in questo film) non è uguale al vostro: caso mai, è assolutamente identico a quello che vede James Stewart, e scusate se è poco.
Volendo privarsi di una piccola parte del piacere che si prova guardando il film, e tornando a parlare un po’ più seriamente, si può ricordare che in “Harvey” vengono toccati due temi tutt’altro che secondari: l’alcoolismo (nel film tutti bevono, e abbondantemente) e la follia, cioè il tema del manicomio. A questo proposito bisogna ricordare la data in cui fu scritta la commedia e quella in cui fu girato il film: gli anni ’40. Riguardo all’alcolismo, oggi siamo caduti nell’eccesso opposto e sinceramente mi disturba molto veder definire “ubriaco” chi ha bevuto un bicchiere di vino: un conto sono le patologie, un altro conto è mettere tutto insieme, un bicchiere in compagnia come se fosse un vizio gravissimo. Mi sento come se avessero preso il potere dei fanatici, una setta di pazzi che vuole spiegarmi cosa devo fare in ogni singolo istante della mia vita (Harvey sarebbe molto d’accordo col mio pensiero).
L’altra questione, quella dei manicomi, è invece serissima: risale proprio a quel periodo, per esempio, la lobotomia operata su una sorella di John F. Kennedy, il futuro presidente degli USA: che aveva il solo torto di essere un po’ esuberante in materia di sesso. Nel caso non ci si fosse pensato, è quello che vogliono fare, per via chimica o per via chirurgica, anche al nostro amico Elwood: il risultato sarebbe la stessa cosa che si vede su Jack Nicholson in “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, ridurre un uomo allo stato puramente vegetativo. Siamo ancora ben lontani dagli studi di Basaglia, una riforma che non è stata capita e che è stata spiegata malissimo; ancora peggio, fin da subito alla riforma Basaglia furono tagliati i fondi, e senza soldi anche le iniziative migliori sono destinate a fallire o a rimanere a metà. Ma così va il mondo, quello reale; e forse è meglio tornare al film, almeno per oggi.
“Harvey” è un piccolo capolavoro, pieno di dialoghi brillanti e di attori molto piacevoli. Le battute che si ascoltano sono una meglio dell’altra, e mi limito a segnalare “Signore, quello non è mia madre!” che è veramente da antologia (ma non dico a che punto è, così vi coglierà di sorpresa - come è giusto che sia, d’altronde). Gli attori sono forse poco noti, oggi: ma Josephine Hull è presente in molti film di Frank Capra, così come Cecil Kellaway, uno dei grandi caratteristi del cinema di Hollywood degli anni ’30 e ’40. Eccellente il doppiaggio italiano, voci bellissime con uno splendido Gino Cervi a rifare James Stewart tale e quale, ma in italiano: una performance da grandissimo attore, e non certo l’unica visto che in quegli stessi anni Cervi doppiava anche Laurence Olivier, in Shakespeare. Ma mi fermo qui, aggiungo solo una riga per le musiche di Frank Skinner, molto azzeccate.
PS: la signora qui sotto è Mary Chase (1907-1981), autrice del soggetto: Harvey l'ha scritto lei, e ha anche collaborato al film.

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