venerdì 22 aprile 2011

Il trono di sangue ( II )

Il trono di sangue (KUMONOSU-JO, 1957) (t.l.: Il castello Kumonosu, cioè “il castello della tela di ragno”) Regia: Akira Kurosawa; sceneggiatura (dal Macbeth di Shakespeare): Shinobu Hashimoto, Ryuzo Kikushima, Hideo Oguni e Akira Kurosawa; fotografia: Asakazu Nakai; scenografia: Yoshiro Muraki e Kohei Ezaki; musica: Masaru Sato; montaggio:Akira Kurosawa; interpreti: Toshiro Mifune (Taketoki Washizu - Macbeth), Isuzu Yamada (Asaji, sua moglie - Lady Macbeth), Minoru Chiaki (Yoshiaki Miki, suo amico - Banquo), Akira Kubo (Yoshiteru, il figlio di Miki - Fleance), Takamaru Sasaki (Kuniharu Tsuzuki, il principe - Duncan), Yoichi Tachikawa (Kunimaru, il figlio di Tsuzuki - Malcolm), Takashi Shimura (Noriyasu Odagura, il capo dell'esercito liberatore - Siward), Chieko Naniwa (lo Spirito del bosco); produzione: Shojiro Motoki e Akira Kurosawa per la Toho; distribuzione: Toho; durata: 110'.

Il castello Kumonosu , cioè “Il castello della tela di ragno” è il titolo originale del film, quello voluto da Kurosawa: il titolo italiano è molto bello, ma quando si è visto il film, e conoscendo il Macbeth di Shakespeare, su questo titolo bisogna ritornare.
La “tela di ragno” è il bosco vicino al castello: una foresta buia e intricata, dove i sentieri seguono un percorso labirintico che fa smarrire chi vi si inoltra; e si dice che sia abitato dagli spiriti. Il castello è il più grande e il più importante: guardando il film apprendiamo che è posto in un luogo strategico, più in alto di tutti; che è ben protetto dal bosco, ed è quasi inespugnabile. E’ la residenza del Re, che per Kurosawa diventa Sua Signoria (così viene tradotto in italiano) per poter meglio inserire la tragedia di Macbeth nella storia giapponese.
Il bosco incantato, abitato dagli spiriti, è posto subito al centro della narrazione: uno dei generali propone di attirarvi il nemico, che sembra vittorioso, per confonderlo e colpirlo. Ma si tratterebbe di una mossa disperata, il nemico è ormai alle porte. Giunge invece inaspettata la notizia della vittoria, gran merito della quale va ai generali Washiku e a Miki (corrispondenti a Macbeth e a Banquo) che hanno sbaragliato il nemico con il loro coraggio e la loro forza.
Kurosawa dà subito grande importanza ai luoghi. Prima il bosco, più avanti sarà la stanza insanguinata, a tratti sembra di assistere al Barbablu di Béla Bartok, o a Erwartung di Arnold Schoenberg. Il castello della ragnatela è vicino al bosco del labirinto, dove anche seguendo i sentieri ci si perde e si rischia di non uscire mai più: due simboli che diventano una sola cosa.
Fedeli alla narrazione di Shakespeare, dopo le prime due scene introduttive (le streghe, l’arrivo del messaggero al castello del Re) entriamo nell’azione vera e propria: l’incontro di Macbeth e di Banquo con le streghe. Vediamo Miki e Washiku (Banquo e Macbeth, Minoru Chiaki e Toshiro Mifune) a cavallo nel bosco, mentre stanno raggiungendo il Castello per essere premiati per il loro valore. Il bosco è un labirinto, i due si trovano a tornare sui loro passi; qui incontrano lo Spirito del bosco, uno spettro bianchissimo intento a filare, si direbbe a dipanare un bozzolo di seta, su un arcolaio. Questo spirito assomiglia molto al mito greco e romano delle Parche, “Moira una e trina”, tre dee figlie della Notte: Cloto regge la conocchia, Lachesi fila la lana, Atropo taglia il filo. Le tre Parche regolano il destino di ognuno di noi; il taglio del filo, da parte di Atropo, corrisponde alla morte.
Per l’esattezza, Parche è il nome romano e Moire è il nome greco; esiste un loro corrispondente nella mitologia nordica, le Norne, che anche Richard Wagner pose all’inizio del “Crepuscolo degli dèi” in una delle sue scene più grandi e impressionanti.
Qui lo spirito del bosco è uno solo, fa girare molto lentamente il suo arcolaio, e parla con voce sommessa e appena udibile; non sarà più così nella sua seconda apparizione.
In Shakespeare, le streghe sono intente a un’operazione non chiara, un lavoro indecifrabile: “un’opera senza nome”. Non richieste, danno delle profezie a Macbeth: lo salutano con i titoli di sire di Glamis, sire di Cawdor, e infine di Re di Scozia. Macbeth è il signore di Glamis, ma gli altri due titoli non gli appartengono. Banquo, incuriosito, chiede anche lui notizie sul suo futuro: le streghe gli rispondono che il suo destino sarà meno importante e meno felice di quello di Macbeth, ma che i suoi figli saranno re. Quando le streghe svaniscono, arriva un messaggero che saluta Macbeth come “signore di Cawdor”: Cawdor ha tradito il re ed è stato giustiziato, il re ha dato il suo feudo al valoroso Macbeth. Ecco dunque che la prima profezia si è avverata.
In Kurosawa la scena delle profezie, a parte la presenza dello spirito invece delle streghe, non è molto diversa da quello che si legge nel Macbeth. Vengono però tagliati i due personaggi di Ross e Angus, che portano la notizia delle decisioni del Re: in Shakespeare Macbeth e Banquo sono in una radura, non si sono persi nel bosco.
Al minuto 21 i due finalmente escono dal bosco labirintico, in vista del Castello: sono stanchissimi e si fermano per riposare. Ne nasce questo dialogo:
Miki: Sono stanco morto, ho solo voglia di fare una gran dormita.
Washizu: Io mi sento come mi fossi già addormentato, e stessi facendo il sogno più strano della mia vita.
Miki: Io credo che noi sogniamo le cose che desideriamo...quale è il samurai che in vita sua non ha mai sognato di essere il signore di un castello?
Washizu: Però lo spettro ha detto che il castello (lo indica) sarà di tuo figlio.
Miki: Sì, ma solo dopo che tu ne sarai stato il signore, ricordi? (ridono insieme)
Washizu: E prima ancora ha detto che io comanderò il castello Nord...
Miki: E che io diventerò il comandante del Forte n.1.
Washizu: (con un inchino) Mi congratulo!
Miki: (ricambiando l’inchino) Anch’io!
Ridono di cuore.
Miki: Eppure...
Washizu: Cosa stai pensando?
Miki: Quello che pensi tu. (pausa)
Washizu: Certo, se tra poco mi affidassero il Castello Nord... e se a te dessero il comando del Forte n.1...
Non ridono più; si alzano e guardano insieme verso il Castello.
Sognare ciò che si desidera veramente, "abbiamo sognato ciò che desideravamo" è una frase che mi ha fatto pensare a “Stalker” di Tarkovskij, e che si adatta benissimo al Macbeth e alla profezia delle streghe. Nel film di Tarkovskij, c’è una stanza segreta dove si avverano i nostri desideri: ma noi non sappiamo quale sia il nostro vero desiderio, il desiderio più profondo. Vi si racconta che uno stalker arrivò nella Stanza, espresse il desiderio di veder tornare salvo suo fratello, e si ritrovò invece ricchissimo: era infatti questo il suo desiderio vero, il più intimo e profondo, e la Stanza lo aveva esaudito. Una rivelazione di sè alla quale lo stalker non riesce a reggere, quando verrà a sapere che il fratello è morto.
In Shakespeare questa frase non c’è, in questo punto: ce ne sono però altre importanti. Nel finale della scena III, Macbeth cerca di far dire qualcosa di più alle streghe, ma le Streghe scompaiono così come sono venute, lasciando costernati i due protagonisti.
BANQUO: La terra, come l'acqua, ha anch'essa le sue bolle d'aria: e tali sono queste. Dove sono svanite?
MACBETH: Nell'aria. Quel che sembrava corporeo si è dissolto come fiato al vento. Fossero, così, rimaste!
BANQUO: Le cose di cui parliamo erano esse medesime proprio qui, o forse abbiamo mangiato dell'insana radice che detiene prigioniera la ragione?
MACBETH: I tuoi figliuoli saranno re.
BANQUO: Tu sarai re.
MACBETH: Ed anche Thane di Cawdor. Non han detto, forse, così?
BANQUO: Tali furon le loro parole, e tale la musica. Ma chi viene là?
Entrano Ross e Angus, che danno notizie sulla battaglia.
ROSS: Il re, o Macbeth, ha ricevuto con gioia la notizia dei tuoi trionfi. E com'egli scruta nei rischi personali che hai corso nella lotta contro i ribelli, le sue meraviglie e le sue lodi contendon fra loro per stabilire quali debbano esser tue e quali sue. (...) Fitte come la grandine, venivano una dopo l'altra le staffette: ed ognuna ripeteva le tue lodi guadagnate in difesa del suo regno, e gliele rovesciava ai piedi. (...) il re m'ha incaricato di chiamarti, da parte sua, col nome di Thane di Cawdor, con il qual titolo io ti saluto, nobile Thane, poiché t'appartiene.
BANQUO: E che? può forse il demonio aprir bocca per dire la verità?
MACBETH: Il Thane di Cawdor vive: perché mi fai indossare vesti d'accatto?
ANGUS: Colui che era il Thane vive ancora; ma serba la propria vita, che pur merita di perdere, sotto il peso d'una ben grave sentenza. Io non so s'egli si sia alleato con la parte norvegese, ovvero se abbia prestato soccorsi segreti ai rivoltosi, o si sia macchiato d'entrambe queste colpe. Ma certo il tradimento capitale, provato e confessato da lui stesso, ha procurato la sua rovina.
MACBETH: [A parte.] Glamis, e Thane di Cawdor: il titolo più grande è ancora da venire. [A Ross e Angus.] Vi ringrazio per la pena che vi siete data. [A Banquo.] Non cominci a sperare anche tu che i tuoi figliuoli diventino re, quando coloro che diedero a me il titolo di Thane di Cawdor, non han promesso a te nulla da meno?
BANQUO: Una fiducia così piena nelle loro parole potrebbe infiammarti a voler la corona, oltre il titolo di Cawdor. Tutto questo è ben strano. Spesso, per favorirci il cammino verso la nostra stessa perdizione, gli strumenti delle tenebre ci dicono la verità, e ci seducono con innocenti trastulli al fine di tradirci nell'atto di abbandonarci a conseguenze più gravi. Cugini, ve ne prego, ascoltate una parola. [Si apparta con Angus e Ross.]
MACBETH [Viene avanti sulla scena.] Due verità son state dette, prologhi felici e forieri di quell'atto culminante che ha per tema l'impero!... vi ringrazio, signori... [Di nuovo, a parte.] Questa sollecitazione soprannaturale non può essere, a un tempo, e cattiva e buona. Ché se fosse cattiva, per qual ragione m'avrebbe dato garanzia di successo cominciando con l'annunziarmi una verità? e cioè ch'io son Thane di Cawdor. E se fosse buona, perché mai accoglierei un suggerimento la cui orrida immagine mi fa drizzare i capelli sul capo, e procura che il mio cuore, già saldo, prenda a battermi di contro alle costole in modo innaturale? L'orrore visibile ha meno presa sull'anima che un orrore immaginario. I miei pensieri, il cui delitto è ancor soltanto opera della fantasia, scuotono così il mio indivisibile regno d'uomo, che ogni funzione è soffocata dall'immaginazione, e per me non esiste nient'altro al di fuori di quel che non esiste.
BANQUO Vedete come il nostro compagno è assorto nel suo fantasticare.
MACBETH Se la mia sorte vuol ch'io diventi re, ebbene: la sorte può incoronarmi senza ch'io muova un dito.
BANQUO I nuovi onori piovuti su lui gli fan l'effetto di quelle vesti nuove che non s'adattano bene al corpo se non per l'uso.
MACBETH Accada quel che accada, i giorni cattivi passano come tutti gli altri.
BANQUO: Nobile Macbeth, aspettiamo, per partire, solo il tuo buon piacere.
MACBETH [A Ross e Angus.] Ch'io abbia il vostro perdono. La mia mente s'era perduta dietro a immagini dimenticate. Miei gentili signori, le pene che vi siete prese son registrate in quella pagina in cui posso leggerle quotidianamente. Andiamo incontro al re... [A Banquo.] Pensa a quanto ci è capitato, e più in là, come avremo avuto tutto il tempo necessario a meditar sull'accaduto, a cuore aperto ci scambieremo le nostre idee.
BANQUO Ben volentieri.
MACBETH Ma prima d'allora, sarà meglio tacerne... Andiamo, amici.
Exeunt.
(William Shakespeare, Macbeth, traduzione di Gabriele Baldini, edizione BUR-Rizzoli)
Al minuto 23 i due sono finalmente al Castello, davanti al loro Signore (in Kurosawa non c’è un Re del Giappone, per forza di cose) e vengono premiati proprio come diceva la profezia. La sequenza corrisponde abbastanza fedelmente alla scena IV dell’atto primo del Macbeth.
A questo punto invece rispetto al testo di Shakespeare c’è una grossa differenza, ma mi sembra di poter dire che è una differenza solo apparente: Kurosawa ha scelto di non basare la sua messa in scena sulle parole, ma sulle immagini; di conseguenza, può permettersi il lusso di tagliare uno dei momenti più grandi e più famosi del Macbeth, la scena della lettera.
Nella scena V del Macbeth, infatti, la moglie di Macbeth legge una lettera dove il marito le racconta i fatti appena successi; poi un messaggero le annunzia l’arrivo di Macbeth. La donna concepisce il suo piano: bisogna assecondare la profezia delle streghe, e se occorre agevolarne il compimento.
L’incontro successivo di Lady Macbeth con il marito, e tutta questa scena, sono uno dei più grandi momenti di tutto il teatro e di tutta la letteratura; in mano ad una grande attrice questa scena V dell’atto primo può diventare da leggenda, e fa venire i brividi quando si pensa a cosa ne ha tratto Giuseppe Verdi. Eppure tutto questo in Kurosawa non c’è: al minuto 25, lasciata la corte di Sua Signoria, entriamo nella quiete di una campagna piena di contadini al lavoro: è il nuovo castello di Washiku, quello che era del traditore condannato da Sua Signoria.
Al minuto 26, vediamo insieme Washizu e sua moglie; lei si chiama Asaji e appare qui per la prima volta. Non c’è la scena della lettera, Washizu le dice che è stato come un sogno, che è stanco della guerra e che adesso è contento di vivere in pace; lei invece lo spinge ad agire e gli insinua dei dubbi sulla lealtà di Sua Signoria e di Miki.
Il castello in cui abitano era di Fujimaki, il traditore; lì si è ucciso, e lì si dice che sia rimasto il suo sangue. Al minuto 35-37, dopo l’arrivo di Sua Signoria, vediamo la stanza dove si è ucciso, che è sempre rimasta chiusa: questa notte, invece, verrà preparata per Macbeth-Washizu e la sua signora. I due servitori chiamati per aprirla contemplano le pareti sporche di sangue: sangue che non si può lavar via, e che ogni volta ritorna.
(continua)

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