Mary Shelley’s Frankenstein (1994) Regia di Kenneth Branagh. Tratto dal “Frankenstein” di Mary Wollstonecraft Shelley (1818). Sceneggiatura di Steph Lady e Frank Darabont. Fotografia di Roger Pratt. Musiche originali di Patrick Doyle. Interpreti: Kenneth Branagh, Robert De Niro, Tom Hulce, Helena Bonham Carter, Ian Holm, Aidan Quinn, John Cleese, Cherie Lunghi Durata 123 minuti.
So che a molti non è andato giù, questo “mostro” interpretato da Robert De Niro; ma il film girato da Kenneth Branagh nel 1994 va considerato con molta attenzione perché è fedelissimo al vero Frankenstein, quello scritto da Mary Wollstonecraft Shelley, moglie del grande poeta inglese Percy B. Shelley. Il romanzo fu pubblicato quasi duecento anni fa, nel 1818; e il “mostro” non è affatto un mostro, se non per le cicatrici che porta addosso e che lo rendono orribile. Lo scienziato Frankenstein, nel romanzo originale, non prende i pezzi “a caso” ma li sceglie con cura: la creatura avrà dunque un corpo il più possibile perfetto e ben proporzionato, e il cervello sarà quello del suo migliore amico, morto in circostanze terribili, al quale spera di ridare vita. Questo amico era un uomo erudito e di notevole intelligenza; di conseguenza la creatura sarà intelligentissima, e conserverà in memoria molte delle nozioni apprese nella vita precedente. Ma sarà una creatura del tutto nuova, non l’amico perduto. Nel romanzo di Mary Shelley, l’orrore diventa un fattore secondario: al primo posto vengono la scienza e la filosofia. Il film è molto ben fatto, si intuisce subito che era un progetto a cui Branagh teneva molto.
Kenneth Branagh ha molte belle intuizioni: per esempio ci mostra i primi esperimenti con l’elettricità, una scoperta destinata a cambiare il mondo. Benjamin Franklin (1706-1790), americano, ne fu uno dei precursori; verso la fine del ‘700 inventa il parafulmine. Branagh ne tiene molto conto, e si sa che l’elettricità ha gran parte nel mito di Frankenstein. Un’altra intuizione che può essere disturbante, ma comunque interessante, è quella di far nascere alla vita la creatura da una specie di serbatoio contenente liquido amniotico; è un vero e proprio parto quello a cui assistiamo.
Siamo tutti molto affezionati al Frankenstein di Boris Karloff, e anche al suo aiutante Igor: ma si tratta di un falso – se così si può dire. Igor nel libro non c’è, il dottor Frankenstein fa tutto da solo, da vero eroe romantico (il Prometeo moderno, come recita il titolo completo del libro della Shelley). I film di James Whale, e l’interpretazione che ne dà Boris Karloff, sono a tutti gli effetti un rifacimento, una nuova creazione. Tutti sappiamo che al cinema funziona molto di più il “mostro” che non il ragionamento filosofico; non per questo il film di Branagh va sottovalutato.
A me non era piaciuto per alcuni eccessi (l’impiccagione della giovane donna, per esempio: una delle sequenze più sgradevoli mai viste al cinema, che mi ha tolto la voglia di rivedere il film negli anni successivi), ma l’interpretazione di Robert De Niro va considerata perfetta, molto aderente al personaggio come viene presentato dalla sua autrice.
Ecco come parla il “mostro” nella sua versione originale: è solo un breve estratto, la creatura di cose da dire ne ha molte, moltissime; si sta rivolgendo al suo creatore, il dottor Frankenstein, e gli rivolge parole durissime. Ma per ora sta solo raccontando che cosa gli è successo da quando Frankenstein lo ha abbandonato.
“Frankenstein “ di Mary Shelley, CAPITOLO XIV
(...) Tale era la storia dei miei diletti vicini. Dal quadro di vita sociale che essa mi offriva, appresi ad ammirare le virtù ed a deprecare i vizi dell'umanità.
L'idea del delitto mi era estranea; sempre benevolenza e generosità erano presenti ai miei occhi e facevano nascere in me il desiderio di divenire attore in quella scena affollata, dove si esplicavano sì ammirevoli doti; ma non posso trascurare una circostanza che si verificò all'inizio dell'agosto di quello stesso anno. Una notte, durante il mio solito giro nel bosco vicino dove mi recavo a cercare cibo ed a far legna per i miei protettori, trovai per terra un sacco di cuoio che conteneva articoli da vestiario e qualche libro. Mi impadronii con ansia di quel bottino e tornai con esso al mio rifugio. Fortunatamente i libri erano scritti nella lingua di cui avevo appreso gli elementi alla villetta: erano “Il Paradiso perduto” di Milton, un volume de “Le vite” di Plutarco e “I dolori del giovane Werther”, di Goethe. Il possesso di questi tesori mi riempì di piacere estremo; ora, mentre i miei amici si dedicavano alle loro occupazioni, io studiavo di continuo ed esercitavo la mia mente su queste storie.
Mi riesce difficile descriverti l'effetto di questi libri. Essi fecero nascere in me un'infinità di immagini e di sentimenti nuovi, che qualche volta mi estasiavano, ma che più spesso mi piombavano in un profondo avvilimento. Ne “I dolori del giovane Werther” tante opinioni si intrecciavano all'interesse della storia semplice e commovente e tanta luce veniva gettata su argomenti rimasti fino allora per me oscuri, che trovai in esso una fonte inesauribile di riflessione e di meraviglia. Le maniere cortesi e fraterne che vi venivano descritte, unite alle azioni ed ai sentimenti elevati che avevano per oggetto un altro individuo, si accordavano bene alla mia esperienza fra i miei protettori ed a quegli impulsi che sempre mi sentivo agitare nel petto. Werther mi pareva l'essere più divino che mai avessi visto o immaginato; il suo carattere nulla aveva di vergognoso, ma deprimeva profondamente. Le disquisizioni sulla morte e sul suicidio erano fatte per riempirmi di meraviglia. Non pretendevo di valutarne i motivi, pur sentendomi incline alle opinioni dell'eroe, sulla cui morte piansi, anche se non mi riusciva di comprenderla.
Leggendo, mi riportavo di continuo ai miei sentimenti ed alla mia condizione. Mi sentivo simile, e nello stesso tempo stranamente diverso, dalle creature di cui leggevo o di cui ascoltavo la conversazione. Provavo simpatia per loro, ed in parte le comprendevo, ma troppe cose ignoravo: non dipendevo da alcuno, né con alcuno avevo rapporti. La via della mia fuga era libera, e nessuno avrebbe pianto per la mia fine.
La mia persona era orrenda, la mia statura gigantesca: che cosa signicava tutto ciò? Chi ero? Da dove venivo? Quale era la mia meta? Queste domande mi si presentavano di continuo, ma io ero incapace di trovare loro una risposta.
Il volume de “Le vite” di Plutarco che possedevo conteneva le storie dei primi fondatori delle vecchie repubbliche. L'effetto di questo libro su di me fu ben diverso da quello del Giovane Werther. Dalle fantasie di Werther avevo attinto scoraggiamento e tristezza; Plutarco invece mi dettò alti pensieri, mi elevò al disopra della cupa sfera delle mie riflessioni, ad ammirare e ad amare gli eroi del passato. Molte fra le cose che leggevo superavano la mia comprensione e la mia esperienza. Avevo un'idea molto confusa di regni, di continenti, di fiumi impetuosi, di mari sconfinati. Ma assolutamente nulla sapevo di città e di grandi raggruppamenti d'uomini.
La casa dei miei protettori era l'unica scuola in cui io avessi studiato la natura umana; ma questo libro mi svelò nuovi e più vasti campi d'azione. Lessi di uomini che guidavano la cosa pubblica opprimendo o massacrando i loro simili. Sentii nascere in me uno smisurato amore per la virtù ed una repugnanza altrettanto grande per il vizio, per quanto mi riusciva di comprendere il significato di questi termini, relativi come essi erano, dato che li applicavo soltanto alla gioia o al dolore. Mi sentivo naturalmente portato ad ammirare i legislatori pacifici, Numa, Solone e Licurgo, più di Romolo e di Teseo. La vita patriarcale dei miei protettori fece sì che tali impressioni prendessero saldo possesso della mia anima; forse le mie sensazioni sarebbero state diverse se avessi conosciuto l'umanità attraverso un giovane soldato desideroso di gloria e di strage.
Ma “Il Paradiso perduto” suscitò in me emozioni ancor più profonde. Lo lessi, come già avevo letto gli altri libri, quasi si trattasse di una storia vera. Esso destò in me tutto quel senso di meraviglia e di timore che può suscitare la raffigurazione di un Dio onnipotente in guerra con le proprie creature. Molte situazioni mi colpivano per la loro somiglianza con la mia. Come Adamo, io ero stato creato, secondo ogni apparenza, senza legame alcuno con altri esseri viventi; ma, sotto ogni altro punto di vista, il suo stato era molto diverso dal mio. Egli era uscito dalle mani di Dio come una creatura perfetta, felice e fortunata, una creatura salvaguardata dalle attenzioni particolari del suo Creatore; gli era stato concesso di conversare con esseri di natura superiore, di apprendere da loro la conoscenza: io invece ero misero, abbandonato e solo. Molte volte Satana mi appariva come l'emblema più adatto della mia condizione, perché spesso, come avveniva a lui, quando vedevo la felicità dei miei protettori, sentivo agitarsi in me l'amaro serpe dell'invidia.
Un'altra circostanza rafforzò questi sentimenti. Subito dopo il mio arrivo nel ricovero, scoprii alcune carte nella tasca dell'abito di cui mi ero impadronito nel tuo laboratorio. Sulle prime non le presi in considerazione, ma come fui in grado di decifrare i caratteri in cui esse erano scritte, cominciai a studiarle attentamente. Era il tuo diario dei quattro mesi che precedettero la mia creazione. Tu descrivevi minutamente su quelle pagine ogni passo innanzi del tuo lavoro; e a ciò si univano resoconti di casi domestici. Ricordi senza dubbio quelle carte: eccole. In esse si spiega tutto ciò che si riferisce alla mia maledetta origine; c'è, in ogni particolare, la serie delle circostanze disgustose che l'hanno resa possibile, e c'è, in un linguaggio che dipingeva il tuo orrore e rendeva il mio incancellabile, una descrizione minuziosissima della mia odiosa e repellente persona. «Maledetto il giorno in cui ho ricevuto vita!», esclamai, disperato. « Maledetto creatore! Perché hai dato forma ad un mostro così orrendo da suscitare persino il tuo disgusto? Dio nella sua pietà ha fatto l'uomo bello e attraente, a propria immagine; il mio aspetto, invece, è una grottesca imitazione del tuo, resa ancora più orribile dalla stessa somiglianza. Satana aveva i demoni suoi compagni ad ammirarlo ed incoraggiarlo; io invece sono solo e detestato.»
Queste erano le mie riflessioni nelle ore di scoraggiamento e di solitudine; ma, quando consideravo le virtù dei miei vicini, il loro carattere amabile e benigno, mi persuadevo che, se avessero saputo della mia ammirazione per i loro meriti, avrebbero avuto compassione di me, senza badare alla deformità del mio aspetto. Avrebbero potuto respingere chi, per quanto mostruoso, sollecitava da loro pietà e amicizia? Decisi, dunque, di non disperare, ma di prepararmi ad un incontro che avrebbe deciso del mio destino.
Rimandai per alcuni mesi questo tentativo; perché l'importanza che attribuivo ad un successo mi riempiva di terrore al pensiero di un fallimento. Inoltre mi accorgevo che la mia comprensione si avvantaggiava tanto di ogni esperienza giornaliera, che volevo arrischiare un'impresa del genere solo quando qualche altro mese avesse accresciuto la mia saggezza.
Alcuni mutamenti erano nel frattempo avvenuti nella villetta. La presenza di Safie diffondeva gioia fra i suoi abitanti, e notai pure che ormai là dentro regnava un certo grado di benessere. Felice ed Agata dedicavano maggior tempo ai divertimenti ed alla conversazione, ed erano aiutati nei loro lavori da domestici. Non sembravano ricchi, ma erano contenti e felici; apparivano animati da sentimenti di pace e di serenità, mentre io mi facevo ogni giorno più inquieto. L'accrescersi delle mie cognizioni non faceva che svelarmi con maggiore chiarezza quale sciagurato reietto io fossi. Nutrivo molte speranze, è vero, ma queste speranze svanivano quando mi vedevo riflesso nell'acqua, o quando vedevo la mia ombra al chiarore della luna; svanivano come quell'immagine sfuggente e quella incostante ombra.
Mi sforzavo di vincere questi timori, di farmi forte per la prova che avevo deciso di affrontare e qualche volta lasciavo che i miei pensieri, senza il controllo della ragione, vagassero per i campi del Paradiso, ed osavo immaginare che buone e care creature avrebbero compreso i miei sentimenti e dato sollievo al mio dolore: dal loro angelico viso trasparivano sorrisi di consolazione. Ma era tutto un sogno: nessuna Eva alleviava i miei crucci o divideva i miei pensieri: io ero solo. Ricordavo la supplica di Adamo al suo Creatore; ma dov'era il mio? Mi aveva abbandonato, e, nell'amarezza del mio cuore, lo maledicevo. (...)
L'inverno avanzava. Un ciclo completo di stagioni aveva compiuto il suo giro da quando mi ero svegliato alla vita. A quel tempo la mia attenzione era concentrata unicamente sul piano per introdurmi nella casa dei miei vicini. Elaborai molti progetti, e mi fissai alla fine su quello di presentarmi quando il vecchio fosse stato solo. Ero abbastanza sagace da comprendere che la straordinaria bruttezza del mio aspetto era stata la causa principale del terrore di coloro che avevano avuto modo di vedermi. La mia voce, per quanto aspra, non aveva in sé nulla di terribile. Pensavo quindi che, se in assenza dei figli fossi riuscito a cattivarmi il buon volere e l'intercessione del vecchio De Lancey, avrei potuto essere almeno tollerato dai miei più giovani protettori.
Un giorno in cui il sole risplendeva sulle foglie rosse che ricoprivano il suolo, diffondendo allegria tutto all'intorno, anche se rifiutava calore, Safie, Agata e Felice uscirono per una lunga passeggiata fra i campi, e il vecchio, per suo espresso desiderio, rimase solo in casa. Quando i figli si furono allontanati, egli prese la chitarra e suonò alcune arie tristi e dolci, più tristi e più dolci di quelle che gli avessi mai sentito suonare. Il suo viso sulle prime si illuminò di piacere, ma, a mano a mano che continuava, la sua espressione si fece triste e pensosa; alla fine depose la chitarra e si abbandonò a riflessioni profonde. Il cuore cominciò a battermi in fretta: era il momento della prova, il momento che avrebbe deciso delle mie speranze o dato corpo ai miei timori. I domestici si erano recati ad una fiera dei dintorni. Tutto era silenzio attorno alla casa: era un'occasione magnifica; pure, quando mi accinsi a mettere in opera il mio piano, le gambe mi vennero meno e caddi a terra. Mi- rialzai, e, facendo appello a tutte le mie energie, tolsi le assi che avevo collocato dinanzi alla capanna per nascondere il mio rifugio. L'aria fresca mi fece bene, e, con rinnovata decisione, mi appressai alla porta della casa.
Bussai. - Chi è? - disse il vecchio. - Avanti.
Entrai. - Scusate il disturbo, - dissi. - Sono un viandante che ha bisogno di un poco di riposo; vi sarei molto grato se mi permetteste di restare qualche minuto accanto al fuoco.
- Entrate, - disse De Lancey. - Cercherò di fare del mio meglio per sopperire alle vostre necessità; ma, disgraziatamente, i miei figli sono assenti, e temo mi riuscirà difficile procurarvi qualcosa da mangiare, perché sono cieco. (...)
(da “Frankenstein “ di Mary Shelley, CAPITOLO XIV - traduzione di Bruno Tasso, edizione BUR Rizzoli.)
8 commenti:
Il film lo vidi al cinema, mi piacque ma poi quasi me ne dimenticai. Non mi è più capitato di incrociarlo, ma mi hai fatto tornare la voglia.
Altra lacuna il libro, mai letto. Gasp, ci vorrebbero due vite...
Domanda estemporanea: cosa ne pensi dell'Amleto di Branagh?
Io l'avevo visto in uno dei cinema più belli di Milano, schermo grandissimo: sembrava di essere lì, e non è che sia sempre una cosa piacevole, soprattutto se "sembrare di essere lì" è riferito a un patibolo con esecuzione capitale o a un cimitero...
Ho molte riserve su Branagh, che è molto bravo ma ha troppe cadute di gusto.
Sull'Amleto, (posizione personalissima) mi tengo stretto Laurence Olivier, che quanto meno non ha fatto danni; ma anche quando andavo a teatro evitavo, un paio di esperienze negative mi sono bastate.
Leggere l'Amleto di Shakespeare, questo sì, l'ho fatto tante volte...
Ti sono grata per aver dedicato quasi tutto il post alla grande e sfortunata moglie del poeta romantico per eccellenza Percy B.Shelley. Sempre più nel tempo è emersa la vera genialità di Mary e la fantascienza è costretta a riconoscerne la posizione prioritaria ed eccezionale, anche per l'ultimo grande romanzo "L'ultimo uomo" dove anticipa le visioni apocalittiche e profetiche sulla nostra sciagurata epoca.
Come saprai "Frankenstein" è nato quasi per scherzo, in una piovosa estate svizzera,(1816) nella villa presa in affitto dagli Shelley, vicino a quella di Lord Byron, che per ingannare il tempo aveva proposto a tutti gli ospiti di scrivere un racconto su "cose soprannaturali". Mary ebbe l'intuizione(quasi una fascinazione improvvisa ed inconscia) su Frankenstein e, dopo i primi capitoli letti al gruppo di amici, completò l'opera nel 1818.
Il medico amico di Byron, dott. John William Polidori scrisse un racconto "Il vampiro", che pare abbia ispirato poi Bram Stoker.
Shelley stesso e Byron, temperamenti troppo lontani dal genere che avevano loro stessi proposto, non scrissero niente.
"Frankenstein" è un'opera di grandissimo valore psicologico e pesca nel più profondo substrato delle paure e delle ambizioni umane, anticipando quel delirio di onnipotenza che imperversa oggi sotto il nome di ricerca scientifica incontrollata: clonazione di esseri viventi, manipolazione genetica, creazione di vita in vitro...
Sono temi delicatissimi e "pericolosi" e la tentazione satanica di "diventare come Dio" e creare la"Vita" è sempre in agguato.
Il romanzo di Mary Shelley mi aveva colpito molto, ero sui 16-18 anni e avevo fatto "il giro" dei romanzi originali da cui erano tratte le storie horror, trovando un capolavoro assoluto (il Jekyll di Stevenson, Stevenson maestro di scrittura) una cosa un po' così (il Dracula di Stoker: molto meglio la Carmilla di Sheridan Le Fanu, che non mi aveva fatto dormire per una notte), e questo Frankenstein che è veramente fuori dal comune.
Mai più mi sarei aspettato un inizio fra i ghiacci, con il giovane capitano che scrive alla sorella...Mai più mi sarei aspettato un trattato di filosofia. Ma è anche un romanzo avvincente, e infatti tutte le principali riduzioni per il cinema si sono tenuti stretti l'ambientazione e i personaggi.
L'unica invenzione totalmente nuova è il "mascherone" di Boris Karloff, che in effetti è indovinatissimo, e che rimanda molto al mito ebraico del Golem.
Che il mostro avesse letto Goethe, Milton e Plutarco era una cosa che avevo completamente rimosso. Così come ho rimosso molti dettagli del film di Branagh, visto una volta sola, anch'esso diversi anni fa: c'è anche Tom Hulce, il coprotagonista di "Amadeus", ma proprio non riesco a ricordarmi che parte aveva.
Dall'estratto del libro della Shelley che hai riportato, Giuliano, emerge una finezza psicologica del mostro che in effetti stride con la classica storia horror. E sì, credo proprio che mi toccherà rileggere il libro, prima o poi.
ps: il commento di Marisa è molto bello.
Pensa che Milton non l'ho mai letto nemmeno io! (qualcosina, tanti anni fa). Goethe, sì, quel che ho potuto leggere (soprattutto grazie a Schubert e Brahms)(e il Faust, grazie anche a Mahler e Schumann). Plutarco sì, ma tanto di quel tempo fa...(Le Vite Parallele, molto bello e anche facile da leggere).
Purtroppo per noi Marisa non ha un blog, però se vai su Tomobiki Märchenland... (è uno scoop!)
Grazie per l'apprezzamento.
L'accostamento al Golem è del tutto pertinente, anche perchè ci permette di notarne le differenze.
Il Golem appartiene all'immaginario ebraico, che prende vita in quello straordinario ambiente culturale di Praga del XVII sec., che sotto il regno di Rodolfo II, si era riempito di alchimisti e saggi di ogni genere.
Il Golem delle leggende ebraiche non è fatto da pezzi di cadaveri tenuti insieme e vivificati dall'ambizione umana per scoprire i segreti della Vita (anche se a scopo scientifico), ma è una creatura d'argilla (proprio come Adamo) creato dal misterioso Maharal, Rabbi Yehuda Loew, famoso Kabalista, per aiutare il popolo ebreo e difenderlo dalle peggiori accuse ed atrocità (come quella che impastassero il loro pane azzimo col sangue di bambini cristiani uccisi), smascherando i colpevoli.
Alcune leggende parlano effettivamente della possibilità che tale Creatura si sia rivoltata contro il proprio creatore e la situazione sia scappata di mano, ma in genere, stando almeno all'opera di Elie Wiesel che io conosco, il Golem è un essere pieno di intuito, di intelligenza e compassione, creato con l'aiuto delle sacre lettere della Kabala, per proteggere gli ebrei dai loro innumerevoli nemici.
Si narra poi che lo stesso Maharal lo abbia fatto sparire, dopo essersene servito. Come per il Messia, alcuni pensano che potrebbe ritornare...
Ho letto di recente una descrizione del Golem, e direi che Karloff (o chi lo ha truccato, ma so che lui e Bela Lugosi facevano spesso da soli, come i grandi attori di teatro fanno da millenni) lo ha tenuto ben presente.
Infatti, fa impressione: il trucco che usa De Niro è perfetto, ma quello di Karloff ha una marcia in più.
Tra l'altro, il fatto che sia muto (al contrario di quello della Shelley) lo avvicina ancora di più al Golem, che rabbi Loew aveva creato, secondo alcune descrizioni, addirittura senza bocca: la parola spetta solo all'uomo, non al Golem.
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