IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället, 1957). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren e Göte Lovén - Scenografia: Gittan Gustafsson - Montaggio: Oscar Rosander. Interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Bibi Andersson (Sara), Ingrid Thulin (Marianne), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjöberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (signora Alman), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Ake Fridell (il suo amante), Max von Sidow (Akerman), Sif Ruud (la zia), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gio Petre (Sigbritt), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogberg (Hagbart), Göran Lundquist (Benjamin), Eva Norée (Anna), Monica Ehrling (Birgitta), Ann-Mari Wilman (Eva Akerman), Vendela Rudbàck (Elisabeth), Helge Wullf (organizzatore della cerimonia). - Durata: 91 minuti
“Il posto delle fragole” è un altro di quei film di cui non so come iniziare a parlare, cosa dire, se dedicargli un mese o se sorvolare – che fare? Si è scritto tanto, su “Il posto delle fragole”; è uno dei pochi film di cui è ancora disponibile la sceneggiatura completa (una volta si faceva, ricavare un libro dalla sceneggiatura dei capolavori...), aggiungere qualcosa è veramente difficile.
Comincio dunque dalle citazioni che mi ero segnato nel corso del tempo, e da qualche appunto veloce che risale ormai molti anni fa; poi vedrò cosa fare.
Isak: E quale è la pena?
Alman: La pena? Non so. La solita, immagino.
Isak: La solita?
Alman: Naturalmente: la solitudine.
Isak: La solitudine?
Alman: Appunto. La solitudine.
Isak: E non c’è grazia?
Alman: Non chiedetelo a me, io non so niente di queste cose.
Si tratta della scena del “sogno dell’esame”: l’esaminatore ha il volto di Alman, l’uomo che litigava in continuazione con la moglie in una scena precedente. Questo dialogo nel “Settimo sigillo” appare così:
La morte: Ora sto per lasciarvi. Quando ci incontreremo di nuovo, il tuo tempo e quello dei tuoi compagni sarà terminato.
Il cavaliere: E allora ci dirai i tuoi segreti.
La morte: Io non ho segreti.
Il cavaliere: Dunque tu non sai niente.
La morte: Non mi serve sapere. Io non ho niente da dire.
Al risveglio, il vecchio Isak si trova accanto la nuora (Ingrid Thulin):
Marianne: Hai dormito bene?
Isak: Sì, ma ho sognato. Figurati che in questi mesi ho fatto i sogni più strani. E’ proprio curioso.
Marianne: Che cosa c’è di curioso?
Isak: E’ come se cercasi di dire qualcosa a me stesso, qualcosa che non voglio udire quando sono sveglio.
Marianne: E che cosa sarebbe?
Isak: Che sono morto, pur essendo vivo.
La nuora, stupita della risposta, gli racconta di un dialogo recente avuto col marito, che si chiama Evald ed è l’unico figlio di Isak. Padre e figlio le hanno detto la stessa cosa:
Evald: Il torto o la ragione non esistono. Ci si comporta secondo i nostri bisogni, questo lo si può leggere in un libro di seconda elementare.
Marianne: E quali sono i nostri bisogni?
Evald: Tu hai un dannato bisogno di vivere, di esistere, e di creare la vita.
Marianne: E tu?
Evald: Il mio bisogno è di essere morto. Assolutamente, completamente morto.
Questi discorsi meritano un rimando all’opera di Bruno Bettelheim, in particolare a “La fortezza vuota” che parla dell’autismo. Il libro di Bettelheim fu pubblicato solo nel 1967 (l’edizione Garzanti è del 1988) ma Bergman sembra anticiparne alcuni temi, e la cosa non stupisce perché chi ha un ricco mondo interiore (vale anche per Fellini, per Tarkovskij, per molti artisti) ha dentro di sè queste tendenze, molto vicine all’autismo pur senza avvicinarsi alla gravità dell’autismo vero e proprio.
Un articolo del Corriere della Sera, nel maggio del 1997, riportava qualcosa di molto simile alla cerimonia che si vede nel film: riguardava Norberto Bobbio, che ricevette la laurea ad honorem dall’Università di Camerino, nelle Marche, in cui aveva insegnato. Ne riporto qualche riga:
(...) Ha nostalgia il professor Bobbio? Chissà. E' mattina quando ascolta la laudatio di Luigi Ferrajoli, docente di Filosofia del diritto, e riceve la laurea dalle mani del rettore Ignazio Buti e del professor Alberto Filippi, direttore dell'Istituto di Studi storico-giuridici filosofici e politici. Poi il neo-laureato ad honorem tiene una lectio dottoralis tutta particolare. Pochi, anzi rari accenni a questioni strettamente legate agli studi. Una miniera invece di ricordi, di lampi che attraversano la sua memoria, di volti che si affacciano dal passato. Un bilancio anche affettivo, perciò viene in mente il protagonista del film bergmaniano Il posto delle fragole: anche lì un anziano e celeberrimo professore riceve un grande riconoscimento e ricostruisce frammenti dell'esistenza. Una vita prevedibile, predestinata?
Il Professore pronuncia una frase che farà certamente riflettere tanto gli agnostici quanto i credenti: "Anche se il corso della tua vita fosse predeterminato, fosse tutto stabilito in anticipo, tu non lo sai, non lo puoi sapere. Il tuo destino, posto che esista questo ente misterioso che chiamiamo destino, qualcuno c’è, ma non sai bene chi sia, che lo muove alle tue spalle senza che tu te ne accorga e sia avvisato in precedenza. Eppure, dalla fine soltanto si puo' comprendere e giudicare l'inizio".
Proprio come spiega il Professore di Ingmar Bergman. Ma chi "muove il destino" alle tue spalle? Dio, forse? Bobbio non dice una parola di piu', subito passa ad altro.
(articolo di Paolo Conti su Norberto Bobbio, dal Corriere della Sera 30.5.1997)
Il “Corriere” aggiungeva a questa frase un commento di Gianfranco Ravasi, che al tempo era direttore della Biblioteca Ambrosiana e oggi è Cardinale:
- Quale significato si deve attribuire alle parole pronunciate da Bobbio sul "destino"?
Monsignor Gianfranco Ravasi, direttore della Biblioteca Ambrosiana, è convinto che, analizzando attentamente le frasi dedicate dal filosofo al concetto, "sia possibile intravedere in filigrana il profilo di un volto. Non più quello della Moira, il fato greco, che era predeterminato meccanicamente, bensì quello della Provvidenza cristiana e biblica. In questa visione infatti da un lato c'è sicuramente la libertà dell'uomo che cerca di agire e comprendere, ma dall'altra anche un disegno, un progetto trascendente le cui frontiere sono molto piu' ampie ed estese dei piccoli disegni e progetti umani".
- Si può azzardare allora un parallelo con la concezione cristiana?
"La prospettiva da lui introdotta allude sicuramente alla libertà dell'uomo che cerca di agire e comprendere, ma allo stesso tempo a una figura personale che le grandi religioni definiscono come Dio. E' molto bella - aggiunge Ravasi - anche l'idea che la fine della vita aiuti a capire, con occhio puro e trasparente, il senso dell'intera parabola. Quando si smarriscono tutti gli interessi e i piccoli giochi dell'egoismo, compresa la superbia e l'illusione di essere signori delle cose, la nudità dell'esistenza aiuta a comprendere meglio il senso della traiettoria complessiva. Tutto cio' allude a una grande scoperta: la storia non ha una fine, ma un fine".
(dal Corriere della Sera 30 maggio 2997, come sopra)
Ma, a dire il vero, più che a Norberto Bobbio o a Ingmar Bergman stesso (che al tempo in cui fu girato il film era troppo giovane, meno di quarant’anni), il vecchio professor Borg, Isaak Borg, assomiglia molto a un’altra persona famosa: Carl Gustav Jung, che quando fu girato “Il posto delle fragole” era molto anziano ma ancora molto lucido, proprio come il vecchio professore, o come sua madre novantenne. Leggendo Jung, e facendo attenzione al tono della narrazione da lui adottato, per esempio in “Ricordi sogni e riflessioni”, o nelle varie interviste da lui rilasciate nel corso degli anni e raccolte in “Jung parla” (entrambi i libri sono pubblicati da Adelphi), l’impressione di avere davanti la stessa persona che è protagonista di “Il posto delle fragole” è molto forte – ma di questo proverò a parlare domani.
giovedì 24 febbraio 2011
Il posto delle fragole ( II )
IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället, 1957). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren e Göte Lovén - Scenografia: Gittan Gustafsson - Montaggio: Oscar Rosander. Interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Bibi Andersson (Sara), Ingrid Thulin (Marianne), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjöberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (signora Alman), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Ake Fridell (il suo amante), Max von Sidow (Akerman), Sif Ruud (la zia), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gio Petre (Sigbritt), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogberg (Hagbart), Göran Lundquist (Benjamin), Eva Norée (Anna), Monica Ehrling (Birgitta), Ann-Mari Wilman (Eva Akerman), Vendela Rudbäck (Elisabeth), Helge Wullf (organizzatore della cerimonia). - Durata: 91 minuti
«... come risultato, di mia libera volontà, ho finito per ritirarmi quasi del tutto dalla società, poiché i nostri rapporti con gli altri consistono più che altro nel discutere e giudicare la condotta di coloro che ci circondano. Per questo, mi ritrovo piuttosto solo: non è una lamentela, ma la constatazione di un fatto. Tutto quello che chiedo alla vita è di essere lasciato in pace e di avere la possibilità di dedicarmi alle piccole cose che continuano ad interessarmi, per quanto superficiali possano essere.»
(Isaak Borg nel suo studio, l’inizio di “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman)
In sostanza, “Il posto delle fragole” è un’autobiografia: non tanto quella di Bergman, che all’epoca in cui fu girato il film aveva trentotto anni, ma che pure vi pone riflessioni sue personali, quanto di una persona veramente vissuta, e che ha avuto molta influenza non solo su Bergman ma su tutti noi. Pensando a chi potesse essere questa persona, ed escludendo il padre di Bergman perché se ne parla molto in “Lanterna magica” (ed. Garzanti) ed appare diversissimo dal professor Borg, mi è venuto in mente, e con molta forza, Carl Gustav Jung. Devo dire che questa è una suggestione soltanto mia: a quanto mi risulta Bergman non parla mai di Jung, e in genere parla pochissimo di psicoanalisi (e di regola, quando lo fa, non ne parla bene). Però Jung era ben vivo e presente fisicamente, in quel 1956: nato nel 1875, morirà cinque anni dopo l’uscita del film.
Proseguendo comunque nella mia personalissima suggestione, prendo una pagina qualsiasi da quella che può essere considerata come l’autobiografia di Jung (“Ricordi, sogni, riflessioni”, ed. Adelphi) e la metto a confronto con quello che racconta Isaak Borg.
« ... Leggevo molto, disordinatamente, drammi, poesia, storia, in seguito libri di scienze naturali. Leggere non mi attraeva soltanto, mi procurava una gradita e benefica distrazione dalle preoccupazioni della personalità n.2, che sempre più mi facevano sentire depresso. Nel campo dei problemi religiosi, infatti, trovavo solo porte chiuse, o, se una porta si apriva, rimanevo sempre deluso da ciò che mi mosirava. Gli altri sembravano tutti essere in un altro mondo. Io, con le mie certezze, mi sentivo completamente solo. Più che mai provavo il bisogno di avere qualcuno con cui parlare, ma da nessuna parte trovavo un punto di contatto: anzi, avvertivo negli altri tale stupore, diffidenza, timore, che le parole mi morivano in gola. E anche questo mi deprimeva. Non sapevo che fare, e mi chiedevo: perché nessuno ha avuto esperienze simili alle mie? Perché non se ne parla nei libri dei dotti? Sono il solo ad aver fatto tali esperienze? Perché dovrei esserlo? Non pensavo mai di poter essere pazzo, perché la luce e l'oscurità di Dio mi sembravano fatti comprensibili, anche se opprimevano il mio animo. La singolarità della situazione cui ero costretto costituiva per me una minaccia, poiché significava isolamento; e questo era tanto più spiacevole in quanto, assai più spesso di quel che potessi tollerare, ero preso ingiustamente come capro espiatorio.
Inoltre a scuola capitò qualcosa che accrebbe il mio isolamento. Io ero piuttosto mediocre in tedesco, specialmente la grammatica e la sintassi non mi interessavano per niente. Ero pigro, annoiato. Gli argomenti dei componimenti poi mi sembravano di solito vuoti o banali, e i miei o erano abborracciati o troppo elaborati. Riuscivo però a cavarmela e a riportare la sufficienza, e di tanto ero pago, poiché ciò corrispondeva alla mia generale tendenza a non emergere. In genere simpatizzavo con i ragazzi appartenenti a famiglie povere e di modesta origine, come me, e prediligevo quelli che non erano molto brillanti, sebbene fossi incline a irritarmi eccessivamente per la loro stupidità e ignoranza. Il fatto era che essi potevano offrirmi qualcosa che corrispondeva a un mio ardente desiderio: nella loro semplicità non notavano nulla di insolito nel mio comportamento. Difatti la mia «singolarità» cominciava a darmi la sgradevole e piuttosto inquietante sensazione che avessi, senza rendermene conto, un aspetto spiacevole, che mi facesse evitare dai compagni e dagli insegnanti. Ero preso da queste preoccupazioni, quando mi capitò il seguente incidente, come un fulmine a ciel sereno. Una volta tanto c'era stato assegnato un componimento su un tema che mi interessava: di conseguenza mi ero messo al lavoro di buona voglia, e avevo presentato un compito che mi pareva scritto con cura e ben riuscito, e speravo avere un voto tra i migliori (non proprio il migliore, naturalmente, perché questo mi avrebbe messo troppo in vista).
Il nostro insegnante era solito discutere i componimeni in ordine di merito. Cominciò col prendere in esame quello del primo della classe, e questo era previsto. Poi seguirono altri compiti, e io attendevo invano il mio nome, che non giungeva mai. «Non può essere - pensavo - che il mio sia tanto brutto da essere perfino inferiore a questi ultimi, tanto miseri. Che sarà successo?» Ero forse semplicemente hors concours, la qual cosa avrebbe voluto dire che ero rimasto solo e che avrei attirato l'attenzione nel modo più spaventoso?
Quando tutti i compiti furono letti, l'insegnante fece una pausa, poi disse: «Ora ho ancora un compito: quello di Jung. È di gran lunga il migliore, e avrei dovuto assegnargli il primo posto: ma, sfortunatamente, è una frode! Da dove lo hai copiato? Confessa la verità!»
Scattai in piedi, tanto sconvolto quanto adirato, e gridai: «Non l'ho copiato! Mi è costato tanto scrivere un buon componimento!» Ma l'insegnante urlò: «Sei un bugiardo! Non avresti mai potuto scrivere un compito come questo. Nessuno ci crederà mai! Dunque, da dove l'hai copiato? »
Inutilmente giurai sulla mia innocenza, l'insegnante rimaneva saldo nella sua convinzione, e divenne minaccioso. «Ti posso assicurare che se sapessi da dove l'hai copiato saresti sbattuto fuori dalla scuola!» E andò via. I miei compagni mi lanciavano strane occhiate, e capii con orrore che stavano pensando: «Ah, ah, allora è così!» A nulla servirono le mie proteste. Avvertii che da quel momento ero segnato, e che tutte vie per uscire dalla «singolarità» erano tagliate.
Profondamente scoraggiato e colpito nel mio onore giurai di vendicarmi del maestro e, solo che ne avessi avuto l'occasione, avrei fatto qualcosa degno della legge della giungla! Come avrei mai potuto dimostrare che il compito non era copiato?
Per giorni e giorni ripensai a questo incidente, e sempre giungevo alla conclusione che ero impotente, che un destino cieco e stupido s'era burlato di me e mi aveva bollato come bugiardo e imbroglione. Adesso capivo molte cose delle quali prima non mi rendevo conto: per esempio, come mai uno degli insegnanti avesse potuto dire a mio padre, venuto a chiedere notizie del mio comportamento a scuola: «Sì, è al livello medio, ma lavora sodo, in modo lodevole.» Pensavano che fossi relativamente stupido e superficiale - e questo non mi urtava; ma mi irritava che potessero ritenermi capace di imbrogliare, e così annientarmi moralmente.
La mia tristezza e il mio furore stavano per diventare insopportabili, quando accadde qualcosa che già altre volte avevo osservato in me stesso: ci fu un improvviso silenzio interiore, come se una porta si fosse ermeticamente chiusa su una stanza rumorosa. Era come se una fredda curiosità s'impadronisse di me e io mi chiedessi: «Che sta succedendo? Va bene, sei eccitato. Naturalmente l'insegnante è un idiota che non capisce tanto quanto te. Perciò è sospettoso al pari di te. Tu non hai fiducia in te stesso, né negli altri, ed è perciò che stai dalla parte di quelli che sono semplici, ingenui, facili a penetrarsi: è irritante non riuscire a capire!»
(Carl Gustav Jung, da “Ricordi, sogni, riflessioni”, ed. BUR Rizzoli, pagine 93-96)
Proseguendo nel mio ragionamento, mi è venuto in mente James Joyce, che all’inizio di “Dedalus” (un romanzo molto vicino all’autobiografia, pubblicato quando Joyce era ancora molto giovane) scrive proprio come scriverebbe un bambino piccolo piccolo, ed è bravissimo. Jung è invece un anziano signore che si ricorda di cosa pensava da bambino; nelle pagine seguenti a quelle che ho riportato esprime le sue idee sulla Creazione, dicendo che solo le piante e gli animali a sangue caldo gli sembrano vicini a noi, mentre trova lontanissimi gli insetti: e tutti i bambini martirizzano gli insetti, ritenendoli privi di emozioni. Un’idea infantile, per l’appunto: che molti si portano dietro anche da adulti.
Più in là di Joyce e di Jung è andato forse solo Sant’Agostino, che nella sua autobiografia risale addirittura al momento del concepimento.
«...di questo mi sono reso conto più tardi, quando me lo hai come gridato proprio attraverso i tuoi doni sia esteriori che interiori: allora ero capace soltanto di succhiare, di godere delle cose piacevoli e di piangere di quelle spiacevoli, nient'altro. Cominciai poi anche a ridere, prima nel sonno e poi da sveglio: queste cose mi sono state riferite, e vi ho creduto perché vediamo far così anche gli altri bambini; io certo non me lo ricordo. Ed ecco che a poco a poco cominciavo ad aver coscienza del luogo ove mi trovavo, e avevo voglia di manifestare i miei desideri a chi avrebbe potuto soddisfarli, ma non mi riusciva perché i desideri erano dentro di me, le persone invece erano al di fuori di me, e in nessun modo esse avrebbero potuto penetrare nel mio animo. E così mi dimenavo e strillavo, indicando in qualche modo quei miei desideri, così come potevo, cioè in maniera inadeguata. Se poi non ero ascoltato, o perché non mi si capiva o perché ciò che chiedevo mi sarebbe stato di danno, mi sdegnavo con i più grandi di me che non mi obbedivano e non mi servivano, e mi vendicavo piangendo. Così sono i bambini, e l'ho imparato conoscendoli: che così fui anch'io, infatti, me l'hanno insegnato meglio loro, inconsciamente, che non i miei consapevoli educatori. Ed ecco che la mia infanzia è morta da tempo, ed io vivo. Tu invece, Signore, sei sempre vivo e nulla di te muore (...) »
(Sant’Agostino, Le confessioni, capitolo VI , edizioni Paoline)
Quest’altro brano invece me l’ero segnato un paio d’anni fa, perché mi era capitato di leggerlo proprio subito dopo aver guardato (per l’ennesima volta) l’inizio di “Il posto delle fragole”. Io non ho mai letto Orazio, e quindi devo ringraziare l’amica Clelia di http://akatalepsia.blogspot.com/ che me lo ha fatto conoscere.
«La frequentazione assidua di un potente è, per l'inesperto, una delizia: per l'uomo esperto, un rischio da temere [expertus metuit]. La tua nave vola in alto mare? E tu manovra in modo da evitare che il vento, girando, la ricacci indietro [...]. E via le nubi da codesta fronte! Troppe volte l'uomo riservato viene frainteso come fosse tetro, e il taciturno passa per scontroso. Nel frattempo leggerai, consulterai gli specialisti su molteplici problemi: con quali accorgimenti garantirti una pacifica esistenza; se dovrai subire sempre l'insaziabile erosione dell'avidità, o piuttosto dell'ansiosa speranza riposta in beni assai mediocri: se la virtù sia frutto di cultura o dono di natura [virtutem doctrina paret naturane donet]; come ridurre il peso dell'angoscia di ritrovare l'accordo con se stessi [quid te tibi reddat amicum]; che cosa ci propizi una vita limpida e tranquilla (soddisfazioni morali o materiali? O un sentiero appartato, un segreto cammino esistenziale?). Prendi me: ogni volta che mi sento ritemprato dalle fresche acque del Licenza, il fiume che raffredda il villaggio raggrinzito di Mandela, quali sentimenti credi, amico, che mi venga da esprimere in forma di preghiera? "Vorrei avere sempre quello che possiedo oggi, anche di meno; e poter disporre del tempo che mi resta [et mihi vivam quod superest aevi], se vogliono gli dèi che ancora me ne resti; una buona scorta di libri [sit bona librorum], anche, vorrei, e provviste di grano per l'annata: che non debba vacillare, sospeso all'incertezza del domani [dubiae spe pendulus horae]." Ma Giove va invocato solo per quanto può concedere e sottrarre. Mi dia la vita e i mezzi. L'equilibrio, me lo attribuirò io stesso [Det vitam, det opes: aequum mi animum ipse parabo].
Quinto Orazio Flacco , Epistole, I, 18, 86-112
tratto da http://akatalepsia.blogspot.com/ , maggio 2009
(continua)
«... come risultato, di mia libera volontà, ho finito per ritirarmi quasi del tutto dalla società, poiché i nostri rapporti con gli altri consistono più che altro nel discutere e giudicare la condotta di coloro che ci circondano. Per questo, mi ritrovo piuttosto solo: non è una lamentela, ma la constatazione di un fatto. Tutto quello che chiedo alla vita è di essere lasciato in pace e di avere la possibilità di dedicarmi alle piccole cose che continuano ad interessarmi, per quanto superficiali possano essere.»
(Isaak Borg nel suo studio, l’inizio di “Il posto delle fragole” di Ingmar Bergman)
In sostanza, “Il posto delle fragole” è un’autobiografia: non tanto quella di Bergman, che all’epoca in cui fu girato il film aveva trentotto anni, ma che pure vi pone riflessioni sue personali, quanto di una persona veramente vissuta, e che ha avuto molta influenza non solo su Bergman ma su tutti noi. Pensando a chi potesse essere questa persona, ed escludendo il padre di Bergman perché se ne parla molto in “Lanterna magica” (ed. Garzanti) ed appare diversissimo dal professor Borg, mi è venuto in mente, e con molta forza, Carl Gustav Jung. Devo dire che questa è una suggestione soltanto mia: a quanto mi risulta Bergman non parla mai di Jung, e in genere parla pochissimo di psicoanalisi (e di regola, quando lo fa, non ne parla bene). Però Jung era ben vivo e presente fisicamente, in quel 1956: nato nel 1875, morirà cinque anni dopo l’uscita del film.
Proseguendo comunque nella mia personalissima suggestione, prendo una pagina qualsiasi da quella che può essere considerata come l’autobiografia di Jung (“Ricordi, sogni, riflessioni”, ed. Adelphi) e la metto a confronto con quello che racconta Isaak Borg.
« ... Leggevo molto, disordinatamente, drammi, poesia, storia, in seguito libri di scienze naturali. Leggere non mi attraeva soltanto, mi procurava una gradita e benefica distrazione dalle preoccupazioni della personalità n.2, che sempre più mi facevano sentire depresso. Nel campo dei problemi religiosi, infatti, trovavo solo porte chiuse, o, se una porta si apriva, rimanevo sempre deluso da ciò che mi mosirava. Gli altri sembravano tutti essere in un altro mondo. Io, con le mie certezze, mi sentivo completamente solo. Più che mai provavo il bisogno di avere qualcuno con cui parlare, ma da nessuna parte trovavo un punto di contatto: anzi, avvertivo negli altri tale stupore, diffidenza, timore, che le parole mi morivano in gola. E anche questo mi deprimeva. Non sapevo che fare, e mi chiedevo: perché nessuno ha avuto esperienze simili alle mie? Perché non se ne parla nei libri dei dotti? Sono il solo ad aver fatto tali esperienze? Perché dovrei esserlo? Non pensavo mai di poter essere pazzo, perché la luce e l'oscurità di Dio mi sembravano fatti comprensibili, anche se opprimevano il mio animo. La singolarità della situazione cui ero costretto costituiva per me una minaccia, poiché significava isolamento; e questo era tanto più spiacevole in quanto, assai più spesso di quel che potessi tollerare, ero preso ingiustamente come capro espiatorio.
Inoltre a scuola capitò qualcosa che accrebbe il mio isolamento. Io ero piuttosto mediocre in tedesco, specialmente la grammatica e la sintassi non mi interessavano per niente. Ero pigro, annoiato. Gli argomenti dei componimenti poi mi sembravano di solito vuoti o banali, e i miei o erano abborracciati o troppo elaborati. Riuscivo però a cavarmela e a riportare la sufficienza, e di tanto ero pago, poiché ciò corrispondeva alla mia generale tendenza a non emergere. In genere simpatizzavo con i ragazzi appartenenti a famiglie povere e di modesta origine, come me, e prediligevo quelli che non erano molto brillanti, sebbene fossi incline a irritarmi eccessivamente per la loro stupidità e ignoranza. Il fatto era che essi potevano offrirmi qualcosa che corrispondeva a un mio ardente desiderio: nella loro semplicità non notavano nulla di insolito nel mio comportamento. Difatti la mia «singolarità» cominciava a darmi la sgradevole e piuttosto inquietante sensazione che avessi, senza rendermene conto, un aspetto spiacevole, che mi facesse evitare dai compagni e dagli insegnanti. Ero preso da queste preoccupazioni, quando mi capitò il seguente incidente, come un fulmine a ciel sereno. Una volta tanto c'era stato assegnato un componimento su un tema che mi interessava: di conseguenza mi ero messo al lavoro di buona voglia, e avevo presentato un compito che mi pareva scritto con cura e ben riuscito, e speravo avere un voto tra i migliori (non proprio il migliore, naturalmente, perché questo mi avrebbe messo troppo in vista).
Il nostro insegnante era solito discutere i componimeni in ordine di merito. Cominciò col prendere in esame quello del primo della classe, e questo era previsto. Poi seguirono altri compiti, e io attendevo invano il mio nome, che non giungeva mai. «Non può essere - pensavo - che il mio sia tanto brutto da essere perfino inferiore a questi ultimi, tanto miseri. Che sarà successo?» Ero forse semplicemente hors concours, la qual cosa avrebbe voluto dire che ero rimasto solo e che avrei attirato l'attenzione nel modo più spaventoso?
Quando tutti i compiti furono letti, l'insegnante fece una pausa, poi disse: «Ora ho ancora un compito: quello di Jung. È di gran lunga il migliore, e avrei dovuto assegnargli il primo posto: ma, sfortunatamente, è una frode! Da dove lo hai copiato? Confessa la verità!»
Scattai in piedi, tanto sconvolto quanto adirato, e gridai: «Non l'ho copiato! Mi è costato tanto scrivere un buon componimento!» Ma l'insegnante urlò: «Sei un bugiardo! Non avresti mai potuto scrivere un compito come questo. Nessuno ci crederà mai! Dunque, da dove l'hai copiato? »
Inutilmente giurai sulla mia innocenza, l'insegnante rimaneva saldo nella sua convinzione, e divenne minaccioso. «Ti posso assicurare che se sapessi da dove l'hai copiato saresti sbattuto fuori dalla scuola!» E andò via. I miei compagni mi lanciavano strane occhiate, e capii con orrore che stavano pensando: «Ah, ah, allora è così!» A nulla servirono le mie proteste. Avvertii che da quel momento ero segnato, e che tutte vie per uscire dalla «singolarità» erano tagliate.
Profondamente scoraggiato e colpito nel mio onore giurai di vendicarmi del maestro e, solo che ne avessi avuto l'occasione, avrei fatto qualcosa degno della legge della giungla! Come avrei mai potuto dimostrare che il compito non era copiato?
Per giorni e giorni ripensai a questo incidente, e sempre giungevo alla conclusione che ero impotente, che un destino cieco e stupido s'era burlato di me e mi aveva bollato come bugiardo e imbroglione. Adesso capivo molte cose delle quali prima non mi rendevo conto: per esempio, come mai uno degli insegnanti avesse potuto dire a mio padre, venuto a chiedere notizie del mio comportamento a scuola: «Sì, è al livello medio, ma lavora sodo, in modo lodevole.» Pensavano che fossi relativamente stupido e superficiale - e questo non mi urtava; ma mi irritava che potessero ritenermi capace di imbrogliare, e così annientarmi moralmente.
La mia tristezza e il mio furore stavano per diventare insopportabili, quando accadde qualcosa che già altre volte avevo osservato in me stesso: ci fu un improvviso silenzio interiore, come se una porta si fosse ermeticamente chiusa su una stanza rumorosa. Era come se una fredda curiosità s'impadronisse di me e io mi chiedessi: «Che sta succedendo? Va bene, sei eccitato. Naturalmente l'insegnante è un idiota che non capisce tanto quanto te. Perciò è sospettoso al pari di te. Tu non hai fiducia in te stesso, né negli altri, ed è perciò che stai dalla parte di quelli che sono semplici, ingenui, facili a penetrarsi: è irritante non riuscire a capire!»
(Carl Gustav Jung, da “Ricordi, sogni, riflessioni”, ed. BUR Rizzoli, pagine 93-96)
Proseguendo nel mio ragionamento, mi è venuto in mente James Joyce, che all’inizio di “Dedalus” (un romanzo molto vicino all’autobiografia, pubblicato quando Joyce era ancora molto giovane) scrive proprio come scriverebbe un bambino piccolo piccolo, ed è bravissimo. Jung è invece un anziano signore che si ricorda di cosa pensava da bambino; nelle pagine seguenti a quelle che ho riportato esprime le sue idee sulla Creazione, dicendo che solo le piante e gli animali a sangue caldo gli sembrano vicini a noi, mentre trova lontanissimi gli insetti: e tutti i bambini martirizzano gli insetti, ritenendoli privi di emozioni. Un’idea infantile, per l’appunto: che molti si portano dietro anche da adulti.
Più in là di Joyce e di Jung è andato forse solo Sant’Agostino, che nella sua autobiografia risale addirittura al momento del concepimento.
«...di questo mi sono reso conto più tardi, quando me lo hai come gridato proprio attraverso i tuoi doni sia esteriori che interiori: allora ero capace soltanto di succhiare, di godere delle cose piacevoli e di piangere di quelle spiacevoli, nient'altro. Cominciai poi anche a ridere, prima nel sonno e poi da sveglio: queste cose mi sono state riferite, e vi ho creduto perché vediamo far così anche gli altri bambini; io certo non me lo ricordo. Ed ecco che a poco a poco cominciavo ad aver coscienza del luogo ove mi trovavo, e avevo voglia di manifestare i miei desideri a chi avrebbe potuto soddisfarli, ma non mi riusciva perché i desideri erano dentro di me, le persone invece erano al di fuori di me, e in nessun modo esse avrebbero potuto penetrare nel mio animo. E così mi dimenavo e strillavo, indicando in qualche modo quei miei desideri, così come potevo, cioè in maniera inadeguata. Se poi non ero ascoltato, o perché non mi si capiva o perché ciò che chiedevo mi sarebbe stato di danno, mi sdegnavo con i più grandi di me che non mi obbedivano e non mi servivano, e mi vendicavo piangendo. Così sono i bambini, e l'ho imparato conoscendoli: che così fui anch'io, infatti, me l'hanno insegnato meglio loro, inconsciamente, che non i miei consapevoli educatori. Ed ecco che la mia infanzia è morta da tempo, ed io vivo. Tu invece, Signore, sei sempre vivo e nulla di te muore (...) »
(Sant’Agostino, Le confessioni, capitolo VI , edizioni Paoline)
Quest’altro brano invece me l’ero segnato un paio d’anni fa, perché mi era capitato di leggerlo proprio subito dopo aver guardato (per l’ennesima volta) l’inizio di “Il posto delle fragole”. Io non ho mai letto Orazio, e quindi devo ringraziare l’amica Clelia di http://akatalepsia.blogspot.com/ che me lo ha fatto conoscere.
«La frequentazione assidua di un potente è, per l'inesperto, una delizia: per l'uomo esperto, un rischio da temere [expertus metuit]. La tua nave vola in alto mare? E tu manovra in modo da evitare che il vento, girando, la ricacci indietro [...]. E via le nubi da codesta fronte! Troppe volte l'uomo riservato viene frainteso come fosse tetro, e il taciturno passa per scontroso. Nel frattempo leggerai, consulterai gli specialisti su molteplici problemi: con quali accorgimenti garantirti una pacifica esistenza; se dovrai subire sempre l'insaziabile erosione dell'avidità, o piuttosto dell'ansiosa speranza riposta in beni assai mediocri: se la virtù sia frutto di cultura o dono di natura [virtutem doctrina paret naturane donet]; come ridurre il peso dell'angoscia di ritrovare l'accordo con se stessi [quid te tibi reddat amicum]; che cosa ci propizi una vita limpida e tranquilla (soddisfazioni morali o materiali? O un sentiero appartato, un segreto cammino esistenziale?). Prendi me: ogni volta che mi sento ritemprato dalle fresche acque del Licenza, il fiume che raffredda il villaggio raggrinzito di Mandela, quali sentimenti credi, amico, che mi venga da esprimere in forma di preghiera? "Vorrei avere sempre quello che possiedo oggi, anche di meno; e poter disporre del tempo che mi resta [et mihi vivam quod superest aevi], se vogliono gli dèi che ancora me ne resti; una buona scorta di libri [sit bona librorum], anche, vorrei, e provviste di grano per l'annata: che non debba vacillare, sospeso all'incertezza del domani [dubiae spe pendulus horae]." Ma Giove va invocato solo per quanto può concedere e sottrarre. Mi dia la vita e i mezzi. L'equilibrio, me lo attribuirò io stesso [Det vitam, det opes: aequum mi animum ipse parabo].
Quinto Orazio Flacco , Epistole, I, 18, 86-112
tratto da http://akatalepsia.blogspot.com/ , maggio 2009
(continua)
Il posto delle fragole ( III )
IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället, 1957). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren e Göte Lovén - Scenografia: Gittan Gustafsson - Montaggio: Oscar Rosander. Interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Bibi Andersson (Sara), Ingrid Thulin (Marianne), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjöberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (signora Alman), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Ake Fridell (il suo amante), Max von Sidow (Akerman), Sif Ruud (la zia), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gio Petre (Sigbritt), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogberg (Hagbart), Göran Lundquist (Benjamin), Eva Norée (Anna), Monica Ehrling (Birgitta), Ann-Mari Wilman (Eva Akerman), Vendela Rudbäck (Elisabeth), Helge Wullf (organizzatore della cerimonia). - Durata: 91 minuti
“Il posto delle fragole” è veramente uno dei grandi capolavori del Novecento, però a me è sempre stato un po’ estraneo: non è il mio mondo, non è il mondo dei miei genitori, i protagonisti del film sono ricchi signori che non hanno mai avuto problemi con il denaro, caso mai io sarei stato uno dei loro servitori – ma non credo, in quelle case i servitori erano in livrea, io le livree e le uniformi non le ho mai sopportate. Ci sono parecchie cose che mi piacciono, in quel mondo: ma non mi ci riconosco. E non so se devo dirlo, ma in parecchi dei suoi momenti “Il posto delle fragole” mi annoia. Trovo inoltre piuttosto fastidiosi non solo la coppia che litiga ma anche i tre ragazzi, che ho sempre percepito come falsi, soprattutto nel doppiaggio italiano. Anche le sequenze “antiche”, del ricordo, si potevano fare meglio e sono piene di stereotipi già visti e stravisti: le gemelle che parlano insieme, il sordo con la cornetta acustica, i corteggiamenti molto di maniera, e gli arredi e i costumi che sanno molto di magazzino. Queste sono le mie remore, personalissime: ma “Il posto delle fragole” resta sempre un grande film, e francamente non ne saprei fare a meno.
Quello di cui non potrei mai fare a meno, nel “Posto delle fragole”, sono le sequenze dei sogni, tra le più inquietanti e impressionanti nella storia del cinema. Non è solo la messa in scena o la fotografia (del grandissimo Gunnar Fischer: Sven Nykvyst non era ancora arrivato), ma anche la qualità degli attori, davvero sorprendenti. Mi riferisco soprattutto, oltre a Sjöström, ai due attori che avevamo visto poco prima come marito e moglie, e che ritornano nel sogno sotto altre vesti: l’esaminatore (Gunnar Sjöberg) e la donna che viene esaminata dal professore (Gunnel Broström). In particolare, la risata improvvisa e beffarda della donna che Borg aveva preso per morta è qualcosa che mi ha sempre dato i brividi.
E’ davanti a scene come queste, del “Posto delle fragole”, che mi chiedo come si faccia a prendere sul serio i film horror. Dopo aver visto Bergman, magari Harriet Andersson in “Sussurri e grida”, penso proprio che sia impossibile rimanere seri davanti a un vampiro cinematografico, uno qualsiasi dei tanti che imperversano ancora oggi. E non c’è trucco o effetto speciale che tenga, davanti a una semplice ripresa di Bergman. A Bergman bastano le luci, e l’interpretazione degli attori, per dare l’impressione di essere a un passo dall’aldilà, o di esserci ben dentro.
Le sequenze dei sogni del professor Borg sono una diretta prosecuzione del cinema muto: e sono molti i registi che si sono accorti di aver perso qualcosa con l’invenzione del sonoro (ricordo gli interventi molto precisi in merito di Kubrick, Chaplin, Leone, Paradzhanov, Tarkovskij...).
Nel caso particolare, più che Murnau o l’espressionismo tedesco, è evidente l’influenza proprio dei film di Victor Sjöström: “Il carretto fantasma” soprattutto, ma anche “The wind”, girato in America, sono due film da cercare se si vuole capire bene la parte puramente visiva di “Il posto delle fragole”.
Le scene in famiglia sono un anticipo di quelle iniziali di “Fanny e Alexander”; e la sequenza della visita alla madre ha avuto un piacevolissimo remake, non so quanto voluto, da parte di Wim Wenders: il film è “I fratelli Skladanowski” dove però è autentica la vecchia signora quasi centenaria che sfoglia fotografie e oggetti all’origine del cinema, aprendo scatole e bauli, e autentici sono anche gli oggetti mostrati.
Nei dialoghi del film ci sono echi evidenti, oltre che di Strindberg (c’è sempre Strindberg dietro Bergman) di Shakespeare, di re Lear e del monologo di Amleto, echi impossibile da evitare vista la grande attività in teatro da parte di Bergman.
Gli attori: Sjöström è eccezionale, quasi inutile starlo a ripetere. Ho scoperto di recente che Victor Sjöström recitava spesso come attore, mentre io pensavo che questa sua presenza nel “Posto delle fragole” fosse qualcosa di unico. Sjöström aveva già recitato anche in un film precedente di Bergman, “Verso la gioia” del 1949.
Nel cast ci sono due anziane signore di una bravura superlativa: all’inizio vediamo subito Juliane Kindahl, che è Agda, è bravissima e suoi duetti con Sjöström sono sottili e irresistibili.
La vera sorpresa è Naima Wifstrand, attrice impagabile che ha avuto diverse parti di rilievo nei film di Bergman: viene presentata come quasi centenaria (per la precisione, si dice che ha 97 anni) ma qui aveva solo 65 anni, undici in meno di questo suo figlio. Nel “Volto” farà ancora meglio: dirà di averne duecento, di anni, ed è così brava che vien davvero voglia di crederle. Secondo quanto dice http://www.imdb.com/ : Victor Sjöström 1879-1960, Naima Wifstrand 1890-1968.
Altri due grandi attori (ma questo è un cast stellare): la nuora Ingrid Thulin, e il figlio Gunnar Björnstrand. Vedere Max von Sydow che fa il benzinaio fa sorridere, ma anche questa è una storia nota; capitava spesso, con le compagnie teatrali, che grandi attori facessero piccole parti, per divertimento o per necessità.
Bibi Andersson ha due ruoli: la cugina Sara nel passato, la ragazza Sara nel presente. Ed è meravigliosa la battuta di Bibi ai due ragazzi, quando hanno finito di picchiarsi: “E dunque, esiste?”.
Due ruoli anche per la coppia che litiga e finisce fuori strada: lui diventa l’esaminatore severissimo nel sogno della parte centrale, lei sarà la paziente da esaminare (il professore dice che è morta, lei gli ride in faccia). Gli attori si chiamano Gunnar Sjöberg (ingegner Alman) e Gunnel Broström (signora Alman).
Di seguito all’esame, nel sogno di Isak che vediamo nella parte centrale, appaiono due attori molto presenti nei film di Bergman: Ake Frydell e Gertrud Fridh, che interpretano la moglie del professore e il suo amante, sempre nel sogno della parte centrale. Il grosso e sorridente Frydell ha spesso parti da amoroso corrisposto, con Bergman: la più bella di tutte è senz’altro quella con Harriet Andersson in “Sorrisi di una notte d’estate”, la più buffa quella con la cuoca nel “Volto”. (Frydell è anche il fabbro tradito dalla moglie nel “Settimo sigillo”).
Nella tavolata di casa Borg, nella sequenza del ricordo, è facilmente riconoscibile Gunnel Lindblom; un po’ più difficile riconoscere Maud Hansson, che nel “Settimo sigillo” era la strega condotta al rogo. I due ragazzi accanto a Bibi Andersson si chiamano Folke Sundquist (Anders) e Björn Bjelfvenstam (Viktor).
Il doppiaggio italiano è molto bello, soprattutto per le parti principali; qualche leziosità appare però nel doppiaggio di Bibi Andersson.
Un remake di “Il posto delle fragole” potrebbe essere “Io ballo da sola” di Bernardo Bertolucci: i temi ci sono tutti, siamo infatti davanti all’ennesima apparizione del potente archetipo della Morte e della Giovinezza. In Bergman abbiamo un vecchio sereno e sorridente, e una ragazza molto forte e allegra, più altri personaggi; in Bertolucci c’è un uomo ancora giovane ma prossimo alla morte, e una ragazza in cerca di se stessa e del padre (che però non è il malato), e ancora molti altri personaggi. Una variazione sul tema, più che una citazione vera e propria; e a guardar bene le somiglianza tra i due film sono davvero molte.
Ma l’influenza del cinema di Bergman è stata ed è ancora grandissima, non si finirebbe mai di parlarne.
(continua)
“Il posto delle fragole” è veramente uno dei grandi capolavori del Novecento, però a me è sempre stato un po’ estraneo: non è il mio mondo, non è il mondo dei miei genitori, i protagonisti del film sono ricchi signori che non hanno mai avuto problemi con il denaro, caso mai io sarei stato uno dei loro servitori – ma non credo, in quelle case i servitori erano in livrea, io le livree e le uniformi non le ho mai sopportate. Ci sono parecchie cose che mi piacciono, in quel mondo: ma non mi ci riconosco. E non so se devo dirlo, ma in parecchi dei suoi momenti “Il posto delle fragole” mi annoia. Trovo inoltre piuttosto fastidiosi non solo la coppia che litiga ma anche i tre ragazzi, che ho sempre percepito come falsi, soprattutto nel doppiaggio italiano. Anche le sequenze “antiche”, del ricordo, si potevano fare meglio e sono piene di stereotipi già visti e stravisti: le gemelle che parlano insieme, il sordo con la cornetta acustica, i corteggiamenti molto di maniera, e gli arredi e i costumi che sanno molto di magazzino. Queste sono le mie remore, personalissime: ma “Il posto delle fragole” resta sempre un grande film, e francamente non ne saprei fare a meno.
Quello di cui non potrei mai fare a meno, nel “Posto delle fragole”, sono le sequenze dei sogni, tra le più inquietanti e impressionanti nella storia del cinema. Non è solo la messa in scena o la fotografia (del grandissimo Gunnar Fischer: Sven Nykvyst non era ancora arrivato), ma anche la qualità degli attori, davvero sorprendenti. Mi riferisco soprattutto, oltre a Sjöström, ai due attori che avevamo visto poco prima come marito e moglie, e che ritornano nel sogno sotto altre vesti: l’esaminatore (Gunnar Sjöberg) e la donna che viene esaminata dal professore (Gunnel Broström). In particolare, la risata improvvisa e beffarda della donna che Borg aveva preso per morta è qualcosa che mi ha sempre dato i brividi.
E’ davanti a scene come queste, del “Posto delle fragole”, che mi chiedo come si faccia a prendere sul serio i film horror. Dopo aver visto Bergman, magari Harriet Andersson in “Sussurri e grida”, penso proprio che sia impossibile rimanere seri davanti a un vampiro cinematografico, uno qualsiasi dei tanti che imperversano ancora oggi. E non c’è trucco o effetto speciale che tenga, davanti a una semplice ripresa di Bergman. A Bergman bastano le luci, e l’interpretazione degli attori, per dare l’impressione di essere a un passo dall’aldilà, o di esserci ben dentro.
Le sequenze dei sogni del professor Borg sono una diretta prosecuzione del cinema muto: e sono molti i registi che si sono accorti di aver perso qualcosa con l’invenzione del sonoro (ricordo gli interventi molto precisi in merito di Kubrick, Chaplin, Leone, Paradzhanov, Tarkovskij...).
Nel caso particolare, più che Murnau o l’espressionismo tedesco, è evidente l’influenza proprio dei film di Victor Sjöström: “Il carretto fantasma” soprattutto, ma anche “The wind”, girato in America, sono due film da cercare se si vuole capire bene la parte puramente visiva di “Il posto delle fragole”.
Le scene in famiglia sono un anticipo di quelle iniziali di “Fanny e Alexander”; e la sequenza della visita alla madre ha avuto un piacevolissimo remake, non so quanto voluto, da parte di Wim Wenders: il film è “I fratelli Skladanowski” dove però è autentica la vecchia signora quasi centenaria che sfoglia fotografie e oggetti all’origine del cinema, aprendo scatole e bauli, e autentici sono anche gli oggetti mostrati.
Nei dialoghi del film ci sono echi evidenti, oltre che di Strindberg (c’è sempre Strindberg dietro Bergman) di Shakespeare, di re Lear e del monologo di Amleto, echi impossibile da evitare vista la grande attività in teatro da parte di Bergman.
Gli attori: Sjöström è eccezionale, quasi inutile starlo a ripetere. Ho scoperto di recente che Victor Sjöström recitava spesso come attore, mentre io pensavo che questa sua presenza nel “Posto delle fragole” fosse qualcosa di unico. Sjöström aveva già recitato anche in un film precedente di Bergman, “Verso la gioia” del 1949.
Nel cast ci sono due anziane signore di una bravura superlativa: all’inizio vediamo subito Juliane Kindahl, che è Agda, è bravissima e suoi duetti con Sjöström sono sottili e irresistibili.
La vera sorpresa è Naima Wifstrand, attrice impagabile che ha avuto diverse parti di rilievo nei film di Bergman: viene presentata come quasi centenaria (per la precisione, si dice che ha 97 anni) ma qui aveva solo 65 anni, undici in meno di questo suo figlio. Nel “Volto” farà ancora meglio: dirà di averne duecento, di anni, ed è così brava che vien davvero voglia di crederle. Secondo quanto dice http://www.imdb.com/ : Victor Sjöström 1879-1960, Naima Wifstrand 1890-1968.
Altri due grandi attori (ma questo è un cast stellare): la nuora Ingrid Thulin, e il figlio Gunnar Björnstrand. Vedere Max von Sydow che fa il benzinaio fa sorridere, ma anche questa è una storia nota; capitava spesso, con le compagnie teatrali, che grandi attori facessero piccole parti, per divertimento o per necessità.
Bibi Andersson ha due ruoli: la cugina Sara nel passato, la ragazza Sara nel presente. Ed è meravigliosa la battuta di Bibi ai due ragazzi, quando hanno finito di picchiarsi: “E dunque, esiste?”.
Due ruoli anche per la coppia che litiga e finisce fuori strada: lui diventa l’esaminatore severissimo nel sogno della parte centrale, lei sarà la paziente da esaminare (il professore dice che è morta, lei gli ride in faccia). Gli attori si chiamano Gunnar Sjöberg (ingegner Alman) e Gunnel Broström (signora Alman).
Di seguito all’esame, nel sogno di Isak che vediamo nella parte centrale, appaiono due attori molto presenti nei film di Bergman: Ake Frydell e Gertrud Fridh, che interpretano la moglie del professore e il suo amante, sempre nel sogno della parte centrale. Il grosso e sorridente Frydell ha spesso parti da amoroso corrisposto, con Bergman: la più bella di tutte è senz’altro quella con Harriet Andersson in “Sorrisi di una notte d’estate”, la più buffa quella con la cuoca nel “Volto”. (Frydell è anche il fabbro tradito dalla moglie nel “Settimo sigillo”).
Nella tavolata di casa Borg, nella sequenza del ricordo, è facilmente riconoscibile Gunnel Lindblom; un po’ più difficile riconoscere Maud Hansson, che nel “Settimo sigillo” era la strega condotta al rogo. I due ragazzi accanto a Bibi Andersson si chiamano Folke Sundquist (Anders) e Björn Bjelfvenstam (Viktor).
Il doppiaggio italiano è molto bello, soprattutto per le parti principali; qualche leziosità appare però nel doppiaggio di Bibi Andersson.
Un remake di “Il posto delle fragole” potrebbe essere “Io ballo da sola” di Bernardo Bertolucci: i temi ci sono tutti, siamo infatti davanti all’ennesima apparizione del potente archetipo della Morte e della Giovinezza. In Bergman abbiamo un vecchio sereno e sorridente, e una ragazza molto forte e allegra, più altri personaggi; in Bertolucci c’è un uomo ancora giovane ma prossimo alla morte, e una ragazza in cerca di se stessa e del padre (che però non è il malato), e ancora molti altri personaggi. Una variazione sul tema, più che una citazione vera e propria; e a guardar bene le somiglianza tra i due film sono davvero molte.
Ma l’influenza del cinema di Bergman è stata ed è ancora grandissima, non si finirebbe mai di parlarne.
(continua)
Il posto delle fragole ( IV )
IL POSTO DELLE FRAGOLE (Smultronstället, 1957). Scritto e diretto da Ingmar Bergman - Fotografia: Gunnar Fischer - Musiche: Erik Nordgren e Göte Lovén - Scenografia: Gittan Gustafsson - Montaggio: Oscar Rosander. Interpreti: Victor Sjöström (Isak Borg), Bibi Andersson (Sara), Ingrid Thulin (Marianne), Gunnar Björnstrand (Evald), Folke Sundquist (Anders), Björn Bjelfvenstam (Viktor), Naima Wifstrand (madre di Isak), Jullan Kindahl (Agda), Gunnar Sjöberg (ingegner Alman), Gunnel Broström (signora Alman), Gertrud Fridh (moglie di Isak), Ake Fridell (il suo amante), Max von Sidow (Akerman), Sif Ruud (la zia), Yngve Nordwall (zio Aron), Per Sjöstrand (Sigfrid), Gio Petre (Sigbritt), Gunnel Lindblom (Charlotta), Maud Hansson (Angelica), Lena Bergman (Kristina), Per Skogberg (Hagbart), Göran Lundquist (Benjamin), Eva Norée (Anna), Monica Ehrling (Birgitta), Ann-Mari Wilman (Eva Akerman), Vendela Rudbäck (Elisabeth), Helge Wullf (organizzatore della cerimonia). - Durata: 91 minuti
Ingmar Bergman, da “Immagini”
....avrei dovuto informare sulle fonti e raccogliere queste sporche radiografie dell'anima. Questo sarebbe dovuto avvenire grazie ad appunti, agende di lavoro, recuperate reminiscenze, diari e persino mediante intelligenti sguardi generali da settantenne e tramite una relazione obiettiva di esperienze dolorose e semisepolte.
Sarei dovuto ritornare ai film per addentrarmi nel loro paesaggio. Diventò una dannata passeggiata.
“Il posto delle fragole” è un caso esemplare. Partendo da questo film posso dare un esempio di quanto possa essere insidiosa la mia attuale esperienza. Lasse Bergström e io lo guardammo un pomeriggio d'estate nella mia saletta cinematografica di Farö. Era una bella copia, e io rimasi profondamente impressionato dal volto di Victor Sjöström, dai suoi occhi, dalla bocca, dalla nuca delicata, dai capelli sottili, dalla sua voce incerta e implorante. Sì, era commovente! Il giorno dopo parlammo del film per diverse ore; io raccontai di Victor Sjöström, delle nostre difficoltà e dei nostri fallimenti, ma anche dei nostri momenti di contatto e di trionfo.
Devo precisare che l'agenda di lavoro per la sceneggiatura del Posto delle fragole è andata perduta. (Io non ho mai conservato nulla; è una sorta di scaramanzia. Altri conservano tutto, io no.)
Quando poi leggemmo la trascrizione della nostra conversazione registrata, scoprimmo che non avevo detto niente di sensato sulla realizzazione del film. Quando cercai di ricordarmi del procedimento del mio lavoro, mi accorsi che esso non esisteva più. Ricordavo solo confusamente di aver scritto la sceneggiatura al Karolinska Sjukhuset, dove ero stato ricoverato per un controllo generale e per rimettermi in forze. Il mio amico Sture Helander era primario dell'ospedale, e io avevo la possibilità di frequentare le sue lezioni: trattavano un argomento nuovo e insolito come i disturbi psicosomatici. La camera dell'ospedale era piccola, e c'era a malapena il posto per la scrivania. La finestra dava a nord. La vista era ampia.
Quell'ultimo anno di lavoro era stato abbastanza frenetico: nell'estate 1956 avevo girato Il settimo sigillo. Poi seguirono tre messinscene allo Stadsteater di Malmoe: La gatta sul tetto che scotta, Erik XIV e Peer Gynt con la prima l'8 marzo 1957.
Rimasi al Karolinska Sjukhuset quasi due mesi. Le riprese del Posto delle fragole iniziarono ai primi di luglio e terminarono il 27 agosto. Ritornai immediatamente a Malmoe per mettere in scena Il misantropo.
L'inverno '56 lo ricordo solo in modo oscuro. Se faccio alcuni passi nel buio, mi fa male. Pagine di un frammento di lettera affiorano da un pacco di lettere di tutt'altro genere. Il frammento è stato scritto all'inizio dell'anno successivo ed evidentemente era per l'amico Helander: «,.. abbiamo cominciato le prove del Peer Gynt dopo l'Epifania; se non stessi così male, ci sarebbe più animazione. Tutta la compagnia regge e Max è grandioso, lo si vede già. Il mattino è il momento più difficile; non mi sveglio mai dopo le quattro e mezzo... allora si rivoltano le viscere dentro e fuori. Contemporaneamente infuria l'angoscia con la sua fiamma lenta e bruciante. Non so che genere di angoscia sia, è indescrivibile. Forse ho soltanto paura di non essere abbastanza bravo. Il sabato e il martedì (quando non ci sono le prove) mi sento meglio». E via di seguito.
La lettera non fu mai spedita. Sapevo bene di piagnucolare e che piagnucolare non aveva senso. In particolare, non sopporto né i miei piagnistei né quelli degli altri. Il grandissimo vantaggio (e svantaggio) di essere regista è soprattutto quello di non aver mai qualcuno a cui dar la colpa. Quasi tutti hanno qualcosa o qualcuno a cui dar la colpa. Non i registi. Essi posseggono l'inconcepibile possibilità di rappresentarsi da soli le proprie realtà, i propri destini, insomma la vita comunque la si voglia chiamare. In questo pensiero ho spesso trovato consolazione: un'amara consolazione, e anche qualche sdegno.
Dopo un'ulteriore riflessione, e dopo un altro passo nell'interno dello spazio buio del Posto delle fragole, trovo nella comunità di lavoro e nella fatica collettiva un caos negativo di relazioni umane. La separazione dalla mia terza moglie mi faceva ancora soffrire violentemente. E’ una strana esperienza amare qualcuno con cui non si può convivere. La bella e creativa relazione con Bibi Andersson aveva cominciato ad andare in pezzi; non ricordo la causa. Mi trovai in aspro dissidio con i miei genitori. Non volevo né potevo parlare con mio padre. Mia madre e io cercavamo di volta in volta una temporanea riconciliazione, ma c'erano troppi scheletri negli armadi, troppe incomprensioni perverse. Ci sforzavamo, perché avremmo voluto volentieri concludere la pace, ma fallivamo sempre.
Immagino che i più forti impulsi a fare Il posto delle fragole siano nati proprio di qui. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino.
In qualche dichiarazione per i giornali ho spiegato che soltanto più tardi mi resi conto del significato del nome del protagonista, Isak Borg. Come la maggior parte delle affermazioni per i mass-media, si tratta di una sorta di non verità che proviene da quella serie di accorgimenti più o meno astuti creati da un'intervista. Isak Borg = I B = Is (ghiaccio) e Borg (fortezza). Era una cosa semplice e a buon mercato. Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre ma che ero io in tutto ePer tutto. Io, sui trentasette anni di età, tagliato fuori dalle relazioni umane, che recidevo i rapporti, autosufficiente, chiuso, non solo abbastanza fallito, ma completamente fallito. Coronato dal successo, però. E bravo. E per bene. E disciplinato.
Ho cercato mio padre e mia madre, ma non potevo trovarli. La scena finale del Posto delle fragole contiene così una forte carica di nostalgia e di desiderio: Sara prende Isak Borg per mano, conducendolo in una radura del bosco illuminata dal sole. Dall'altra parte dell'insenatura lui può vedere i suoi genitori. Loro lo salutano con la mano.
Nel corso della vicenda scorre un unico motivo, plurivariegato: scarsi risultati, povertà, vuoto, nessun condono. Non so ora, né sapevo allora, quanto io, attraverso Il posto delle fragole, facessi un appello ai miei genitori: guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi.
In "Bergman parla di Bergman" racconto in maniera abbastanza dettagliata di un viaggio a Uppsala di buon mattino. Di come io abbia sentito l'impulso di andare a visitare la casa della nonna a Tràdgàrdsgatan. Di come davanti alla porta della cucina sentissi, per un magico momento, la possibilità di entrare nella mia infanzia. Questa è una falsità a buon mercato. La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra della mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà.
Nel Posto delle fragole mi muovo senza fatica e con una certa spontaneità su diversi piani: tempo, spazio, sognorealtà. Non sono in grado di ricordare se il movimento in sé mi abbia creato difficoltà tecniche. Quel movimento che in seguito mi avrebbe procurato, nell'Immagine allo specchio, dei problemi insormontabili. I sogni erano sostanzialmente autentici: il carro funebre che si rovesciava con la bara aperta, un esame catastrofico, la moglie che faceva l'amore in pubblico (c'era già in Una vampata d'amore).
L'impulso a scrivere Il posto delle fragole non è che un disperato tentativo di fare giustizia davanti a genitori indifferenti e miticamente ingigantiti, un tentativo destinato al fallimento. Soltanto molti anni più tardi mamma e papà furono tramutati in persone di proporzioni normali, e l'amaro odio infantile si sciolse fino a scomparire. Ci incontrammo nell'affetto e nella reciproca comprensione.
Avevo dunque dimenticato le ragioni del Posto delle fragole. Quando dovevo parlarne, non avevo nulla da dire. Ciò era misterioso e diventò ben presto interessante, almeno per me.
Sono ancora convinto che la cancellazione di tutto questo, il dimenticare, abbiano a che fare con Victor Sjöström. Quando facemmo il film la differenza d'età era grande. Oggi praticamente non esiste più.
All'inizio l'artista Sjöström era uno che dava ombra. Aveva girato un film che aveva significato molto in confronto a tutti gli altri. L'avevo visto la prima volta quando avevo quindici anni, e lo rivedo ancora almeno una volta ogni estate, sia da solo sia con persone più giovani. Vedo chiaramente come Il carretto fantasma abbia influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari. Ma questo è tutto un altro capitolo.
Victor Sjöström era un narratore straordinario, divertente e coinvolgente... in particolare quando si era in presenza di qualche giovane e bella signora. Ci trovavamo alla fonte della storia del film, sia svedese che americana. È una vera dannazione che in quel tempo non si usassero i registratori.
Tutte queste cose esteriori sono facilmente comprensibili. Ma finora non avevo capito che Victor Sjöström si era preso il mio testo, l'aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze: la sua sofferenza, misantropia, indifferenza, brutalità, dolore, paura, solitudine, gelo, calore, acidità, noia. Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato: non ne era rimasta neppure una briciola! Fece tutto questo con la sovranità e l'ossessione delle grandi personalità. Non avevo nulla da aggiungere, neppure un commento ragionevole o irrazionale. Il posto delle fragole non era più il mio film, era il film di Victor Sjöström!
È probabilmente significativo il fatto che io non abbia mai pensato per un solo momento a Sjöström quando scrissi la sceneggiatura. Fu Carl Anders Dymling che venne con la proposta. Credo di essere rimasto incerto abbastanza a lungo, prima di accettarla.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti 1992)
(le foto vengono dal sito "Bergmanorama")
Ingmar Bergman, da “Immagini”
....avrei dovuto informare sulle fonti e raccogliere queste sporche radiografie dell'anima. Questo sarebbe dovuto avvenire grazie ad appunti, agende di lavoro, recuperate reminiscenze, diari e persino mediante intelligenti sguardi generali da settantenne e tramite una relazione obiettiva di esperienze dolorose e semisepolte.
Sarei dovuto ritornare ai film per addentrarmi nel loro paesaggio. Diventò una dannata passeggiata.
“Il posto delle fragole” è un caso esemplare. Partendo da questo film posso dare un esempio di quanto possa essere insidiosa la mia attuale esperienza. Lasse Bergström e io lo guardammo un pomeriggio d'estate nella mia saletta cinematografica di Farö. Era una bella copia, e io rimasi profondamente impressionato dal volto di Victor Sjöström, dai suoi occhi, dalla bocca, dalla nuca delicata, dai capelli sottili, dalla sua voce incerta e implorante. Sì, era commovente! Il giorno dopo parlammo del film per diverse ore; io raccontai di Victor Sjöström, delle nostre difficoltà e dei nostri fallimenti, ma anche dei nostri momenti di contatto e di trionfo.
Devo precisare che l'agenda di lavoro per la sceneggiatura del Posto delle fragole è andata perduta. (Io non ho mai conservato nulla; è una sorta di scaramanzia. Altri conservano tutto, io no.)
Quando poi leggemmo la trascrizione della nostra conversazione registrata, scoprimmo che non avevo detto niente di sensato sulla realizzazione del film. Quando cercai di ricordarmi del procedimento del mio lavoro, mi accorsi che esso non esisteva più. Ricordavo solo confusamente di aver scritto la sceneggiatura al Karolinska Sjukhuset, dove ero stato ricoverato per un controllo generale e per rimettermi in forze. Il mio amico Sture Helander era primario dell'ospedale, e io avevo la possibilità di frequentare le sue lezioni: trattavano un argomento nuovo e insolito come i disturbi psicosomatici. La camera dell'ospedale era piccola, e c'era a malapena il posto per la scrivania. La finestra dava a nord. La vista era ampia.
Quell'ultimo anno di lavoro era stato abbastanza frenetico: nell'estate 1956 avevo girato Il settimo sigillo. Poi seguirono tre messinscene allo Stadsteater di Malmoe: La gatta sul tetto che scotta, Erik XIV e Peer Gynt con la prima l'8 marzo 1957.
Rimasi al Karolinska Sjukhuset quasi due mesi. Le riprese del Posto delle fragole iniziarono ai primi di luglio e terminarono il 27 agosto. Ritornai immediatamente a Malmoe per mettere in scena Il misantropo.
L'inverno '56 lo ricordo solo in modo oscuro. Se faccio alcuni passi nel buio, mi fa male. Pagine di un frammento di lettera affiorano da un pacco di lettere di tutt'altro genere. Il frammento è stato scritto all'inizio dell'anno successivo ed evidentemente era per l'amico Helander: «,.. abbiamo cominciato le prove del Peer Gynt dopo l'Epifania; se non stessi così male, ci sarebbe più animazione. Tutta la compagnia regge e Max è grandioso, lo si vede già. Il mattino è il momento più difficile; non mi sveglio mai dopo le quattro e mezzo... allora si rivoltano le viscere dentro e fuori. Contemporaneamente infuria l'angoscia con la sua fiamma lenta e bruciante. Non so che genere di angoscia sia, è indescrivibile. Forse ho soltanto paura di non essere abbastanza bravo. Il sabato e il martedì (quando non ci sono le prove) mi sento meglio». E via di seguito.
La lettera non fu mai spedita. Sapevo bene di piagnucolare e che piagnucolare non aveva senso. In particolare, non sopporto né i miei piagnistei né quelli degli altri. Il grandissimo vantaggio (e svantaggio) di essere regista è soprattutto quello di non aver mai qualcuno a cui dar la colpa. Quasi tutti hanno qualcosa o qualcuno a cui dar la colpa. Non i registi. Essi posseggono l'inconcepibile possibilità di rappresentarsi da soli le proprie realtà, i propri destini, insomma la vita comunque la si voglia chiamare. In questo pensiero ho spesso trovato consolazione: un'amara consolazione, e anche qualche sdegno.
Dopo un'ulteriore riflessione, e dopo un altro passo nell'interno dello spazio buio del Posto delle fragole, trovo nella comunità di lavoro e nella fatica collettiva un caos negativo di relazioni umane. La separazione dalla mia terza moglie mi faceva ancora soffrire violentemente. E’ una strana esperienza amare qualcuno con cui non si può convivere. La bella e creativa relazione con Bibi Andersson aveva cominciato ad andare in pezzi; non ricordo la causa. Mi trovai in aspro dissidio con i miei genitori. Non volevo né potevo parlare con mio padre. Mia madre e io cercavamo di volta in volta una temporanea riconciliazione, ma c'erano troppi scheletri negli armadi, troppe incomprensioni perverse. Ci sforzavamo, perché avremmo voluto volentieri concludere la pace, ma fallivamo sempre.
Immagino che i più forti impulsi a fare Il posto delle fragole siano nati proprio di qui. Io mi ritraevo nella figura di mio padre, cercando spiegazioni alle amare controversie con mia madre. Credevo di capire di essere stato un bambino non desiderato, cresciuto in un grembo freddo e generato in una crisi... fisica e psichica. Il diario di mia madre ha in seguito confermato questa mia impressione: mia madre era profondamente ambivalente nei suoi sentimenti verso il suo disgraziato, morente bambino.
In qualche dichiarazione per i giornali ho spiegato che soltanto più tardi mi resi conto del significato del nome del protagonista, Isak Borg. Come la maggior parte delle affermazioni per i mass-media, si tratta di una sorta di non verità che proviene da quella serie di accorgimenti più o meno astuti creati da un'intervista. Isak Borg = I B = Is (ghiaccio) e Borg (fortezza). Era una cosa semplice e a buon mercato. Modellavo un personaggio che esteriormente somigliava a mio padre ma che ero io in tutto ePer tutto. Io, sui trentasette anni di età, tagliato fuori dalle relazioni umane, che recidevo i rapporti, autosufficiente, chiuso, non solo abbastanza fallito, ma completamente fallito. Coronato dal successo, però. E bravo. E per bene. E disciplinato.
Ho cercato mio padre e mia madre, ma non potevo trovarli. La scena finale del Posto delle fragole contiene così una forte carica di nostalgia e di desiderio: Sara prende Isak Borg per mano, conducendolo in una radura del bosco illuminata dal sole. Dall'altra parte dell'insenatura lui può vedere i suoi genitori. Loro lo salutano con la mano.
Nel corso della vicenda scorre un unico motivo, plurivariegato: scarsi risultati, povertà, vuoto, nessun condono. Non so ora, né sapevo allora, quanto io, attraverso Il posto delle fragole, facessi un appello ai miei genitori: guardatemi, capitemi e, se possibile, perdonatemi.
In "Bergman parla di Bergman" racconto in maniera abbastanza dettagliata di un viaggio a Uppsala di buon mattino. Di come io abbia sentito l'impulso di andare a visitare la casa della nonna a Tràdgàrdsgatan. Di come davanti alla porta della cucina sentissi, per un magico momento, la possibilità di entrare nella mia infanzia. Questa è una falsità a buon mercato. La verità è che io vivo sempre nella mia infanzia, giro negli appartamenti in penombra della mia infanzia, passeggio per le silenziose vie di Uppsala, mi fermo davanti alla Sommarhuset ad ascoltare l'enorme betulla a due tronchi. Mi sposto con la velocità di secondi. In verità, abito sempre nel mio sogno e di tanto in tanto faccio una visita alla realtà.
Nel Posto delle fragole mi muovo senza fatica e con una certa spontaneità su diversi piani: tempo, spazio, sognorealtà. Non sono in grado di ricordare se il movimento in sé mi abbia creato difficoltà tecniche. Quel movimento che in seguito mi avrebbe procurato, nell'Immagine allo specchio, dei problemi insormontabili. I sogni erano sostanzialmente autentici: il carro funebre che si rovesciava con la bara aperta, un esame catastrofico, la moglie che faceva l'amore in pubblico (c'era già in Una vampata d'amore).
L'impulso a scrivere Il posto delle fragole non è che un disperato tentativo di fare giustizia davanti a genitori indifferenti e miticamente ingigantiti, un tentativo destinato al fallimento. Soltanto molti anni più tardi mamma e papà furono tramutati in persone di proporzioni normali, e l'amaro odio infantile si sciolse fino a scomparire. Ci incontrammo nell'affetto e nella reciproca comprensione.
Avevo dunque dimenticato le ragioni del Posto delle fragole. Quando dovevo parlarne, non avevo nulla da dire. Ciò era misterioso e diventò ben presto interessante, almeno per me.
Sono ancora convinto che la cancellazione di tutto questo, il dimenticare, abbiano a che fare con Victor Sjöström. Quando facemmo il film la differenza d'età era grande. Oggi praticamente non esiste più.
All'inizio l'artista Sjöström era uno che dava ombra. Aveva girato un film che aveva significato molto in confronto a tutti gli altri. L'avevo visto la prima volta quando avevo quindici anni, e lo rivedo ancora almeno una volta ogni estate, sia da solo sia con persone più giovani. Vedo chiaramente come Il carretto fantasma abbia influenzato la mia professione, perfino nei più minuti particolari. Ma questo è tutto un altro capitolo.
Victor Sjöström era un narratore straordinario, divertente e coinvolgente... in particolare quando si era in presenza di qualche giovane e bella signora. Ci trovavamo alla fonte della storia del film, sia svedese che americana. È una vera dannazione che in quel tempo non si usassero i registratori.
Tutte queste cose esteriori sono facilmente comprensibili. Ma finora non avevo capito che Victor Sjöström si era preso il mio testo, l'aveva fatto suo e vi aveva immesso le sue esperienze: la sua sofferenza, misantropia, indifferenza, brutalità, dolore, paura, solitudine, gelo, calore, acidità, noia. Si era impadronito della mia anima nella figura di mio padre e se ne era appropriato: non ne era rimasta neppure una briciola! Fece tutto questo con la sovranità e l'ossessione delle grandi personalità. Non avevo nulla da aggiungere, neppure un commento ragionevole o irrazionale. Il posto delle fragole non era più il mio film, era il film di Victor Sjöström!
È probabilmente significativo il fatto che io non abbia mai pensato per un solo momento a Sjöström quando scrissi la sceneggiatura. Fu Carl Anders Dymling che venne con la proposta. Credo di essere rimasto incerto abbastanza a lungo, prima di accettarla.
(Ingmar Bergman, da “Immagini”, ed. Garzanti 1992)
(le foto vengono dal sito "Bergmanorama")
lunedì 21 febbraio 2011
Gli anni spezzati
Gallipoli - Gli anni spezzati (1981) Regia di Peter Weir. Scritto da Peter Weir, David Williamson, Ernest Raymond. Fotografia di Russell Boyd. Musiche di Albinoni, Bizet, J. Strauss, Paganini, musiche tradizionali australiane e irlandesi. Musiche originali di Jean Michel Jarre. Interpreti: Mark Lee (Archy Hamilton), Mel Gibson (Frank), Bill Kerr (zio Jack), Harold Baigent (il cammelliere), Robert Grubb, Tim McKenzie e David Argue (Billy, Barney e Snowy), Harold Hopkins (Les), Charles Yunupingu (Zac), Bill Hunter (il maggiore Barton), John Morris (col. Robinson), Graham Dow (gen. Gardner), e molti altri Durata 110 minuti
“Gli anni spezzati” di Peter Weir è un film splendido, di quelli indimenticabili, del quale però si fa una gran fatica a parlare. Si fa fatica a parlarne prima di tutto perché la narrazione è perfetta, esemplare, chiarissima, e quindi c’è poco da aggiungere a quello che si vede; e poi perché per tutto il film c’è una luce particolare che non si può descrivere; e infine perché il suo finale è di quelli che non si possono raccontare, di quelli che rimangono dentro, indelebili.
Il titolo originale, “Gallipoli”, è il nome di una città: non la Gallipoli di Puglia, ovviamente, ma una città dallo stesso nome che si trova in Turchia, dove venne combattuta una battaglia sanguinosa durante la Grande Guerra. Anche in Turchia c’era il fronte, e non solo a Caporetto o nelle Ardenne; e in Turchia combattevano le truppe australiane.
Weir è australiano: nella guerra del ’14-’18, per la prima volta, l’Australia e la Nuova Zelanda (il corpo si chiama ANZAC, sigla che sta per Australia e New Zealand) erano presenti come nazione, e non più come colonie inglesi. Al tempo in cui fu girato il film c’erano ancora molti reduci da quella guerra, e Weir (fin da ragazzo, suppongo: ben prima di fare il film) ha potuto parlare con loro, e documentarsi anche nei minimi dettagli.
Come nasce questa guerra, e perché vi partecipano gli australiani? Lo spiega bene Weir stesso in un dialogo al minuto 35, quando i due protagonisti incontrano un cammelliere: cosa tutt’altro che strana, perché i dromedari furono davvero importati in Australia, che ha molte regioni desertiche (il cammelliere è un bel po’ sgrammaticato, nella traduzione non si nota)
Cammelliere: Dove state andando?
Archy: Perth.
Cammelliere: Ah, pensavo anch’io di andarci...mi piacerebbe vedere com’è fatta una grande città, prima di morire. Andate a cercare lavoro?
Archy: No, parto per la guerra.
Cammelliere: Che guerra?
Archy: (stupito dalla domanda) La guerra contro i tedeschi.
Cammelliere: Ho conosciuto un tedesco, una volta... Chi ha cominciato?
Frank: Non gli dia corda...
Archy: Di preciso non lo so, ma è colpa dei tedeschi.
Cammelliere: E ci sono in mezzo anche gli australiani?
Frank: Sì, siamo in Turchia.
Cammelliere: Turchia?? E che cosa c’entra la Turchia?
Frank: (indicando Archy) Chiedilo a lui.
Archy: E’ alleata con la Germania.
Cammelliere: Accidenti, non si finisce mai di imparare...Ma, ancora non capisco: cosa c’entriamo noi?
Archy: Se non li fermiamo, potrebbero arrivare fin qui.
Cammelliere: (fa una pausa, si guarda in giro, tutt’intorno c’è solo il deserto) Beh, che vengano pure...
Frank si mette a ridere, Archy rimane in silenzio.
Il riferimento d’obbligo è “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick: i due film sono molto differenti, ma i fatti che descrivono sono gli stessi. La principale differenza con Kubrick è che in “Gallipoli” la guerra vera e propria comincia dopo un’ora e dodici minuti, e la battaglia comincia a 1h25’: prima c’è un lungo racconto di viaggio, e di amicizia, uno dei più bei film di viaggio mai visti da quando esiste il cinema. L’Australia è protagonista per i primi cinquanta minuti, poi ci si sposta in Egitto: la Sfinge e le piramidi sono quelle vere, panorami inclusi. Anche la partita di rugby (tra inglesi e australiani) si svolge davvero a due passi dalle piramidi.
Frank (Mel Gibson) non vorrebbe arruolarsi: è Archy, più giovane di lui, che lo spinge e lo incita a farlo. Come accadde anche da noi, i giornali e i politici enfatizzarono il ruolo delle truppe australiane, e il movimento a favore dell’intervento era molto forte; a differenza di noi italiani, però, per gli australiani e i neozelandesi il fronte era davvero molto lontano. Non sarà la stessa cosa nel 1939, quando anche il Giappone entrerà in guerra e anche l’Oceania, anche Giava e l’Indonesia, facevano parte del fronte.
I due ragazzi (anche Mel Gibson era molto giovane, nel 1981) ricordano gli altri due di Picnic at Hanging Rock, i due giovani che vanno a cercare le ragazze scomparse: sono situazioni diverse e personaggi diversi, ma i caratteri sono molto simili. Molto simile a “Picnic ad Hanging Rock” è anche l’inizio del film, i panorami, le persone, potrebbero facilmente passare da un film all’altro: per essere precisi con la cronologia, “Gli anni spezzati” si svolge 14 anni dopo “Hanging Rock”, che era ambientato proprio nell’anno 1900.
Ci sono molti personaggi davvero belli: lo zio Jack, interpretato da Bill Kerr, lo vediamo all’inizio; e il maggiore Barton (l’attore è Bill Hunter) che vediamo alla fine, e che va ricollegato al Kirk Douglas di “Orizzonti di gloria”.
Su Henry Lasalles, il centometrista preso a modello dal protagonista del film, non sono riuscito a trovare notizie certe: ho fatto una ricerca su internet, ma i rimandi sono pochi e tutti riferiti al film di Peter Weir.
Come in tutti i film di Peter Weir, è fondamentale il rapporto con la natura: il deserto, la sfida di corsa con l’uomo a cavallo, i soldati che nuotano sott’acqua, rimandano a scene molto simili (eppure diversissime) in Master and Commander, in Mosquito Coast, in L’ultima onda, in Picnic at Hanging Rock... A questo punto, anche se so già che non andrò mai in Australia, mi fa molto piacere dare un nome ai luoghi che vediamo nel film, così come sono elencati da www.imdb.com : l’Egitto è proprio l’Egitto, il bazar del Cairo è proprio al Cairo e le piramidi sono davvero le piramidi; per il resto è stato tutto girato in Australia, sequenze di guerra comprese. La casa di Archy Hamilton e della sua famiglia è a Beltana, South Australia; la stazione di Perth è stata ricostruita ad Adelaide, un’altra grande città australiana; le scene sul mare sono state girate a Coffin Bay, Dutton Bay, Duttons Beach (Battle of the Neck), Eyre Peninsula, Farm Beach (Anzac Cove recreation), Flinders Ranges, Gallipoli Beach (Anzac Cove recreation), tutte località nel sud dell’Australia. Il deserto attraversato da Archy e da Frank, quello del cammelliere, è Lake Torrens, South Australia; le scene del ballo sono state girate nella stazione ferroviaria di Adelaide, sala dei marmi (Marble Hall, Adelaide Railway Station). Altre località: Pichi Richi Pass, Port Adelaide, Port Lincoln, Quorn, The Old Troubridge Loading Dock (Port Adelaide), anche queste nell’Australia del Sud.
Le musiche originali, molto azzeccate, sono di Jean Michel Jarre; si ascolta però molta altra musica tra cui il grande classico irlandese “It’s a long way for Tipperary”, per banda, in esecuzione molto bella (è alla gara di corsa dove Archy e Frank si conoscono), e le immancabili (e magnifiche) cornamuse dell’esercito britannico. "Australia will be there” è la canzone cantata nella sequenza sugli asini bianchi, nel bazar del Cairo; nella scena del ballo degli ufficiali si ascoltano due valzer di Johann Strauss, “Racconti dal bosco viennese” e “Rose del sud” , e c’è anche un brano di Paganini che in locandina è indicato come “Centone di sonata n.3”, ma non sono riuscito a individuare il momento in cui viene eseguito.
In trincea, il disco ascoltato dal maggiore Barton è musica di Georges Bizet, dall’opera “I pescatori di perle”. La interpreta (un piccolo anacronismo) un grande tenore degli anni ’50, il canadese Leopold Simoneau, insiema al baritono René Bianco.
Nella colonna sonora ha una grande parte l’Adagio di Albinoni, che ascoltiamo fin dall’inizio: si tratta di un brano molto piacevole, e che ha una lunga storia alle sue spalle. Questa storia non ha niente a che vedere il film, e la riporto solo per completezza; ma può essere utile sapere che l’Adagio in sol minore di Albinoni (il brano che viene chiamato con questo nome) nei manoscritti di Albinoni non esiste, ed è con ogni probabilità opera di Remo Giazotto, il musicologo romano che curò la revisione dei suoi manoscritti, oltre che quelli di Locatelli, Stradella, Alessandro Scarlatti; Giazotto ha anche scritto una biografia di Albinoni, pubblicata nel 1945.
“Adagio” è solo un’indicazione musicale, metronomica. Di tempi lenti, larghi e andanti e adagi, Albinoni ne ha scritti parecchi: e i tempi lenti (di Albinoni, di Vivaldi, di Haendel, di Pergolesi...) sono tra le cose più belle da ascoltare di tutta la storia della musica. Il mio parere, per quel che vale, è che non si può nemmeno dire che l’Adagio in questione sia un falso: sembra più vero del vero, e a forza di leggere e trascrivere questa musica meravigliosa, può ben darsi che sia stato Albinoni stesso, dall’Empireo dove ormai risiede, a suggerirlo a Giazotto. L’operazione è perfettamente riuscita, l’Adagio di Albinoni-Giazotto non è più falso di tante trascrizioni d’epoca (con arrangiamento “moderno”) riportate sulle antologie usate per gli esami del Conservatorio.
Tommaso Albinoni (Venezia, 1671-1750) è ben presente ancora oggi nei programmi dei concerti e nelle incisioni discografiche; riguardo alla popolarità, gli nuoce molto la vicinanza con Vivaldi, suo contemporaneo, (così come per Alessandro e Benedetto Marcello, tutti veneziani e vissuti negli stessi anni), ma pian piano si sta riscoprendo tutta la sua vasta produzione, e le sorprese non mancano. L’esecuzione che si ascolta nel film è dell’orchestra da camera Jean François Paillard, un complesso di alto livello molto attivo negli anni ’70. Oggi orchestrazioni di questo tipo, per Vivaldi e per Albinoni, non si usano più: sono sempre belle da ascoltare, ma questo tipo di orchestrazione, e di arrangiamento, non ha molto a che vedere con le vere orchestre del Settecento, che erano più intime e raccolte. Anche questo è però un discorso che esula dalla visione del film, e si può benissimo ascoltare l’Adagio di Albinoni (e di Giazotto) come parte della colonna sonora, senza porsi troppe domande.
domenica 20 febbraio 2011
Orizzonti di gloria
Orizzonti di gloria (Paths of Glory , 1957) Regia di Stanley Kubrick Sceneggiatura di Humphrey Cobb, Stanley Kubrick, Calder Willingham, Jim Thompson Fotografia: Georg Krause Musica: Gerald Fried Interpreti: Kirk Douglas, Ralph Meeker, Adolphe Menjou, George Macready, Wayne Morris, Richard Anderson, Christiane Kubrick (87 minuti)
"Orizzonti di gloria" è il film indispensabile per capire Stanley Kubrick. Non si può capire “Full metal jacket”, e neanche “Arancia meccanica” o “Shining”, se non si parte da qui, da questo che – per gli spettatori superficiali – è solo vecchio film in bianco e nero. Si tratta in realtà di un capolavoro assoluto, che prende fin dalla prima inquadratura, e che non si dimentica. Il cinema di Kubrick allo stato purissimo, già spettacolare, già indimenticabile.
“Orizzonti di gloria”, è un film del 1958, è uno dei più grandi film della storia del cinema, e mi dispiace molto vederlo dimenticato, anche al di là dei meriti artistici: perché la storia che racconta è una di quelle che – purtroppo per noi - non perdono mai d'attualità. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, sul fronte francese; un generale dello Stato Maggiore, per suoi calcoli personali di carriera, ordina un attacco impossibile: e invano il colonnello Dax (interpretato da Kirk Douglas), in trincea, tenta di impedire un inutile massacro. Il generale ritiene che l'ordine non sia stato eseguito, per codardia: ne nasce un processo, e la Corte Marziale ordina una punizione esemplare. Tre soldati sono sorteggiati, a caso, e verranno fucilati dopo un processo sommario. Il film è la storia di questo processo, nel quale invano il colonnello Dax, in veste di avvocato, cercherà di difendere i suoi soldati innocenti. Una storia agghiacciante, e anche amara, raccontata in modo esemplare da Stanley Kubrick: che a questi temi teneva molto e ci tornerà sopra, in seguito, con altri film indimenticabili.
Che cosa ci vuol dire Kubrick? Provo a riassumere (ma il film è molto più complesso): che il mondo in cui viviamo è basato, e sono fondamenta molto forti, proprio sull'ordine militare. Per molte persone, ancora oggi, il capo è il Capo, e un Ordine non si può discutere. Al capo si obbedisce, e basta. Non obbedendo al Capo, si rischia il crollo di tutto il sistema: ma questa non è la realtà, è una mentalità da caserma, è l’esatto tipo di mentalità che ha portato a stragi e devastazioni. Poco importa, a chi ragiona in questo modo, che il capo sia in realtà un povero disgraziato, o addirittura un folle: l'ordine va eseguito, e senza discutere.
Kubrick in “Orizzonti di gloria” ci mostra nel dettaglio il modo di pensare dei generali (di tutti i tempi), che calcolavano in anticipo quanti morti ci sarebbero stati: duemila soldati morti, ma poi vinciamo la battaglia. Uno schema identico viene mostrato anche in “Barry Lyndon”, ambientato nel Settecento: soldati addestrati a marciare impettiti verso il nemico – tanto poi se cadi quelli dietro prendono il tuo posto, “rimpolpano”. Si è andati avanti così per secoli, per millenni: una vita umana non valeva niente, la disciplina era la cosa più importante, l’unica che conta. Per gli altri, c’è la Corte Marziale: e una punizione esemplare, così imparano.
Si sono ottenuti molti risultati, questo va detto. Senza l’ordine e la disciplina, e il sacrificio, non si va da nessuna parte: il problema è esattamente quello che ci mostra Kubrick, molti dei capi che sono nei posti di comando sono dei pazzi, più o meno conclamati. Gli storici, quelli seri, hanno portato molti esempi di capi considerati grandi che in realtà non erano capaci nemmeno di badare a se stessi: è recentissima, per esempio, l’ammissione del figlio di Ronald Reagan: suo padre fece gli ultimi anni da presidente USA ben dentro il morbo di Alzheimer, demenza senile (smentito subito dalle fonti del Pentagono, ma che Reagan non fosse più in sè era ormai sotto gli occhi di tutti...). Altri capi di Stato, e penso a cosa sta succedendo qui da noi, sono sotto dosi massicce di psicofarmaci, o di farmaci tout court: ma ogni loro dichiarazione viene raccolta come se fosse oro colato, e chi discute le loro indicazioni viene guardato con disprezzo e riprovazione.
"Il dottor Stranamore" , che invece qualcuno si ricorda più facilmente, sempre di Kubrick, è di pochi anni successivo, ed è lo stesso film girato però in modo caricaturale: si ride, ma è ancora più agghiacciante perché stavolta i pazzi hanno in mano la bomba atomica.
“Orizzonti di gloria” ha un gemello in “Gallipoli-Gli anni spezzati” di Peter Weir, girato negli anni ’70, che mostra le stesse cose e negli stessi anni, ma dal punto di vista del contingente australiano.
La differenza fondamentale tra i due film è questa: che in Weir si dà molto spazio, tutta la prima parte del film, ai motivi che portavano all’arruolamento, come volontari; la guerra vera la vediamo solo nel finale. In “Orizzonti di gloria” di volontari non ce ne sono: erano tutti militari di leva, anche i nostri che morirono a migliaia, negli stessi giorni; e nella guerra ci siamo dentro fin dall’inizio.
Gli avvenimenti recenti (quelli miei personali e quelli che vediamo al telegiornale, o sul nostro posto di lavoro) hanno riproposto un pensiero che purtroppo mi torna spesso a galla: a molta gente questo mondo piace. Ho osservato comportamenti molto simili a una caserma "vecchio stile", tipo addestramento dei marines in "Full metal jacket", anche in posti che di per sè non avrebbero nulla a che fare con l'organizzazione militare o paramilitare, e dove fino a qualche anno fa questo atteggiamento non si notava: i volontari della Croce Rossa, per esempio (che magari girano con la "divisa sociale" anche fuori dai loro orari, danno ordini perentori, eccetera) o i vigili del fuoco (che potrebbero ben muoversi da persone normali, invece anche a molti di loro piace il "passo dell'oca", o simili). Ma la cosa che più colpisce è ritrovare questa mentalità sui posti di lavoro, o in un ufficio, o magari a scuola (la riforma Gelmini va molto decisa verso un "ordine" che ha poco a che fare con l'insegnamento e con l'apprendimento delle materie scolastiche).
Insomma, a molti piace la mentalità da caserma (con tutto il rispetto per i soldati veri, naturalmente), dove “tutto è in ordine” e dove c'è un capo che pensa anche per noi e al quale bisogna ubbidire, non importa quale sia l'ordine. Questa è la cosa importante: non dover pensare con la propria testa, obbedire, e non importa quale sia l'argomento. La ribellione avviene solo in un caso: quando ci si rende davvero conto di quale è la posta in gioco, e cioè la propria vita.
Di tutto questo, e di altro ancora, ci parla Stanley Kubrick: in "Orizzonti di gloria", ma anche in "Full metal jacket", in "Arancia meccanica", nel "Dottor Stranamore", e perfino in "Barry Lyndon".
Se non si parte da qui, da "Orizzonti di gloria", non si potrà mai capire Kubrick.
"Orizzonti di gloria" è il film indispensabile per capire Stanley Kubrick. Non si può capire “Full metal jacket”, e neanche “Arancia meccanica” o “Shining”, se non si parte da qui, da questo che – per gli spettatori superficiali – è solo vecchio film in bianco e nero. Si tratta in realtà di un capolavoro assoluto, che prende fin dalla prima inquadratura, e che non si dimentica. Il cinema di Kubrick allo stato purissimo, già spettacolare, già indimenticabile.
“Orizzonti di gloria”, è un film del 1958, è uno dei più grandi film della storia del cinema, e mi dispiace molto vederlo dimenticato, anche al di là dei meriti artistici: perché la storia che racconta è una di quelle che – purtroppo per noi - non perdono mai d'attualità. Siamo nella Prima Guerra Mondiale, sul fronte francese; un generale dello Stato Maggiore, per suoi calcoli personali di carriera, ordina un attacco impossibile: e invano il colonnello Dax (interpretato da Kirk Douglas), in trincea, tenta di impedire un inutile massacro. Il generale ritiene che l'ordine non sia stato eseguito, per codardia: ne nasce un processo, e la Corte Marziale ordina una punizione esemplare. Tre soldati sono sorteggiati, a caso, e verranno fucilati dopo un processo sommario. Il film è la storia di questo processo, nel quale invano il colonnello Dax, in veste di avvocato, cercherà di difendere i suoi soldati innocenti. Una storia agghiacciante, e anche amara, raccontata in modo esemplare da Stanley Kubrick: che a questi temi teneva molto e ci tornerà sopra, in seguito, con altri film indimenticabili.
Che cosa ci vuol dire Kubrick? Provo a riassumere (ma il film è molto più complesso): che il mondo in cui viviamo è basato, e sono fondamenta molto forti, proprio sull'ordine militare. Per molte persone, ancora oggi, il capo è il Capo, e un Ordine non si può discutere. Al capo si obbedisce, e basta. Non obbedendo al Capo, si rischia il crollo di tutto il sistema: ma questa non è la realtà, è una mentalità da caserma, è l’esatto tipo di mentalità che ha portato a stragi e devastazioni. Poco importa, a chi ragiona in questo modo, che il capo sia in realtà un povero disgraziato, o addirittura un folle: l'ordine va eseguito, e senza discutere.
Kubrick in “Orizzonti di gloria” ci mostra nel dettaglio il modo di pensare dei generali (di tutti i tempi), che calcolavano in anticipo quanti morti ci sarebbero stati: duemila soldati morti, ma poi vinciamo la battaglia. Uno schema identico viene mostrato anche in “Barry Lyndon”, ambientato nel Settecento: soldati addestrati a marciare impettiti verso il nemico – tanto poi se cadi quelli dietro prendono il tuo posto, “rimpolpano”. Si è andati avanti così per secoli, per millenni: una vita umana non valeva niente, la disciplina era la cosa più importante, l’unica che conta. Per gli altri, c’è la Corte Marziale: e una punizione esemplare, così imparano.
Si sono ottenuti molti risultati, questo va detto. Senza l’ordine e la disciplina, e il sacrificio, non si va da nessuna parte: il problema è esattamente quello che ci mostra Kubrick, molti dei capi che sono nei posti di comando sono dei pazzi, più o meno conclamati. Gli storici, quelli seri, hanno portato molti esempi di capi considerati grandi che in realtà non erano capaci nemmeno di badare a se stessi: è recentissima, per esempio, l’ammissione del figlio di Ronald Reagan: suo padre fece gli ultimi anni da presidente USA ben dentro il morbo di Alzheimer, demenza senile (smentito subito dalle fonti del Pentagono, ma che Reagan non fosse più in sè era ormai sotto gli occhi di tutti...). Altri capi di Stato, e penso a cosa sta succedendo qui da noi, sono sotto dosi massicce di psicofarmaci, o di farmaci tout court: ma ogni loro dichiarazione viene raccolta come se fosse oro colato, e chi discute le loro indicazioni viene guardato con disprezzo e riprovazione.
"Il dottor Stranamore" , che invece qualcuno si ricorda più facilmente, sempre di Kubrick, è di pochi anni successivo, ed è lo stesso film girato però in modo caricaturale: si ride, ma è ancora più agghiacciante perché stavolta i pazzi hanno in mano la bomba atomica.
“Orizzonti di gloria” ha un gemello in “Gallipoli-Gli anni spezzati” di Peter Weir, girato negli anni ’70, che mostra le stesse cose e negli stessi anni, ma dal punto di vista del contingente australiano.
La differenza fondamentale tra i due film è questa: che in Weir si dà molto spazio, tutta la prima parte del film, ai motivi che portavano all’arruolamento, come volontari; la guerra vera la vediamo solo nel finale. In “Orizzonti di gloria” di volontari non ce ne sono: erano tutti militari di leva, anche i nostri che morirono a migliaia, negli stessi giorni; e nella guerra ci siamo dentro fin dall’inizio.
Gli avvenimenti recenti (quelli miei personali e quelli che vediamo al telegiornale, o sul nostro posto di lavoro) hanno riproposto un pensiero che purtroppo mi torna spesso a galla: a molta gente questo mondo piace. Ho osservato comportamenti molto simili a una caserma "vecchio stile", tipo addestramento dei marines in "Full metal jacket", anche in posti che di per sè non avrebbero nulla a che fare con l'organizzazione militare o paramilitare, e dove fino a qualche anno fa questo atteggiamento non si notava: i volontari della Croce Rossa, per esempio (che magari girano con la "divisa sociale" anche fuori dai loro orari, danno ordini perentori, eccetera) o i vigili del fuoco (che potrebbero ben muoversi da persone normali, invece anche a molti di loro piace il "passo dell'oca", o simili). Ma la cosa che più colpisce è ritrovare questa mentalità sui posti di lavoro, o in un ufficio, o magari a scuola (la riforma Gelmini va molto decisa verso un "ordine" che ha poco a che fare con l'insegnamento e con l'apprendimento delle materie scolastiche).
Insomma, a molti piace la mentalità da caserma (con tutto il rispetto per i soldati veri, naturalmente), dove “tutto è in ordine” e dove c'è un capo che pensa anche per noi e al quale bisogna ubbidire, non importa quale sia l'ordine. Questa è la cosa importante: non dover pensare con la propria testa, obbedire, e non importa quale sia l'argomento. La ribellione avviene solo in un caso: quando ci si rende davvero conto di quale è la posta in gioco, e cioè la propria vita.
Di tutto questo, e di altro ancora, ci parla Stanley Kubrick: in "Orizzonti di gloria", ma anche in "Full metal jacket", in "Arancia meccanica", nel "Dottor Stranamore", e perfino in "Barry Lyndon".
Se non si parte da qui, da "Orizzonti di gloria", non si potrà mai capire Kubrick.
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