lunedì 22 ottobre 2012

Puccini 1973 ( V )

Puccini (1973) Regia di Sandro Bolchi. Sceneggiatura di Dante Guardamagna. Consulenza di Mario Labroca ed Enzo Siciliano. Scene e costumi di Ezio Frigerio. Regia delle opere liriche: Beppe De Tomasi. Scene e costumi: Carlo Tommasi, Franca Squarciapino. Girato quasi interamente nei luoghi originali. Cinque puntate di 65 minuti circa ciascuna.
Interpreti principali: Alberto Lionello (Puccini), Ilaria Occhini (Elvira, moglie di Puccini), Tino Carraro (Giulio Ricordi), Vincenzo De Toma (Luigi Illica), Mario Maranzana (Giacosa),
Interpreti della quinta puntata: Luciano Alberici (Tito Ricordi), Renzo Palmer (Renato Simoni), Lino Savorani (Luigi Adami), Ingrid Thulin (Sybil Seligman), Mauro Barbagli (barone Eisner, a Vienna), Bernd Treusch e Cip Barcellini (giornalisti viennesi), Mario Giorgetti e Sergio Masieri (amici di Puccini a Torre del Lago), Dino Peretti (medico), Remo Varisco (dottor Ledoux), Antonio Fattorini (Tonio, figlio di Puccini), Antonella Scattorin (Fosca, figlia di Elvira), Giancarlo Dettori (Arturo Toscanini).
Cantanti: Tito Gobbi, Gianfranco Cecchele, Gabriella Tucci, Boris Carmeli

L’ultima puntata comincia con le pesantissime ripercussioni della morte di Doria Manfredi su Puccini e sulla sua famiglia. In particolare, è Elvira la persona più colpita: a causa della sua gelosia ha fatto una sfuriata a una ragazza che era invece innocente (oggi lo sappiamo con certezza), e adesso a Torre del Lago tutti la ritengono responsabile della morte di Doria. Di conseguenza, Puccini decide di lasciare per qualche tempo la villa di Torre del Lago per trasferirsi a Viareggio. La tragica morte di Doria Manfredi rimarrà una ferita difficile da rimarginare.
A confortare almeno in parte Puccini ci sono il suo lavoro e l’amicizia con Sybil Seligman: i dialoghi che ascoltiamo qui e nella puntata precedente sono probabilmente tratti dal carteggio fra lei e Puccini. Sul sito www.theoperacritic.com ho trovato un articolo del 2006 firmato da Helmut Krausser: Sybil era moglie di un ricco banchiere californiano, è vissuta fra il 1868 e il 1939, quindi più giovane di dieci anni rispetto a Puccini; trascrisse per Puccini melodie americane e indiane (per “La fanciulla del West”), e tradusse, sempre per Puccini, “Una tragedia fiorentina” di Oscar Wilde, un progetto poi abbandonato (verrà poi musicata da Zemlinsky). Sybil Seligman prese effettivamente lezioni di canto da Tosti, come abbiamo visto nella puntata precedente. Aveva due figli, nati nel 1892 e 1895; all’epoca del primo incontro dovremmo essere nel 1908. Nel carteggio fra lei e Puccini, durato molti anni, esistono ben settecento lettere; è più che probabile che tutti i dialoghi del film siano tratti da queste lettere. In particolare, va sottolineata una frase che Alberto Lionello dice a Ingrid Thulin: “se la nostra amicizia è rimasta solo un piccolo giardino, il merito è tutto suo, Sybil...”. E’ probabile che le cose siano andate proprio così, anche perché la salute di Puccini in quegli anni non era delle migliori. Sul sito “the opera critic” ho trovato anche una foto di Sybil: il nome completo era Sybil Bennington, Seligman era il nome del marito.
La scena seguente è a Vienna 1914, dove Puccini concede un’intervista; le risposte di Puccini sono molto interessanti per gli appassionati di musica, e la scena è molto ben recitata. A Vienna Puccini riceve una decorazione da Francesco Giuseppe, e siamo ormai alla vigilia dell’entrata in guerra. Da qui nascono altri dissidi con Tito Ricordi, che rimprovera Puccini per le sue ripetute dichiarazioni di neutralità e per la decorazione viennese, che gli hanno causato molta ostilità anche da parte di Toscanini. Puccini esprime la convinzione che star fuori dalla guerra sia la cosa migliore, ed esprime un parere molto negativo su D’Annunzio non solo come interventista ma per tutta quanta la sua persona. Puccini spiega a Tito Ricordi che la sua filosofia di vita è “farsi i fatti i suoi”, “è possibile essere neutrali?”. Anche questi dialoghi sono più che documentati, non c’è nulla di inventato ed è un peccato che non siano citate le fonti originali della sceneggiatura di Dante Guardamagna, davvero molto ben fatta e recitata in maniera eccellente.
Nel 1914 (per noi italiani sarà il 1915) inizia la Grande Guerra; anche il figlio di Puccini parte volontario, e per sua fortuna tornerà sano e salvo. Il regista Bolchi ci mostra la guerra con una sequenza di immagini d’epoca, molto ben scelte.
Dal punto di vista musicale, a Vienna avevano proposto a Puccini un’operetta, molto ben pagata; il progetto non va in porto ma sfocerà comunque nella Rondine. “La Rondine” non è un’operetta, ma un’opera vera e propria. Il libretto è di Giuseppe Adami, che sarà anche uno degli autori della Turandot; la prima della Rondine è del marzo 1917, a Montecarlo, e viene pubblicata da Sonzogno, “per fare un dispetto a Tito Ricordi” che era contrario. Il suo soggetto somiglia molto alla storia della Traviata, ma senza tragedia finale. Nel film di Bolchi quest’opera non c’è, se ne fa appena menzione; ed è un peccato perché c'è molta buona musica e la si ascolta sempre volentieri.
Il tempo di guerra, forse anche per via dell’isolamento forzato a Torre del Lago, è per Puccini un periodo di grande lavoro. Comporre musica gli permette di non pensare troppo alle gravi preoccupazioni di quegli anni; il risultato, oltre a “La Rondine”, sono tre opere brevi di un atto ciascuna, riunite sotto il nome “Il Trittico”, che andrà in scena al Metropolitan di New York nel dicembre 1918. Le tre opere sono: “Il tabarro”, “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi”.
“Il tabarro” è una storia tragica che si svolge su un barcone ormeggiato sulla Senna, libretto di Giuseppe Adami tratto da un racconto del francese D. Gold; la musica è molto bella e Puccini appare in gran forma. “Suor Angelica” e “Gianni Schicchi” sono su libretto del fiorentino Giovacchino Forzano, scrittore e uomo di teatro molto famoso in quegli anni. Forzano nello sceneggiato di Bolchi non c’è, e anche questo dispiace. “Gianni Schicchi” è un’opera buffa tratta da un personaggio citato da Dante nella Divina Commedia, condannato nella Firenze del 1200 per aver falsificato un testamento d’accordo coi parenti del morto (che era ovviamente molto ricco). L’opera assomiglia molto al “Falstaff” di Verdi, c’è molta bella musica e ci si diverte. “Suor Angelica” è invece una storia cupa, su una giovane costretta al monastero dopo aver avuto un figlio fuori dal matrimonio, ambientata nel 1600.
Di queste tre opere, il regista Bolchi ci mostra un frammento da “Gianni Schicchi”, con Tito Gobbi truccato in un modo che ricorda molto gli sberleffi di Dario Fo.
Siamo ormai negli anni ’20, il soggetto scelto da Puccini è “Turandot”, una favola scritta dal veneziano Carlo Gozzi nel ‘700, d’ambiente cinese. Questo soggetto, con lo stesso titolo, era già stato musicato pochi anni prima da Ferruccio Busoni (prima rappresentazione nel 1917, a Zurigo), un’opera molto bella e molto differente da quello che ne trarrà Puccini; è comunque più che probabile che l’interesse per Turandot nasca proprio dall’opera di Busoni (grande pianista e ottimo compositore, italo-tedesco di origini toscane). I librettisti sono Giuseppe Adami e Renato Simoni; Adami ha già scritto due opere per Puccini, “La Rondine” e “Il tabarro”; Renato Simoni è invece un personaggio molto importante in quegli anni, commediografo e critico letterario tra i più letti e influenti. Adami e Simoni erano entrambi veronesi, gli attori che li interpretano cercano di renderne l’accento veneto; si tratta rispettivamente di Renzo Palmer (Renato Simoni) e di Lino Savorani (Luigi Adami).
Renzo Palmer era un attore molto popolare, interprete di molti sceneggiati televisivi, doppiatore al cinema e nei cartoni animati, e lo si rivede sempre volentieri. Di recente ho dovuto prendere atto che i cartoni animati con la sua voce sono stati ridoppiati, e ancora mi chiedo il perché: il leone Svicolone e Braccobaldo erano divertentissimi con quelle voci, con quelle nuove molto meno. Un vero peccato, soprattutto per i bambini delle nuove generazioni; anche l’orso Yoghi con la voce di Francesco Mulè era molto più divertente – ma tutto questo con Puccini ovviamente non c’entra, quindi chiudo la parentesi e ritorno alla Turandot.
Ai suoi librettisti, Puccini spiega che vuole inserire un personaggio nuovo nella fiaba settecentesca di Carlo Gozzi, “la servetta che muore per amore”. E’ un dettaglio che fa subito pensare a Doria Manfredi. “Basta che non sia un personaggio che porta in un’altra storia” conclude Simoni, e sia pure un po’ perplesso si mette al lavoro su quella che sarà Liù, e che avrà forse la musica più bella di tutta l’opera di Puccini.
Puccini è ormai molto malato, è sempre più rauco, e stanco. Non ha più tempo né voglia nemmeno per gli amici del club di Torre del Lago. In questa scena, Bolchi inserisce alcuni frammento dell’Inno a Roma, scritto su commissione nel 1919: in una lettera alla moglie Elvira, il suo autore lo descrive così: «Ho finito l’Inno a Roma, una bella porcheria; domani viene Sadun a copiarlo in bella e lo manderò. Sarà quel che sarà.» In effetti, l’Inno a Roma appare modellato sulla canzonaccia da ubriachi che fa da inno al suo club. E’ di questi anni anche la nomina a senatore, non molto gradita da Puccini.
Da qui in avanti, la malattia di Puccini si aggrava: è un tumore alla gola, probabilmente causato dal troppo fumo. Puccini se ne rende conto e manda molte lettere ad Adami e Simoni, sollecitandoli nel lavoro; anche in queste scene, come in quasi tutto il film, i dialoghi che ascoltiamo sono tratti dall’epistolario pucciniano. Alcune di queste lettere sono quasi disperate, non tanto per le difficoltà incontrate quanto per la preoccupazione di non riuscire a finire l’opera.
“Turandot” andrà in scena nel 1926, due anni dopo la morte di Puccini; l’opera si conclude con la morte di Liù, e verrà completata solo qualche anno dopo da Franco Alfano, basandosi sul libretto di Adami e Simoni e su alcuni appunti di Puccini. E’ la versione che si ascolta normalmente nei teatri, ma non sappiamo cosa avrebbe veramente scritto Puccini, gli appunti in corso d'opera si possono anche appallottolare e buttare via.
Curiosamente, il finale dello sceneggiato di Bolchi è quasi identico a quello del film di Gallone, con Elvira dai capelli grigi nel palco per la Turandot e con l’episodio vero di Arturo Toscanini che, dopo la scena della morte di Liù, depone la bacchetta e si rivolge verso il pubblico dicendo “Qui termina l’opera, a causa della morte del Maestro”.
Il finale della puntata, sui titoli di coda, è per questa volta in completo silenzio.
Negli inserti in teatro, Tito Gobbi è Gianni Schicchi; Gianfranco Cecchele, Gabriella Tucci e Boris Carmeli interpretano il finale della Turandot

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