sabato 11 agosto 2012

Vanità e affanni ( VII )

Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’

Gli spettatori sono pochi, e vengono presentati uno per uno con il pretesto delle due donne che cercano di capire come andrà lo spettacolo e quanto si farà di incasso. I personaggi importanti sono due, gli altri probabilmente sono persone realmente esistite, ricordi personali di Ingmar Bergman o di sua madre.
La più importante è l’ultima ad entrare nella sala: affidata all’interpretazione di Pernilla August (un’attrice che appare solo in questo film di Bergman) è Karin Bergman, sorella di Carl Akerblom e madre di Ingmar Bergman. Se le date sono esatte, Ingmar aveva tre anni ed è quindi uno dei bambini rimasti a casa di cui si fa cenno nei dialoghi. Un bel monologo spetta a Lena Endre, che interpreta la giovane maestra elementare Märta Lundberg. (qui sotto, Pernilla August nei panni della mamma di Ingmar Bergman)
Degli altri spettatori merita una menzione la signora Alma Berglund, perché la interpreta Inga Landgrè, protagonista del primo film di Bergman da regista (nel 1949), e di molti altri suoi film tra i quali rimane sicuramente nella memoria la moglie del cavaliere nel finale del “Settimo sigillo”. Inga Landgré è sempre molto bella ma è ormai difficile da riconoscere, se non fosse stato per i titoli di coda non avrei mai pensato a lei.
Viene spontaneo fare qualche analogia con “Fanny e Alexander”, anche perché più avanti verrà citato “Gustav Adolf con la sua nuova moglie”; ma tra i due film ci sono almeno vent’anni di distanza, e le differenze sono molte. Per esempio, in “Fanny e Alexander” zio Carl è sposato da molti anni, e viene presentato come professore universitario; qui la situazione è completamente diversa, probabilmente più vicina ai veri ricordi d’infanzia di Ingmar Bergman. L’infanzia di Ingmar è raccontata in un libro che io non ho letto, “Con le migliori intenzioni”, dal quale è stato tratto uno sceneggiato tv diretto da Bille August, che fu trasmesso anche dalla Rai ma del quale ho soltanto un vago ricordo. Ad essere sinceri, non ho mai avuto un grandissimo interesse verso la storia familiare di Ingmar Bergman, me ne occupo qui solo per cercare di capire qualcosa dei suoi film.
Finalmente lo spettacolo comincia: si proietta il film muto, dietro lo schermo si recita, si suona, si fanno i rumori adeguati. Il film racconta dell’impossibile incontro tra Franz Schubert e una giovane prostituta viennese, detta Contessina Mitzi: l’incontro è impossibile perché i due vissero a cent’anni di distanza l’uno dall’altra. Ottanta o cento, più o meno: l’idea della Contessina Mitzi viene dal signor Vogler, l’idea di Franz Schubert viene da Carl. I due hanno messo deciso di mettere insieme le loro idee nella prima parte di “Vanità e affanni”, quando si incontrano nell’ospedale. Lo zio Carl recita in un microfono, Pauline suona il pianoforte, il signor Vogler (Erland Josephson) interpreta tutti gli altri ruoli. Lo spettacolo e il film non sono gran cosa, evito di raccontarne i dettagli anche perchè trovo di pessimo gusto quasi tutto quello in esso che viene raccontato (soprattutto su Mitzi).
Comunque sia, ben presto salta la corrente e tutto si interrompe. Non solo: il geniale stratagemma inventato da zio Carl, quello di sostituire i fusibili con due monete, provoca un principio d’incendio che poteva essere molto pericoloso ma che viene subito sventato dal proiezionista.
La situazione è questa: non c’è più la corrente elettrica, la luce è fornita dalle candele, e gli spettatori non possono tornare a casa perché fuori infuria la tormenta. Che fare? Agli spettatori piaceva quello che hanno visto fin lì, quindi si può andare avanti anche senza il film.
Ne esce qualcosa che mette insieme il cinema, il teatro, il racconto orale nelle stalle; e anche gli spettatori ne vengono coinvolti.
Per esempio, questo racconto della giovane maestra, interpretata da Lena Endre (che sarà protagonista di “L’infedele” del 2000, scritto da Bergman con regia di Liv Ullmann).
La maestra, allo spettacolo di zio Carl:
- Prima che lo spettacolo riprenda, se permettete io vorrei leggere una cosa che ho trovato tempo fa in un libro. In sostanza, si tratta della storia di un giovane alla ricerca di se stesso; però il gusto della ricerca lo ha talmente coinvolto da fargli dimenticare quello che stava cercando. Ecco, ora vi leggo quello che l’autore ha scritto: «Tu lamenti che alle tue grida disperate non risponde Dio. Ti senti imprigionato, e temi tanto che si tratti di una condanna a vita, anche se nessuno l’ha pronunciata. Considera quindi che tu sei di te stesso giudice, e di te stesso carceriere. Prigioniero, esci dunque dalla tua prigione! Con tuo grande stupore vedrai che nessuno ti trattiene, la realtà che troverai fuori dalla prigione è veramente terrificante, ma non così terrificante quanto l’angoscia di stare rinchiuso in una cella...Fa’ il primo passo verso la libertà, non è difficile. Il secondo, invece, è assai più difficile; ma tu non farti sconfiggere dai tuoi carcerieri, che sono soltanto il tuo orgoglio e la tua cieca paura.». Ecco, era tutto qua.
(monologo di Lena Endre, da “Vanità e affanni” di Ingmar Bergman)
E’ un monologo breve ma molto bello, non ho capito bene la sua connessione con tutto il resto ma è sicuramente uno dei momenti migliori del film. Alla fine, prima di andarsene a casa, la maestra regalerà il suo quaderno “vecchio e spiegazzato” a Pauline.
Il “Prigioniero” ha qualche parentela con “Fanny e Alexander”, ma è qualcosa che mi viene da dire senza un nesso preciso, probabilmente per la scena di Ismael. C’è anche un po’ di Lope de Vega (o Calderon?), e ovviamente Strindberg; ma questo è un tema che ricorre spesso anche nei libri autobiografici di Bergman.
Siamo arrivati a un’ora e mezza circa dall’inizio, la rappresentazione così come era stata pensata non è stata possibile perché è saltata la corrente, e il film viene raccontato ai presenti, che non possono tornare a casa per la tormenta che imperversa. E quindi si va avanti, come se fossimo in teatro. Però poi succedono due cose: il signor Vogler (Erland Josephson) è stato mandato a prendere dalla moglie, ha speso troppi soldi nello spettacolo e non è più possibile continuare così, tornerà ad essere ricoverato. Inoltre, la tormenta è finita: è ora per tutti di tornare a casa.
Uno spettatore: La bufera è passata.
Una spettatrice: Allora, che si fa adesso?
Carl: ...cosa? Ah sì, certo. Vuol dire, il nostro film. Il nostro film è praticamente finito.
- E’ già finito?
- Sì.
- Non è rimasto proprio niente?
- Qualcosa, ma veramente poco. Pauline deve suonare il finale... (si rivolge a Pauline) Suonalo, per favore. (Pauline inizia a suonare) Ecco. E poi c’è un grande primo piano del Maestro morente, che guarda direttamente verso gli spettatori. Più o meno così (indica con le mani intorno al volto la possibile inquadratura). E poi dobbiamo immaginare che nella misera e maleodorante stanza si diffonda una luce misteriosa. E, udendo la meravigliosa musica, egli sorride nonostante sia sfinito. E allora dice (è visibilmente commosso) e allora, dice: «Sto naufragando.» Poi resta in silenzio qualche istante, ascoltando la sua musica; e allora dice, lucido e consapevole: «Non sto naufragando, non sto naufragando... sto risalendo.». E poi lo schermo diventa scuro, e finisce la musica. Ecco, così si conclude la storia del nostro film.
(da “Vanità e affanni” di Ingmar Bergman, minuto 1h40 circa)
Forse, più che un naufragare, è un andare alla deriva: il tema del Wanderer, del Winterreise, la vita stessa di Schubert.
Il film finisce con Carl e Pauline, rimasti soli dopo aver salutato a uno a uno gli spettatori. Tra di loro appare, brevemente, l'incubo del clown bianco: visibile solo a Carl.
L’ultima immagine è per Carl e Pauline abbracciati insieme.
(continua)

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