sabato 8 settembre 2012

Toby Dammit ( I )

Toby Dammit (1968) Regia: Federico Fellini - Libera riduzione dal racconto "Non scommettere la testa col diavolo" di Edgar Allan Poe - Sceneggiatura: Federico Fellini, Bernardino Zapponi - Fotografia: Giuseppe Rotunno - Scenografia e costumi: Piero Tosi - Arredamento: Carlo Leva . Effetti ottici: Joseph Natanson - Musica: Nino Rota – La canzone "Ruby" è di Parish e Roemheld, cantata da Ray Charles - Produttori: Alberto Grimaldi, Raymond Eger - Durata: 40’.
Interpreti: Terence Stamp (Toby Dammit), Salvo Randone (Padre Spagna), Marina Yaru (la bambina), Milena Vukotic (intervistatrice) Antonia Pietrosi (una attrice), Polidor (un vecchio attore), Anne Tonietti (commentatrice televisiva), Fabrizio Angeli (primo regista), Ernesto Colli (secondo regista), Aleardo Ward (primo intervistatore), Paul Cooper (secondo intervistatore), Marisa Traversi, Rick Boyd, Mimmo Poli (partecipanti alla festa), Brigitte (la ragazza alta due metri).
Terzo episodio dal film “Tre passi nel delirio”; gli altri due episodi sono “Metzengerstein” di Roger Vadim e “William Wilson” di Louis Malle, sempre tratti da racconti di Edgar Allan Poe.

Negli anni ’60 sono stati prodotti molti film a episodi, spesso anche con registi diversi ad ogni episodio. Per Fellini, “Tre passi nel delirio” non era una novità, dato che aveva realizzato da poco un episodio di “Boccaccio 70”, altro film a più mani.
Il progetto inziale prevedeva almeno sette film, tutti tratti da Poe e tutti con registi diversi (compresi Luchino Visconti e Orson Welles), e Fellini fu molto riluttante ad accettare, perché aveva in mente altri progetti.
La storia completa della nascita di “Tre passi nel delirio” è stata ben riassunta da Claudio G. Fava:
Alla realizzazione di Toby Dammit, Fellini pervenne dopo la solita girandola di avventure e disavventure produttive, in un intervallo in cui aveva ripreso ad occuparsi dell'ormai mitico Viaggio di G. Mastorna; che evidentemente ritorna ogni tanto nella sua "filmografia inesistente" con la tenacia di un fantasma in un castello inglese. Toby Dammit avrebbe dovuto far parte di un'opera a molte mani, tutta ispirata a racconti di Poe. Fu inizialmente il produttore Raymond Eger ad immaginare una "antologia" ad alto livello con almeno 7 registi diversi. Oltre ai tre che rimasero nel progetto definitivo, poi realizzato, Joseph Losey avrebbe sceneggiato "Il contratto", Claude Chabrol "Il sistema del dottor Catrame e del prof. Piuma", Orson Welles preparato un episodio che fondesse insieme "La maschera della morte rossa" e "La bottiglia di Amontillado", Luchino Visconti un altro testo che assommava "Il giocatore di scacchi di Maelzel" e "Il cuore rivelatore". Le vicissitudini che portarono poi al fallimento del progetto iniziale sono minutamente raccontate da Liliana Betti nella parte da lei curata, e dedicata appunto all'episodio felliniano, nel libro edito da Cappelli riguardante Tre passi nel delirio. Liliana Betti racconta, fra l'altro, come Fellini conobbe Zapponi: Fellini (a cui inizialmente era stato proposto proprio "Il cuore rivelatore") non lo voleva fare. In quei giorni Zapponi aveva pubblicato, con la prefazione di Goffredo Parise, una raccolta di novelle intitolata "Gobal". Parise ne parla a Zapponi, Fellini si incapriccia di uno dei racconti, intitolato "C'è una voce nella mia vita", scopre che Zapponi abita proprio di fronte ad un nuovo ufficio, che si è fatto arredare in quei giorni in Via della Fortuna.
Fellini riprende contatto con i produttori francesi (metà del racconto della Betti riguarda le interminabili rotture e riappacificazioni di Fellini con Dino De Laurentiis, sempre a proposito del favoloso Mastorna, ma qui non ho lo spazio per riassumerlo), scopre che i diritti sul racconto di Zapponi sono già stati acquistati da un altro regista italiano, propone allora un secondo racconto di Zapponi, "L'autista", viene respinto dai francesi che gli dicono di essere disposti soltanto ad accettare un episodio di Poe, finalmente Fellini capitola e, dice la Betti «si orienta con una sorta di provocazione verso un Poe che è tra i più tenebrosi e convenzionali: il racconto che prende di mira si chiama "Un seppellimento prematuro", e lo stravolge subito in una farsa sanguigna alla quale presta, però, tutto il peso della sua immaginazione».
Neppure questa proposta va a buon fine, ed allora Fellini riprende di nuovo "Non scommettete la testa col diavolo". La proposta viene accettata, Fellini si mette al lavoro sulla sceneggiatura (col risultato, come dice ancora Liliana Betti, che «dopo due mesi di ipotesi, dubbi, scelte subito rinnegate e poi riconfermate... ricerche incontentabili, a volte divertenti, spesso litigiose, del racconto del caro Edgar Allan Poe non è rimasto che un titolo, un ponte, una scommessa, soverchiante».
A questo punto comincia la fase finale, affannosa come al solito: tutto l'episodio è stato pensato da Fellini in funzione di Peter O' Toole protagonista: dopo prove, contatti e trattative d'ogni genere, il protagonista prescelto (s'era pensato anche a Richard Burton, a Marlon Brando) è Terence Stamp.
Due giorni prima dell'inizio delle riprese Fellini riceve una telefonata di De Laurentiis che offre a Fellini un film, che nessuno avrebbe mai pensato si potesse offrire a Fellini: Waterloo. Il regista è sbalordito e affascinato e conquistato, ma ovviamente non accetta. Inizia a girare. Le riprese durano 26 giorni. La Betti racconta che a lavorazione terminata, mentre il film è quasi montato, Fellini, a cena con Nino Rota, si entusiasma parlando di Poe e gli confessa di aver letto per la prima volta, "Non scommettete la testa col diavolo" la sera prima. (c.g.f.)
(da “I film di Federico Fellini” di C.G.Fava, ed. Gremese)
Le ultime due righe sono da sottolineare: Fellini non aveva mai letto il racconto di Poe, e non lo ha letto nemmeno durante la lavorazione del film. Di sicuro se lo sarà fatto raccontare, così come accadrà col “Casanova” dieci anni dopo; la cosa può sembrare strana perchè, a differenza delle memoria di Casanova che occupano parecchi volumi, il racconto di Poe è molto breve e bastano dieci minuti per leggerlo dall’inizio alla fine. Ma così era fatto Fellini, che andava avanti nei suoi progetti (pur saldissimi) un po’ come un rabdomante quando cerca l’acqua, si sa che c’è ma di preciso non si sa dove, e bisogna fidarsi del proprio istinto o di qualche motivazione segreta, o inconscia.
Il risultato finale è questo: “Toby Dammit” è diversissimo da “Non scommettete la testa con il diavolo”, eppure il risultato finale è sorprendentemente simile a Poe, e ne rende benissimo sia il lato comico e satirico che il disagio e lo sgomento finale. Fellini racconta per immagini, Poe usa le parole: questa è l’unica differenza, alla fine.
Gli altri episodi del film sono “Metzengerstein” per la regia di Roger Vadim (il soggetto è la metempsicosi, la migrazione delle anime) e “William Wilson” (l’uomo che combatte con se stesso) diretto da Louis Malle. I titoli sono gli stessi dei racconti di Poe; i due film sono ben fatti ma piuttosto banali, belle immagini e bravi attori ma entrambi sembrano un compito eseguito da ottimi professionisti ma senza troppa convinzione.
Invece Fellini ne fa qualcosa di veramente suo, e nel contempo molto fedele a Poe; si può trovare un po’ lunga la prima metà, anche perché Terence Stamp vi deve per forza di cose apparire addormentato e imbambolato, mentre lascia a bocca aperta, mozzafiato, miracolosa, da antologia del cinema, la lunga scena della corsa notturna della diabolica automobile nella Roma notturna, deserta. Questa sequenza, a partire dalla consegna della Ferrari, occupa quasi tutta la seconda metà del film ed è un capolavoro assoluto, imperdibile. Mai visto niente di simile, forse solo alcuni momenti di Fritz Lang nei primi Mabuse degli anni ‘30. Durante la corsa, i fermo immagine dei pochi presenti (una donna, un cameriere, un pastore con le sue pecore immobili, solo un matto ubriaco gli risponde) rendono tutto ancora più spettrale, e rimandano al René Clair di “Paris qui dort”. Per controllare che non sia tutto un sogno, Stamp investe una sagoma fuori da un ristorante: è una statua vera, è di cartone, e quindi può ricominciare a correre...
E’ molto forte all’inizio l’impressione di rivedere “Block Notes di un regista”, girato nello stesso periodo: è ancora, quindi, il “Viaggio di Mastorna”. All’inizio dei due film vediamo le stesse facce, le stesse luci, perfino l’aereo. L’impressione diventa quasi identità assoluta nei primi fotogrammi dell’intervista a Stamp: è l’identica posa di Mastroianni nelle scene col violoncello.
Ed è quasi impossibile non pensare a Stanley Kubrick, il viaggio verso Giove di “Odissea nello spazio” e la corsa in Ferrari di Toby Dammit si assomigliano molto: i due film sono contemporanei, tutti e due del 1968. E viene in mente ancora Kubrick per “Arancia Meccanica” (del 1972): sono molte le somiglianze tra Terence Stamp e Malcolm Mc Dowell, e questa somiglianza tra Kubrick e Fellini non finisce mai di stupirmi. Non è una vera e propria somiglianza, ma piuttosto la sensazione che i due registi, così diversi tra loro, vadano ad attingere ad una fonte comune (si potrebbe aggiungere: Casanova e Barry Lyndon) sia per l’immaginario che per le fonti iconografiche, e che forse, chissà, siano perfino in qualche modo parenti fra loro.
(continua)

Nessun commento: