giovedì 14 aprile 2011

Un eroe borghese ( III )

Un eroe borghese (1995) Regia di Michele Placido. Tratto dal libro di Corrado Stajano su Giorgio Ambrosoli. Sceneggiatura di Graziano Diana e Angelo Pasquini. Fotografia di Luca Bigazzi. Musiche: Pino Donaggio. Interpreti: Fabrizio Bentivoglio (Giorgio Ambrosoli), Michele Placido (maresciallo Silvio Novembre), Omero Antonutti (Sindona), Philippine Leroy-Beaulieu (Anna Lori, moglie di Ambrosoli), Laura Betti (dottoressa Trebbi), Giuliano Montaldo (il governatore Banca d’Italia, Paolo Baffi), Ricky Tognazzi (Sarcinelli), Laure Killing (moglie di Novembre), Daan Hugaert (il killer mafioso Aricò). Durata: 90 minuti

SCOMPARVE NELLA PUBBLICA INDIFFERENZA,
ARRIVA SULLO SCHERMO SENZA RETORICA
di Corrado Stajano, corriere della sera 26.2.1995
Bisognerebbe capire come mai il nome di Giorgio Ambrosoli, sedici anni dopo la sua morte, suscita emozione in un Paese che dal 1969 a oggi è stato lastricato dai cadaveri delle stragi politiche e dei delitti di mafia.  Perché è un uomo diverso da tutte (o quasi) le vittime di questi anni. Non è un ribelle, non è un sovversivo. E' un avvocato della borghesia tradizionale milanese, un uomo del sistema che avrebbe potuto continuare a vivere la sua serena esistenza se invece di dire no a quello che sembrava, ed era, ingiusto, avesse soltanto detto qualche piccolo sì. Commissario liquidatore delle banche di Sindona andate in rovina, nominato a quell'incarico nel 1974 dal ministro del Tesoro, si comportò con intransigenza, rifiutò tutti i possibili patteggiamenti, le compromissioni, gli aggiustamenti, i salvataggi che riguardavano le banche sindoniane proposti dai governi dell'epoca e dai loro emissari.  Per amore di onestà, di giustizia, per rispetto della legge, ma anche per rispetto di se stesso e della collettività nazionale che avrebbe dovuto pagare per quegli imbrogli, disse di no sempre e fu assassinato dalla mafia sulla porta di casa la notte dell'11 luglio 1979 da un killer venuto dall'America, assoldato da Sindona, avallato e protetto per decenni dai pubblici poteri.
"Un eroe borghese" è il titolo del libro che ho scritto su Giorgio Ambrosoli nel 1990. Gli eroi, nella storia, sono proletari, o soldati caduti in battaglia. Il sostantivo eroe legato all'aggettivo borghese sembra stridere, un ossimoro della storia politica d'Italia. Ma la contraddizione, in questo infelice Paese, consiste nell'essere costretti a definire eroe una persona che fa assolutamente ciò che deve, in nome della legge, della Costituzione della Repubblica, delle regole scritte e di quelle tramandate da generazioni. Il libro uscì alla fine del decennio craxiano-andreottiano, quando la corruzione appariva palpabile. La storia di quell'avvocato né oscuro né famoso non era certo sconosciuta ai magistrati del pool «Mani pulite» che cominciarono a lavorare nel 1992. Spesso gli stessi che indagarono sul suo assassinio, che scoprirono tante verità su Sindona e che dalle piaghe della mafia arrivarono a scoprire le liste della P2, la loggia che governò le malefatte sindoniane e quelle del potere politico-mafioso protettore del banchiere. La vicenda di Giorgio Ambrosoli è davvero alle radici dell'inchiesta «Mani pulite». Perché, dunque, il nome di Ambrosoli suscita ancora oggi attenzione e rispetto, ma anche dispetto e ironie? L'avvocato è considerato anche come uno che non ha saputo vivere, adeguarsi e capire, un inciampo moralistico sulla strada di una (desiderata) società senza regole e senza legge.
I conti sono ancora in sospeso. Nell'Italia di allora e di oggi non c'è stato quasi mai uno scontro fra classi contrapposte, ma soprattutto uno scontro all'interno delle due anime della borghesia. Da un lato la borghesia che crede nei valori civili e nella legalità, dall'altro una borghesia priva di princìpi e di scrupoli, priva di ogni idea di Stato, una borghesia che identifica lo Stato col governo e considera i governi soltanto come comitati per i propri affari, svincolati da ogni regola. Da un lato coloro che antepongono l'interesse generale a quello particolare, dall'altro coloro che si ritengono al riparo da ogni controllo democratico e considerano persino naturale avere come interlocutori i poteri criminali.  Ambrosoli era ed è un personaggio simbolico di questo scontro, anche oggi essenziale per la salvezza o per la caduta della libertà nel nostro Paese.
Non conta che avesse idee moderate e che oggi a ricordarlo siano soprattutto coloro che hanno idee progressiste. Nei momenti alti delle scelte crollano i muri, spariscono le barriere, quel che vale, prima della politica che ama spesso più le tattiche che i fini, sono i princìpi generali, la libertà, la giustizia, la solidarietà sociale e civile su cui è possibile intendersi tra diversi.
Su Giorgio Ambrosoli sta per uscire un film, Un eroe borghese, diretto da Michele Placido, tratto dal mio libro. L'ho visto soltanto l'altro giorno, temevo il romanzesco, il giallo-nero, l'effetto, i toni accesi tesi a rendere ancora più cupa una vicenda che nella sua tragicità non ha certo bisogno di sottolineature. E invece il film mi è parso delicato ed emozionante. La vicenda pubblica si incastra nella vicenda privata dell'avvocato, apparentemente freddo, com'era nella realtà. Il coraggio della moglie Annalori, l'amicizia e la fedeltà del maresciallo Novembre, l'innocenza dei piccolo Betò, sette anni (sente di là dalla porta la voce registrata che minaccia di uccidere il padre) sono resi con umile intensità. Non è un film gridato o retorico, spesso è anche commovente e colpisce al cuore la storia di un uomo morto nell'indifferenza della società, in uno Stato che avrebbe dovuto essere al suo fianco contro il malaffare e che invece gli era nemico.
Questa storia dell'avvocato moderato milanese svela con semplicità un progetto che dovrebbe unire le persone di buona volontà contro la sopraffazione, contro chi antepone gli interessi privati al bene comune. Le due Italie si mescolano continuamente: l'eterna Italia di malavita e l'Italia che seguita a fare il proprio dovere, a rischio della vita e della carriera, quella del maresciallo Novembre, di Mario Sarcinelli, del governatore della Banca d'Italia Paolo Baffi, di Ugo La Malfa, l'unico politico che fronteggiò Sindona.
Ambrosoli è esterrefatto di fronte alla rivelazione continua delle illegalità, delle trame, delle connivenze che hanno per protagonisti uomini della sua classe sociale e personaggi di alto rango dello Stato, ministri, magistrati, banchieri. Lui è l'uomo della società pulita, capisce la degenerazione del sistema, capisce come sono insopportabili, certe compromissioni che la vecchia politica ritiene naturali. Uomo d'ordine, si trova di continuo di fronte come nemici proprio quegli uomini che dovrebbero essere i garanti naturali del suo ordine. Scopre rapidamente la faccia del potere impresentabile.
Ha quasi subito coscienza che quell'avventura può costargli la vita. Basta leggere la lettera testamento scritta per la moglie nel 1975: «Pagherò a molto caro prezzo l'incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un'occasione unica di fare qualcosa per il Paese, di far politica per il Paese e non per i partiti».
di Corrado Stajano, corriere della sera 26.2.1995
SE SI FOSSE COMPORTATO “DA FURBO”
NON AVREMMO AVUTO MANI PULITE
di Gherardo Colombo, corriere della sera 26.2.1995
Non ho conosciuto personalmente l'avvocato Ambrosoli, prima del 12 luglio 1979. Ho cominciato a conoscerlo indagando per scoprire i suoi assassini e far emergere i motivi dell'omicidio, ho continuato a conoscerlo incontrando tante persone che gli erano state vicine. Giorgio Ambrosoli aveva avuto l'incarico di «liquidare» le banche di Michele Sindona, che aveva trascinato migliaia di risparmiatori in un dissesto senza precedenti. Doveva ricostruire la contabilità, individuare il denaro distratto, recuperarlo per risarcire coloro che di Sindona si erano fidati. Aveva affrontato e svolto il suo compito con quella normalità allora e oggi tanto eccezionale, consistente nel rispetto del proprio lavoro, di sé, degli altri.
Non si faceva intimidire, Ambrosoli, non subiva pressioni, non si compiaceva di ammiccamenti, non accettava compromessi, né con gli altri né con se stesso. Con assoluta normalità ha affrontato il pesante rischio dell'essere onesto, rischio del quale è stato consapevole fin quasi da subito. E con assoluta normalità ha continuato a cercare, trovare, capire nessi, legami, connessioni, recuperare documenti e denaro, intimamente convinto che quella fosse la sua strada, perché quel che faceva era esattamente quel che voleva fare.  Con assoluta normalità, perché Ambrosoli non faceva altro che conformarsi alle regole, alle regole scritte, alle regole dettate per tutti. Si è stupito senz’altro, all’inizio, che questo suo essere normale, il suo conformarsi al diritto, il suo pretendere che la sua attività fosse limpida e nell'interesse di tutti l'avessero ridotto a esser solo, isolato da coloro che rappresentavano le istituzioni, insomma da chi aveva il compito di gestire lo Stato per il bene di tutti. Si è stupito, ma ha continuato a credere in sé, nei valori, i principii, le regole...  Quanto poco ci sarebbe voluto, non per capire (perché aveva capito da subito), ma per adeguarsi. Per chiudere un occhio, per non osteggiare.  Ma quanto gli sarebbe costato della sua libertà, della sua coerenza, delle sue convinzioni. Ambrosoli è morto, è stato freddato, trucidato sotto casa, perché aveva continuato a voler essere libero. Alcuni, senz'altro, non hanno capito, persino tra gli amici dei figli. Per questi, Ambrosoli non è stato furbo, tant'è vero che è morto, è morto perché non ha capito che bisogna essere furbi.
Certo che è morto, Giorgio Ambrosoli, ed è disperante per tutti. Ma altri lo pensano, e hanno imparato a indignarsi. Altri lo vivono, e hanno messo dentro di sé la sua forza, il pacato coraggio, la semplice determinazione. La voglia di cose normali, ma non rinunciabili, non barattabili, non trasformabili in merce. La voglia di avere un futuro, che non dipenda dal capriccio di chi ha capito, di chi ha imparato a essere furbo. La voglia che quel che si dice, che quel che si fa, valga allo stesso modo per tutti. La voglia di non tollerare il privilegio, il sopruso, l'aggiustamento; di non confondere la libertà con l'arbitrio; di riconoscere i diritti degli altri. E l'esigenza profonda della propria dignità.
Sarebbe stato impossibile, per noi, fare il nostro lavoro, se Giorgio Ambrosoli si fosse adeguato.
di Gherardo Colombo, corriere della sera 26.2.1995
(continua)

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