lunedì 14 febbraio 2011

Fellini Intervista ( III )

Intervista (1987) Regia di Federico Fellini. Sceneggiatura di Federico Fellini e Gianfranco Angelucci. Fotografia: Tonino Delli Colli. Musica: Nicola Piovani. Scene e costumi: Danilo Donati. Montaggio: Nino Baragli. Produttore esecutivo: Pietro Notarianni. Produzione: Ibrahim Moussa-Aljosha Production, Cinecittà, Rai Uno.
Interpreti: Sergio Rubini, Federico Fellini, Antonella Ponziani, Pietro Notarianni, Marcello Mastroianni, Maurizio Mein, Tonino Delli Colli, Delia D’Alberti (segretaria di edizione), Anita Ekberg, Paola Liguori (l’attrice fascinosa di Cinecittà), Adriana Facchetti, Antonio Cantafora e Lara Wendel (gli sposi nel film a Cinecittà), Nadia Ottaviani (la "vestale" custode della cineteca), Mario Miyakawa, Maria Teresa Battaglia, Christian Borromeo, Umberto Comte, Lionello Pio Di Savoia, Germana Dominici, Ettore Geri, Eva Grimaldi, Alessandro Marino, Armando Marra, Francesca Reggiani, Patrizia Sacchi, Faustone Signoretti, Domiziano Arcangeli, Dario Casalini   Durata: 103 minuti

“Intervista” inizia con una troupe giapponese sul set di un film di Fellini (un’immaginaria ripresa notturna) e finisce con l’assedio degli indiani, a Cinecittà: con le antenne tv invece delle frecce, ma è proprio un assedio da film western. E’ un assedio a tutto il cinema, non soltanto a Fellini: dato che il film è uscito nel 1987, ormai sappiamo chi ha vinto, e come è andata a finire. Il cinema italiano, che era un punto di riferimento per tutto il mondo, è ormai qualcosa di molto marginale; e l’industria del cinema, in Italia, è ormai ridotta a ben poca cosa, se paragonata a quella dei tempi di Fellini, di Rossellini, di Antonioni, di Visconti, di Leone, di Pasolini, di De Sica. L’ultimo grande autore di film, proprio nel senso industriale, internazionale, è stato forse Giuliano Montaldo (Marco Polo, Giordano Bruno, Sacco e Vanzetti...). Resiste ancora Bernardo Bertolucci, purtroppo di recente afflitto da gravi problemi di salute; poi, quasi niente. E’ vero, ci sono stati gli Oscar a Tornatore e a Salvatores, ma Tornatore e Salvatores non sono mai stati delle stelle paragonabili ai nomi che ho elencato prima. Ancora oggi, in Corea, in Iran, in Africa, in Giappone, si parla di Vittorio De Sica indicandolo come un maestro: ma si tratta di film che hanno ormai cinquanta, sessanta, settant’anni. A cosa è ridotta l’industria cinematografica italiana, un tempo ai primissimi posti nel nostro boom economico, e fonte di grande prestigio internazionale? Siamo ridotti al punto che, appena nasce qualche autore interessante, viene subito boicottato, emarginato, spesso perfino disprezzato.
Meglio non pensarci, e tornare al film.
“Intervista” lo avevo visto al cinema, appena uscito, come sempre; e ne ero rimasto un bel po’ deluso. L’impressione di trovarsi davanti ad un film girato solo per questioni di contratto, senza una vera convinzione, era molto forte; ed è confermata da alcune interviste (interviste vere, come quelle che riporto qui alla fine) in cui Fellini dice qualcosa che va probabilmente molto vicino alla verità.
Però “Intervista” rimane un film da vedere, non tutto è memorabile e a dirla tutta alcune cose sarebbero da dimenticare, ma c’è molto di buono, e molte sue riflessioni danno ancora da pensare.
Di Kafka e di “Amerika” ho già parlato nei due post precedenti, oggi provo a seguire il film passo per passo: si comincia con una ripresa notturna molto suggestiva, del genere di quelle che si erano viste, per esempio, in “La città delle donne”. E’ qui che si intrufola la piccola troupe giapponese, il piccolo “tormentone” che dà il nome al film: un’intervista al famoso regista Federico Fellini. Sicuramente è l’eco di qualcosa che è davvero avvenuto a Fellini, e più di una volta: ma è una trovata che non convince, i giapponesi “che fotografano tutto” erano già qualcosa di stantìo anche nel 1987. Questa scena è però anche il punto di partenza per uno dei momenti più interessanti del film: poca cosa, meno di un minuto, ma qui Fellini ci racconta di un suo sogno, e della fatica crescente nel portare avanti le sue idee.
Si parte da una piattaforma alzata nel cielo, dove si vede tutta la città: qualcosa di molto simile si era già visto in “Roma”, del 1972. E’ qui, a 5 minuti dall’inizio, che Fellini racconta il suo sogno: un sogno di angoscia, di non sapere come uscire da una situazione. “In altri film, in momenti come questo, mi liberavo volando via”; e anche qui ci riesce, ma con molta fatica e dopo molto tempo. (la citazione, molto esplicita, è per “Otto e mezzo”). Nel volo, finisce sopra qualcosa che riconosce subito: è Cinecittà.
Forse il sogno è stato ispirato dall’arrivo della troupe giapponese, chissà: ma è comunque un segnale, Cinecittà per Fellini è il posto dove si sono davvero avverati i suoi sogni.

Si ricomincia in pieno giorno, con la troupe giapponese che intervista Maurizio Mein, aiuto regista di Fellini. Poi arriva Fellini stesso; poi si inizia il casting, si cammina per Cinecittà. Al minuto 9, Fellini presenta “la vestale del cinema”, cioè la custode della cineteca: l’attrice si chiama Nadia Ottaviani, ed ha un bell’aspetto, ma come “vestale” appare abbastanza improbabile. Subito dopo, tutti al bar, in una sequenza “caciarona” già vista in “Prova d’orchestra”, con Fellini che finge di pettinarsi. Nadia esce subito dal bar, e va a raccogliere la cicoria selvatica in un prato: i giapponesi la seguono e filmano tutto. “Ce l’avete voi in Giappone la cicoria?” chiede Nadia, e spiega che ha un gusto amarognolo, ma che è lì il suo bello. Le chiedono dov’è la piscina di Ben Hur, e Nadia indica: era lì...Ma adesso hanno costruito dappertutto, anche Cinecittà è stata quasi assorbita dai palazzoni sorti ovunque, a Roma e non solo. Tra poco, è facile immaginare, tutta l’area di Cinecittà diventerà appetibile per la speculazione edilizia.
Al minuto 14 inizia la ricostruzione del primo viaggio di Fellini verso Cinecittà, all’inizio degli anni ’40; ne sono protagonisti ancora Maurizio Mein (aiuto regista) e Pietro Notarianni, ispettore di produzione. Sergio Rubini, giovanissimo, deve interpretare il Fellini ventenne, e si ritrova al trucco con un brufolo disegnato proprio sulla punta del naso (“così sembri ancora più impacciato”), Notarianni viene vestito da gerarca fascista, e ne nasce una delle sequenze più brutte e meno riuscite di tutto il cinema di Fellini. Peccato, perché prometteva bene: il piccolo tram verso Cinecittà (che negli anni ’40 era sperduta in mezzo alla campagna), la “Casa del Passeggero” dove alloggiò il giovane Fellini, le cascate (che vengono da Terni), gli indiani, gli elefanti... Qualcosa di buono c’è, ma insomma. L’unica nota positiva, per quel 1987, era stata Antonella Ponziani: che purtroppo poi non ha avuto grandi possibilità di crescita, non per colpe sue ma piuttosto per l’inizio della decadenza del cinema italiano. Peccato, la Ponziani mi piaceva moltissimo...

Al minuto 30 c’è l’ingresso a Cinecittà: ma siamo nel 1940, non oggi. C’è il famoso regista al lavoro, il “cestino” con dentro il pranzo, i due pittori al lavoro per un poetico fondale azzurro ( il celebre e citatissimo “...a Cé, te posso di' ‘na cosa?”), e poi gli antichi egizi, e l’intervista con la diva che è (o dovrebbe essere) il pezzo forte di tutta la sequenza.
Poi ancora il set, un film d’ambiente indiano con gli elefanti, le baiadere, il maharajah, e le liti continue fra il produttore milanese e il regista napoletano, con gag finale degli elefanti di cartone, e Fellini stesso a dirigere il tutto: per un attimo era sembrato di essere lì, nel 1940, e invece era tutto falso, ricostruito, inventato. O magari no?
Intanto siamo arrivati al minuto 53, siamo sulla metropolitana per Cinecittà che ha preso il posto del piccolo tram, dove Maurizio Mein e i fotografi di scena continuano il casting per “Amerika” di Kafka. Anche questa, il casting e la ricerca di facce e corpi “feliniani”, è una scena già vista altre volte nei film di Fellini, per esempio in “Block notes di un regista”, del 1968. Al minuto 57 vediamo al lavoro l’architetto di scena (“Gino”) e ancora Maurizio Mein che dà istruzioni a una giovane donna molto vistosa poi diventata famosa in tv, ma non per meriti artistici: Eva Grimaldi. Qui c’è un allarme per una finta bomba, l’evacuazione degli studi, i carabinieri che indagano.
Infine vediamo Fellini che studia le foto d’epoca, sempre per “Amerika” di Kafka (scene molto simili si erano viste per “I clowns”, del 1970). E al minuto 67 ecco irrompere sulla scena Marcello Mastroianni, vestito da Mandrake: forse la scena più famosa del film.
E’ una comparsata molto simile a quelle che Mastroianni fece in “Block notes di un regista”, dove si parlava del “Viaggio di Mastorna” e dove già si diceva “A Federi’, perché non facciamo Mandrake?”. Qui il costume di Mandrake viene giustificato da uno spot pubblicitario (ovviamente falso) che Mastroianni sta girando nel cortile di sotto. Tutti insieme, compresi i giovani protagonisti e la troupe giapponese, si va a casa di Anita Ekberg, dove c’è un’altra scena famosa di questo film, la proiezione improvvisata di una sequenza di “La dolce vita”, dove la Ekberg si commuove per davvero (e c’è davvero un istante “magico”, all’apparire di quelle immagini viste migliaia di volte). In questa sequenza, però, fin dall’inizio ci sono molte battute che sarebbe stato meglio tagliare: non perché siano volgari, ma perché sono molto sceme.
Lasciata Anita Ekberg, si iniziano le prove per “Amerika” di Kafka, delle quali ho parlato per esteso nei due post precedenti: ed è un peccato che il film non si sia fatto, perché quello che si vede è tutto di ottima qualità. Prima, però, vediamo e ascoltiamo la biondissima Antonella Ponziani mentre suona il sax: un anticipo dei “Simpson”, si direbbe...
A 1h29’ siamo all’aperto, Nadia Ottaviani si lamenta con Mein perché le avevano promesso che sarebbe stata protagonista di una scena dove lei, “la vestale del cinema”, proietta i film del passato fra le lapidi dei grandi attori: “Nun se fa’ più”, le dice l’aiuto regista, sconsolato; e gli attrezzisti cominciano a portar via le lapidi di polistirolo.
Ma comincia a piovere, saltano i riflettori, si spegne tutto, si costruiscono ripari improvvisati per tutta la troupe; e poi arrivano gli indiani, come nei western: però invece delle frecce hanno antenne tv, con le quali avanzano minacciosi.
Il finalino vede la distribuzione del panettone e dello spumante (non si direbbe, ma è Natale), poi tutti a casa, gli studi di Cinecittà rimangono vuoti, partono le musiche di Nino Rota e si sente la voce di Fellini, fuori campo. Fellini ricorda di quante volte i suoi produttori lo hanno supplicato di non finire in questo modo: “ma come, finisce così, senza speranza? ...ma dammi almeno un raggio di sole...”. E Fellini per una volta prova a farsi convincere: “Mah, proviamo...” e il finale di “Intervista” è un ciak, il ciak per la prima scena del nuovo film di Federico Fellini. Insomma, hanno vinto loro, ma si continua, almeno finché te lo lasciano fare...
Ibrahim Moussa, produttore vero di “Intervista”, era all’epoca marito di Nastassja Kinski, dalla quale ha avuto due figli: Aljosha e Sonja, oggi sui venticinque anni. Aljosha è anche il nome della società che produce “Intervista”, e per qualche tempo si sparse la voce che Nastassja Kinski sarebbe stata la protagonista, ma nel film non la si vede mai.
Nadia Ottaviani è una bella presenza, e con Fellini farà ancora “La voce della Luna”: sono gli unici due film che ha fatto, almeno secondo imdb; ed è un peccato, ma è facile immaginare che le avranno proposto solo film di pessima qualità. Di lei non ho trovato quasi niente, su internet, e un po’ me ne dispiace (sarà vero che lavorava a Cinecittà? magari era davvero il suo mestiere...). La "vestale-custode di Cinecittà" non è un personaggio nuovo, per Fellini: ne avevamo già vista un'altra in "Block notes di un regista", del 1968.
Maurizio Mein, è davvero l’aiuto regista di Fellini, con il quale ha lavorato ininterrottamente dal “Satyricon” (1968) fino a “La voce della Luna”. Pietro Notarianni ha lavorato più con Visconti che con Fellini (Il gattopardo, Le notti bianche...), sempre rigorosamente dietro le quinte, come addetto alla produzione, con varie mansioni; con Fellini però Notarianni ha fatto anche “E la nave va” e “La voce della Luna”, ma questa è la sua unica apparizione come attore.
Le musiche di Nino Rota citate nel film sono moltissime, una dedica affettuosa: vengono da “I clowns”, “Il bidone”, “La dolce vita”, “Lo sceicco bianco”, “Ginger e Fred”.
Le canzoni eseguite nel film, come elencate nei titoli di coda, sono queste: In a persian market (Ketelby), Tango delle capinere (Bixio-Cherubini), Tea for two (Caesar), Reginella campagnola (Bruno, Di Lazzaro), Lola - Yes sir that’s my baby (Donaldson), Io cerco la Titina (Napoli, Daniderff), Dove sta Zazà (Cutolo, Cioffi), Stormy weather (Dudley). Le musiche originali sono di Nicola Piovani.
Federico Fellini, da “I film di F. Fellini” a cura di C.G.Fava e A. Viganò, ed. Gremese
«Tutto è nato, al solito, da un condizionamento psicologico che fa scattare in me un'antica obbedienza, o un carattere di bravo ragazzino, non so: è che ho avuto un anticipo, frutto della fiducia della committenza».
- All'inizio doveva essere solo un film per la televisione.
«E anch'io con questa sicurezza interiore l'ho girato, cioé con il tono della confidenza fatta a gente che ti è favorevole, non ti giudica, e non con i toni del comizio, senza alzare la voce, e questo mi ha dato una preziosa sensazione di leggerezza».
- E Kafka, Amerika, cosa c'entra?
«È ancora un pretesto narrativo: dico che voglio fare un film sul romanzo di Kafka, e questo mi dà modo di fare dei provini, che metto in scena nel film».
- Il quale diventa così un film su Cinecittà?
«Avrei potuto raccontare Cinecittà come ultimo rifugio antivecchiaia, antinevrosi, antitraffico, antinucleare; come ultimo deposito d'artificio; come fortino degli assediati volontari, superstiti dell'esistenza che si divertono a inventare come unica difesa un'altra vita, i film».
- Invece...
«È un andare a zig-zag. Un tentare di dire: "Non ho niente da dire". Un cercare di raccontare l'impossibilità di raccontare qualcosa. Non è un film nel senso tradizionale della parola: cioè immagini che narrano personaggi, storie e situazioni, il tutto animato da un sentimento, un'ideologia, un traguardo. Qui mancano la prospettiva, la trama, gli eroi. Non ci sono messaggi. E l'unico sentimento è quello di certe ore vuote, quando siedo alla scrivania, accanto al telefono da cui mi aspetto sempre chissà quali voci magiche, con davanti fogli di carta bianca, pennarelli».
- Un altro film in prima persona, dunque?
«Non è affatto un Amarcord numero due: gli mancano la dimensione nostalgica, il rumore affettuoso, le proporzioni di quel cinema-vignetta, a macchina fissa, che a me piace tanto. È soltanto una chiacchierata senza soliloqui o sgomenti soggettivi, che tento di guardare con una certa oggettività, con un occhio stupito e uno disincantato».
- E i giornalisti giapponesi che c'entrano?
«Li ho scelti come intervistatori ideali che raccolgono le mie sciocchezze e vaghezze con pazienza incomprensiva e impassibile, con ostentata gratitudine. Ma l'intervista è appena un pallidissimo pretesto per dare nel film un minimo di verosimiglianza a un racconto che non c'è».
- Che cosa c'è, allora?
«Qualcosa c'è, si capisce. Ma non è raccontato narrativamente, in modo strutturato, col compiacimento di fare un quadretto o presentare un ricordo: questi elementi ci sono, ma cancellati, licenziati, buttati via. Lo sforzo è fare capriole e passi di fianco, inventarsi un altro alibi per non essere individuato».
- E, in questo contesto, Cinecittà che cosa diventa?
«È un insieme di viali, di capanni e capannoni rossastri, di cani e cagnacci che annusano tutto e tutti, di prati e pratacci di periferia incolti, di palazzine da cui, passando, si sente sempre uscire da 40 anni lo stesso grido, lo stesso urlo, lo stesso sparo. Un luogo dove incontri tecnici travestiti da infermieri e magari qualcuno travestito da Napoleone. Lei come lo definirebbe un posto così? Un manicomio credo; ma forse anche un ospizio, o una città unversitaria. E io, nel film, sono un vecchio regista chiuso là dentro, per sua scelta, e obbligato per automatismo a raccontare qualcosa senza un copione, un'idea, senza uno scopo».
Dichiarazioni tratte da interviste concesse da Fellini a:- Anna Maria Mori, la Repubblica, Roma 28-29 dicembre 1986. - Maurizio Porro, Il Corriere della Sera, Milano-Roma, 28 dicembre 1986. - Lietta Tornabuoni, La Stampa, Torino, 28 dicembre 1986. (Federico Fellini, da “I film di F. Fellini” a cura di C.G.Fava e A. Viganò, ed. Gremese)

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