giovedì 23 agosto 2012

Elio Petri: "Indagine" ( I )

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) Regia di Elio Petri. Scritto da Elio Petri e Ugo Pirro. Fotografia Luigi Kuveiller. Scenografia: Carlo Egidi. Costumi: Angela Sammaciccia. Musica di Ennio Morricone. Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan (voce di Ileana Zezza), Gianni Santuccio (il questore), Salvo Randone (l’idraulico, doppiato da Corrado Gaipa), Massimo Foschi (il marito della Bolkan), Sergio Tramonti (il giovane anarchico), Orazio Orlando (il brigadiere), Aldo Rendine (Panunzio), Arturo Dominici (dottor Mangani), Vittorio Duse (Canes), Fulvio Grimaldi (il giornalista) Durata: 1h55’

Per molti anni non sono riuscito a farmi un’idea precisa di “Indagine”: quando uscì ebbe un enorme successo, tutti ne parlavano, il film era molto spettacolare, non si era mai visto prima un poliziotto così cattivo e corrotto, la Bolkan era bellissima, eccetera. Ma quando “Indagine” è uscito c’era appena stata la strage di Piazza Fontana (dicembre 1969), i giornali e il telegiornale erano pieni di notizie poi rivelatesi false (Pietro Valpreda veniva indicato come un mostro, ma le prove contro di lui erano state costruite apposta: lo si saprà di preciso solo molti mesi dopo), fuori dai tg si parlava molto del questore Guida e dei suoi trascorsi fascisti (fascismo storico: siamo ai primi anni ’70, molti funzionari ex fascisti erano rimasti ai loro posti). E poi l’accento siciliano di Volonté, la mafia, lo scacciapensieri di Morricone, il sesso, l’iperrealismo, l’esagerazione, la recitazione irritante e sopra le righe, insomma dietro a questo film di Elio Petri c’erano un’infinità di cose che lo rendevano difficile da decifrare. In più, il film è del 1970, io avevo undici-dodici anni, ero quasi un bambino, comunque troppo giovane per capirci davvero qualcosa.
A complicare ancora di più le cose erano venuti i molti film che ne avevano sfruttato il successo, e che avevano un titolo simile, soprattutto quelli di Damiano Damiani: “Perché si uccide un magistrato”, “L’istruttoria è chiusa, dimentichi”, e tutto un filone di titoli che sarebbe divertente mettere qui in elenco, arrivando fino a “Non si sevizia un paperino” (sempre con la Bolkan protagonista) e “Bisturi la mafia bianca”, film che passavano per essere di denuncia ma che invece non avevano quasi nulla da dire, a parte la voglia di sfruttare un filone venuto di moda.
Il film successivo di Petri, “La classe operaia va in Paradiso”, sarebbe stato di tutt’altro genere. Elio Petri, come Stanley Kubrick, ha sempre fatto film molto diversi l’uno dall’altro: diversi per stile, per tematica, per argomento. Anche questo contribuisce a rendere poco classificabili i film di Petri, ci si aspetta da lui una cosa e invece ne fa un’altra; penso che fosse difficile accettare di avere in casa nostra un regista così grande, spettacolare e profondo, irritante e pieno di fascino; in America poteva succedere, da noi era una cosa nuova.
Ancora oggi, scorrendo le pagine di internet in cerca di notizie e immagini, ho trovato le stesse perplessità e le stesse difficoltà a capire: sembra che il tempo sia passato invano. Per esempio, gran parte della critica (anche quella ufficiale, ahinoi) non ha ancora capito la differenza tra “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” e i tanti film della serie “Milano violenta”, “La polizia incrimina la legge assolve”, eccetera. Ho perfino trovato “Indagine” catalogato nel “poliziottesco”, insieme ai filmetti che ho citato sopra: purtroppo, è da più di vent’anni che una parte consistente della critica (Marco Giusti e Tatti Sanguineti in testa) ha deciso che i film di serie B e serie C degli anni ’70 sono dei capolavori incompresi, e che i nomi dei loro registi e attori vanno messi al pari di quelli più importanti e celebrati. Non è così, e sarebbe ora di dirlo: i film di Fulci o di Bava o di Dario Argento erano quelli girati in fretta, volutamente dozzinali, che passavano subito ai cinema dei piccoli paesi, per un pubblico di bocca facile. Ci si può anche divertire a vederli, li si può anche amare e volergli bene, ma da qui a farli passare per capolavori la distanza è enorme. Il fatto che la critica non sappia più distinguere tra un capolavoro e un filmetto simpatico è davvero uno caratteri distintivi di questo momento storico – speriamo che passi presto.
Nel frattempo, complici anche tutte queste cose che ho descritto qui sopra (e molto altro ancora) devo confessare che è solo da pochi anni che sono riuscito a mettere a fuoco la figura di Elio Petri. Ho incominciato a interessarmi a lui dopo aver visto “Todo Modo”, che è del 1975 (quindi ero già prossimo ai diciott’anni), ma per avere un’idea chiara della sua filmografia ho dovuto aspettare ancora molti anni.
Alla fine, però, complice anche un po’ di fortuna (lo stavo rileggendo in questi giorni) non ho avuto dubbi: il riferimento principale per “Indagine” è George Orwell, 1984.
Per capire che cosa intendo, bisogna andare alla terza parte del libro, quella finale, il lungo interrogatorio di O’Brien con Winston ormai arrestato, perduto, imprigionato. Però prima porto un momento dal film di Petri: siamo al minuto 31, il monologo di Volonté appena nominato capo dell’Ufficio Politico, davanti ai suoi collaboratori: una riunione “all’americana”, come dice lo stesso Volonté. Il discorso inizia in perfetto stile burocratico, da verbale di polizia, qualcosa di vago e di non chiaro, che però diventa chiarissimo all’ascolto.
- Da oggi assumo la direzione dell’Ufficio Politico. Voi sapete tutti che io fino a ieri mi sono occupato, e con un certo successo, di assassini. Non essendo significata che abbiano designato proprio me, in questo momento, alla direzione dell’Ufficio Politico, ciò è stato deciso poiché tra i reati comuni e i reati politici sempre più si assottigliano le distinzioni, che tendono addirittura a scomparire. Questo scrivetevelo bene nella memoria: sotto ogni criminale può nascondersi un sovversivo, sotto ogni sovversivo può nascondersi un criminale. (...) Le loro azioni tendono al medesimo obiettivo (...) e cioè il rovesciamento dell’attuale ordine sociale.
Volonté prosegue con l’elenco dei reati da perseguire, mettendo insieme scioperi, cortei, rapine, stupri, schedature, bancarottieri, riviste politiche... E poi conclude così:
- L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite. L’uso della libertà che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, e ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della Legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere. La repressione è il nostro vaccino. Repressione è civiltà!
(da "Indagine" di Elio Petri, minuto 30-31)
Sono molti i rimandi e le suggestioni che partono da queste ultime righe. Al di là delle volute esagerazioni interpretative di Volonté (grandissimo e iper reale), si va dal Castello e dal Processo di Franz Kafka (“Noi siamo a guardia della Legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo”) fino all’Edipo Re e all’Antigone (“Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere”) magari passando per Voltaire (Candide, Zadig...). Moltissime anche le somiglianza con “Todo modo” di Sciascia, soprattutto quando si parla del Potere e del suo vero fine.
Le ultime frasi, però, sono proprio Orwell:
George Orwell, da “1984”:
S'avvicinò al letto. « Per sempre» disse. « E ora prendiamo in esame la questione del "come" e del "perché". Tu ti rendi conto benissimo come il Partito mantiene se stesso al potere. Ora dimmi un po' perché ci teniamo cosí stretti al potere? Quale ne è la ragione? Perché vogliamo il potere? Su, parla» aggiunse, mentre Winston rimaneva zitto.
Ma Winston non disse niente ancora per un minuto o due. Una sensazione d'immensa stanchezza l'aveva invaso. Un debole e folle lampo d'entusiasmo tornò nello sguardo di O'Brien. Winston sapeva già quel che O'Brien avrebbe detto. Avrebbe detto che il Partito non ricercava il potere per i suoi propri fini, ma soltanto per il bene della maggioranza; che ricercava il potere perché gli uomini in massa sono deboli e vili creature che non sanno sopportare la libertà o rendersi conto della verità e debbono essere governate e sistematicamente ingannate da altre persone che siano piú forti di esse; che per l'uomo c'è una sola alternativa: di scegliere, cioè, tra la libertà e la felicità, e la maggior parte degli uomini tra le due preferisce la felicità; che il Partito era una sorta di tutore permanente dei deboli, una setta che si dedicava a compiere il male in modo da preparar l'avvento del bene, che sacrificava la propria felicità a beneficio di quella degli altri. La cosa piú terribile, pensò Winston, sarebbe stata che O'Brien, una volta dette quelle parole, ci avrebbe creduto. Gli si sarebbe potuto leggere in faccia. O'Brien sapeva ogni cosa. Sapeva mille volte meglio di Winston che cos'era realmente il mondo e in quale degradazione vivevano le masse di individui, e con quali specie di menzogne e di barbarie il Partito ve li manteneva. Tutto aveva capito, tutto aveva pensato, e nulla contava piú: tutto era perfettamente e totalmente giustificato dal fine supremo. Che cosa si può, pensava Winston, contro un pazzo che è piú intelligente di noi, che si degna di ascoltare i nostri argomenti, e che quindi persiste nella sua pazzia?
« Voi ci governate per il nostro bene » disse Winston a voce bassa. « Voi credete che gli uomini non sono capaci di governarsi da sé, e quindi... »
Diede un balzo e quasi mise un grido. Un brivido di dolore gli era passato attraverso il corpo. O'Brien aveva spinto la leva del quadrante fino al trentacinque.
« Questa risposta è stupida, Winston, proprio stupida! » disse. « Stupida, e lo sai benissimo; m'aspettavo di meglio da te. »
Lasciò andare la leva e continuò:
« Ora risponderò io stesso alla mia domanda. Sta a sentire. Il Partito ricerca il potere esclusivamente per i suoi propri fini. Il bene degli altri non ci interessa affatto; ci interessa soltanto il potere. Né la ricchezza, né il lusso, né una vita lunga, né la felicità hanno un vero interesse per noi; ci interessa soltanto il potere, il potere puro. Ti dico subito ciò che significa potere puro. La differenza tra noi e le oligarchie del passato consiste in questo, che noi sappiamo quel che facciamo. Tutti gli altri, anche quelli che ci rassomigliarono piú da vicino, erano tutti vili e ipocriti. I nazisti tedeschi e i comunisti russi si avvicinarono molto ai nostri metodi, ma non ebbero mai il coraggio di dichiarare apertamente i loro motivi, le loro ragioni. Essi pretesero, e forse perfino credettero, d'essersi impadroniti del potere contro la propria elezione e iniziativa, e per un tempo limitato, e che all'angolo della strada ci fosse un paradiso nel quale gli uomini potessero essere liberi e uguali. Noi siamo tutt'altra cosa. Noi sappiamo benissimo che nessuno s'impadronisce del potere con l'intenzione di abbandonarlo in seguito. Il potere non è un mezzo, è un fine. Non si stabilisce una dittatura nell'intento di salvaguardare una rivoluzione, ma si fa una rivoluzione nell'intento di stabilire una dittatura. Il fine della persecuzione è la persecuzione. Il fine della tortura è la tortura. Il fine del potere è il potere. Cominci a capirmi, ora?»
(George Orwell, da “1984”, parte terza capitolo III)
(continua)

Elio Petri: "Indagine" ( II )

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) Regia di Elio Petri. Scritto da Elio Petri e Ugo Pirro. Fotografia Luigi Kuveiller. Scenografia: Carlo Egidi. Costumi: Angela Sammaciccia. Musica di Ennio Morricone. Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan (voce di Ileana Zezza), Gianni Santuccio (il questore), Salvo Randone (l’idraulico, doppiato da Corrado Gaipa), Massimo Foschi (il marito della Bolkan), Sergio Tramonti (il giovane anarchico), Orazio Orlando (il brigadiere), Aldo Rendine (Panunzio), Arturo Dominici (dottor Mangani), Vittorio Duse (Canes), Fulvio Grimaldi (il giornalista) Durata: 1h55’

Un altro momento in cui “Indagine” assomiglia a Orwell è quello in cui Florinda Bolkan chiede a Volonté di simulare un interrogatorio poliziesco, per gioco, però fatto come se fosse tutto vero.
“Dai, interrogami...” dice la Bolkan eccitata, pensando al nuovo gioco. Ma lui tace.
Bolkan, in ginocchio, sorridendo complice: Ho capito...il silenzio fa sempre paura.
Volonté: Stai dritta! (lo ripeterà altre volte, sempre con violenza, anche con gli schiaffi) Adesso cerca di immaginare che ti aspettano ore tremende, domande crudeli, inganni, ricatti, tutto. (stacca il telefono) Cerca di ricordare delle cose della tua vita che hai dimenticato, cerca di ricordare le immagini più vergognose della tua vita, e pensa che io posso sapere tutto di te, perché lo Stato mi offre tutti i mezzi per mettere a nudo un individuo (...) Solo se confessi tutto, la tua debolezza, le tue piccole vergogne quotidiane, tu puoi avere il mio perdono e la mia protezione.
Bolkan: Ho capito...fate come coi bambini.
Volontè: Ma tutto ritorna un po’ come i bambini, segnatamente al cospetto dell’autorità costituita, insomma di fronte a uno che rappresenta il Potere, la Legge, tutte le leggi, quelle conosciute e quelle sconosciute. L’indiziato ritorna un po’ bambino e io divento il padre, il modello, l’inattaccabile. La mia faccia diventa quella di Dio, della coscienza. E’ una messa in scena per toccare corde profonde e sentimenti segreti. Ma non ti turbare, vieni...(la abbraccia, sembrava seriamente spaventata) Io ti sto spiegando una mentalità perché, vedi, ma cosa credi, queste sono le basi su cui poggia l’autorità costituita. Professori, dirigenti di partito, procuratori delle imposte, capistazione... Poi finiamo col somigliarci, noi poliziotti coi delinquenti: nelle parole e nelle abitudini, qualche volta perfino nei gesti.
Bolkan: Sei come un bambino, più di tutti gli uomini che ho conosciuto.
Volontè (molto arrabbiato): Questo non lo dovevi dire, gli altri sono i bambini, io non sono un bambino!
(da “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, minuto 37’ dall’inizio)
George Orwell, da “1984”
«...Noi non ci interessiamo minimamente a quegli stupidi delitti che hai commessi. Il Partito non s'interessa degli atti compiuti apertamente: l’unica cosa che ci interessa è il pensiero. Noi non ci contentiamo di distruggere i nostri nemici, noi li trasformiamo. Ti rendi conto di quel che voglio dire?»
Era chino su Winston. La faccia sembrava enorme a causa della vicinanza, e sembrava anche sgradevolmente brutta, per il fatto che era veduta dal basso. Oltre a ciò era pervasa da una sorta di esaltazione, da quell'intensa frenesia propria dei pazzi. Il cuore di Winston ebbe un balzo. Se fosse stato possibile, avrebbe voluto rannicchiarsi ancor di piú nel letto. Ebbe la certezza che O'Brien stava per forzare il quadrante fin sulla soglia dell'incredibile. In quel momento, tuttavia, O'Brien s'era voltato di là. Fece su e giú qualche passo e quindi riprese con accresciuto calore:
« La prima cosa di cui devi renderti conto è che in questo luogo non c'è posto per il martirio. Avrai letto delle persecuzioni religiose del passato. Nel Cinquecento c'era 1'Inquisizione. E fu un completo disastro. Fu creata con lo scopo di sradicare l'eresia e terminò invece col risultato di perpetuarla. Per ogni eretico che veniva arso sul rogo, ve n'erano altri mille che sorgevano al suo posto (...)
(...) Tacque, e per un momento riprese quella sua aria di maestro di scuola che fa le domande a uno scolaretto promettente:
« Come fa un uomo ad affermare il suo potere su un altro uomo, Winston?»
Winston ci pensò un po' su. « Facendolo soffrire » disse infine.
« Esattamente. Facendolo soffrire. L'obbedienza non basta. Se non soffre, come si fa a essere sicuri che egli non obbedisca alla sua volontà, anziché alla tua? Il potere consiste appunto nell'infliggere la sofferenza e la mortificazione. Il potere consiste nel fare a pezzi i cervelli degli uomini e nel ricomporli in nuove forme e combinazioni di nostro gradimento. Riesci a vedere, ora, quale tipo di mondo stiamo creando? Esso è proprio l'esatto opposto di quella stupida utopia edonistica immaginata dai riformatori del passato. Un mondo di paura, di tradimenti e di torture, un mondo di gente che calpesta e di gente che è calpestata, un mondo che diventerà non meno, ma píú spietato, man mano che si perfezionerà. Il progresso, nel nostro mondo, vorrà dire soltanto il progresso della sofferenza. Le civiltà del passato pretendevano di essere fondate sull'amore e sulla giustizia. La nostra è fondata sull'odio. Nel nostro mondo non vi saranno altri sentimenti oltre la paura, il furore, il trionfo, e l'auto mortificazione. Tutto il resto verrà distrutto, completamente distrutto. Già stiamo abbattendo i residui del pensiero che erano sopravvissuti da prima della Rivoluzione. Abbiamo abolito i legami tra figli e genitori, tra uomo e uomo, e tra uomo e donna. (...)
(George Orwell, da “1984”, parte terza capitolo III)
Al finto interrogatorio di Florinda Bolkan (ma le sberle sono vere) segue dal minuto 47 l’interrogatorio vero con il marito di lei, primo sospettato ma del tutto innocente. Lo interpreta un grande attore di teatro, Massimo Foschi; Volonté gli offre un caffè, parla degli arredi in Liberty, è amichevole e comprensivo. Quando se ne va, il gesto con cui lo prende in giro come omosessuale è perfetto, l’ho visto fare anch’io molte volte. Prima dice “non è colpevole” scherzando e facendogli il verso, poi lo dice seriamente, con durezza.
Sono passati pochi mesi dal caso Boffo, dal caso Marrazzo: un giornalista e un politico che si sono trovati ad essere ricattabili, per gli stessi motivi che toccano a Massimo Foschi in questo film. Oggi, come nel 1970, l’importante è schedare, poi le schedature rimangono e possono essere usate. A completare la somiglianza, in questa sequenza di “Indagine” si parla anche di travestiti, come nel caso dell’ex presidente della Regione Lazio. Se invece gli "eccessi" sono compiuti da una persona potente, o vicina ai potenti, qualsiasi cosa succeda viene fatta passare per un'inezia. Droga compresa, s'intende.
Sono dettagli che a prima vista sfuggono. Distratti dalla bellezza della Bolkan e dall’accento siciliano di Volonté, dalla politica, dagli arredi, e da tutto il resto, non ascoltiamo e non vediamo quello che succede veramente nel film. Di queste cose, gli autori del film (Elio Petri, Ugo Pirro, lo stesso Volonté) erano certamente consapevoli, ma il loro intento era quello di fare un film spettacolare, qualcosa che tutti potessero vedere e che facesse un buon incasso al botteghino. Con il cinema, fino a tutti gli anni ’70, era possibile rivolgersi a tutti e far discutere un’intera nazione; dagli anni ’80, con la nascita delle tv commerciali, dei videogiochi e delle pay tv, tutto è cambiato. Oggi non è più pensabile far partire un dibattito che coinvolga tutti, a partire da un film: ognuno se ne sta nella sua nicchia, ci sono i canali tematici, si possono passare anche giorni interi senza sapere cosa succede nel mondo, passando da una partita di calcio a un videoclip, da un videogame a un video porno, magari passando attraverso un canale di cucina e di viaggi. La realtà è completamente cancellata o distorta, ed è qualcosa che fa davvero paura. Il mondo descritto da Orwell, per l’appunto.
George Orwell, da “1984”:
O’Brien lo guardava con aria inquisitrice. Aveva più che mai l'aspetto di un maestro che si prenda pena d'insegnare a un ragazzo capriccioso, ma promettente.
« C'è uno slogan del Partito che riguarda il controllo del passato » disse. « Ripetilo, per piacere. »
« Chi controlla il passato, controlla il futuro; chi controlla il presente, controlla il passato» ripeté Winston, sottomesso.
« Chi controlla il presente, controlla il passato » disse O'Brien con un lento cenno d'approvazione del capo. «Credi davvero, Winston, che il passato abbia una esistenza reale?»
Di nuovo quella sensazione d'impotenza s'impadronì di Winston. I suoi occhi corsero al quadrante. Non solo egli non sapeva se la risposta che lo avrebbe salvato dalla sofferenza fisica era "sì” o "no", non sapeva nemmeno quale delle due risposte fosse quella ch'egli credeva realmente esatta.
O'Brien sorrise debolmente. « Tu non sei un metafisico, Winston» disse. « Fino a questo momento non hai mai considerato che cosa propriamente s'intenda per esistenza. Cercherò d'essere piú chiaro. Il passato esiste forse concretamente nello spazio? C'è da qualche parte un luogo, un mondo d'oggetti solidi, dove il passato sta ancora avvenendo? »
« No. »
« Quindi, dove esiste il passato, seppure esiste?»
« Nei documenti. Esso vi è registrato.»
«Nei documenti. E...?»
« E nella mente. Nella memoria degli uomini. »
« Nella memoria, allora. Noi, il Partito, controlliamo tutti i documenti, e controlliamo tutte le memorie. E quindi controlliamo il passato. Non è vero? »
« Ma come si può impedire alla gente di ricordarsi delle cose? » esclamò Winston, dimenticando ancora una volta il quadrante. « È un atto involontario. È fuori di noi stessi: Come potete controllare la memoria? Voi non avete controllato la mia! »
Le maniere di O'Brien divennero di nuovo brusche. Posò una mano sul quadrante.
«Al contrario » egli disse. « Sei tu che non l'hai controllata. Per questo ora sei qui. Sei qui perché hai mancato di umiltà, di disciplina verso te stesso. Tu non hai voluto fare l’atto di sottomissione che è il prezzo della saggezza. Hai preferito essere un pazzo, essere la minoranza di uno. Solo le menti disciplinate possono vedere la realtà, Winston. (...)
(George Orwell, da “1984”, parte terza capitolo III)
Nell’interrogatorio, la violenza viene delegata ad altri, ai sottoposti. Volonté è invece amichevole, vuole i nomi, è amichevole come O’Brien con Winston; e come O’Brien tortura, ma restando amichevole e confidenziale. Così si racconta anche dei torturatori cileni e argentini degli anni ’70: le cronache e le testimonianze, gli atti dei processi celebrati, raccontano di torturatori che alla fine della loro giornata si fermavano a chiacchierare con le loro vittime, dividendo il pasto, parlando di calcio, raccontando loro dei figli e della moglie che non li capisce. E poi riprendevano a torturare, come se nulla fosse: sembrano cose inventate, invece sono agli atti, se ne è parlato nei tribunali, Orwell non si è inventato niente. Questo aspetto nel film non c’è, non viene trattato apertamente ma è appena accennato: Elio Petri ha scelto la strada dell’iperrealismo, una realtà quasi caricaturale, così vera da sembrare finta. Ma questo commissario assassino, che compie di proposito un omicidio e che dissemina di indizi ogni suo passo per farsi riconoscere, non è e non può essere soltanto un commissario di polizia, la dimensione che gli spetta è un’altra, così come accade per l’O’Brien di Orwell. Ma Petri non vuole troppe analisi, la metafisica non gli interessa, e anche lui – come il suo commissario protagonista – sta solo seminando indizi ovunque, certo che saranno in pochi a rendersene conto, e quei pochi (come il personaggio affidato a Salvo Randone) avranno molte difficoltà a parlarne.
George Orwell, da “1984”:
Quell’antica sensazione che cioè, tutto sommato, non importava affatto se O'Brien fosse un amico o un nemico, era di nuovo tornata. O'Brien era semplicemente una persona con la quale si poteva parlare. Forse non c'era tanto bisogno e quindi desiderio di essere amati quanto di essere capiti. O'Brien lo aveva
torturato fino a fargli intravedere la soglia della pazzia, e tra breve, ne era sicuro, l'avrebbe anche messo a morte. Non importava nulla. In qualche senso che andava anche oltre l'amicizia, essi erano, l'uno con l'altro, in una profonda intimità (...)
(...) Winston fu colpito, come lo era stato già prima del resto, dalla stanchezza che si leggeva sulla faccia di O'Brien. Era forte, carnosa, brutale, era piena di intelligenza e d'una specie di misurata passione dinanzi alla quale egli si sentiva disarmato, ma era stanca. Aveva borse sotto gli occhi, la pelle pendeva dagli zigomi. O'Brien si chinò su di lui, quasi per fargli meglio vedere quella sua faccia consunta.
«Tu stai pensando » disse « che la mia faccia è vecchia e stanca. Tu pensi che io sto parlando del potere e che tuttavia non sono nemmeno capace di impedire al mio corpo di invecchiare e decadere. Ti rendi conto, Winston, che l'individuo è soltanto una cellula? E che l'uso, appunto, della cellula costituisce la forza dell'organismo? Muori forse quando ti tagli le unghie? »
Quindi si levò e si allontanò dal letto e riprese a camminare su e giú, con la mano in tasca.
« Noi siamo i sacerdoti del potere» disse. « Iddio è il potere. Ma in questo momento, per quanto riguarda te, il potere è soltanto una parola. Siamo arrivati al punto in cui è bene che tu abbia una qualche idea di che cosa realmente significa il potere. La prima cosa che tu devi capire è che il potere è collettivo. L'individuo raggiunge il potere solo in quanto cessa di essere individuo. Tu conosci lo slogan del Partito: "La libertà è schiavitú". Hai mai pensato che si può rovesciarlo? La schiavitú è libertà. Fino a quando è solo e libero, l'essere umano è sempre condannato alla sconfitta. Deve essere cosí, perché ogni essere umano è condannato a morire, il che costituisce la maggiore di tutte le possibili sconfitte. Ma se egli riesce a fare una completa, totale sottomissione e rinunzia, se riesce a evadere dalla sua stessa identità, se si può completamente immedesimare nel Partito, in modo da fare che egli sia il Partito, solo allora riesce a essere onnipotente e immortale. La seconda cosa che tu devi capire è che il potere significa il potere sugli uomini. Sul corpo... ma soprattutto sulla mente. Il potere sulla materia, quella che tu chiami realtà esterna, non è importante. Il nostro controllo della materia è già assoluto e totale.»
Per un attimo Winston ignorò il quadrante. Fece uno sforzo per sollevarsi a sedere e riuscì, seppure con pena, a piegare un po' il corpo.
« Ma come potete controllare la materia? » esplose. « Non riuscite nemmeno a controllare le condizioni atmosferiche o la legge di gravità. E ci sono le malattie, il dolore, la morte... »
Con la mano O'Brien gli fece cenno di tacere. « Noi controlliamo la materia perché controlliamo lo spirito. La realtà sta dentro il cranio. Tu impari, a poco a poco, Winston. Non c'è . nulla che noi non possiamo fare. Invisibilità... levitazione... tutto! Io potrei librarmi di su questo pavimento come una bolla di sapone, se volessi. Non lo voglio, perché il Partito non lo vuole. Devi mettere da parte, devi liberarti di quelle tali cognizioni ottocentesche attorno alle leggi di natura. Le facciamo noi, le leggi di natura.»
« Ma non le fate affatto voi! Non siete nemmeno padroni di tutt'intero questo pianeta. Che dirai dell'Eurasia e della Estasia? Non le avete ancora vinte!» (...)
(George Orwell, da “1984”, parte terza capitolo III)

(continua)

mercoledì 22 agosto 2012

Elio Petri: "Indagine" ( III )

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) Regia di Elio Petri. Scritto da Elio Petri e Ugo Pirro. Fotografia Luigi Kuveiller. Scenografia: Carlo Egidi. Costumi: Angela Sammaciccia. Musica di Ennio Morricone. Interpreti: Gian Maria Volonté, Florinda Bolkan (voce di Ileana Zezza), Gianni Santuccio (il questore), Salvo Randone (l’idraulico, doppiato da Corrado Gaipa), Massimo Foschi (il marito della Bolkan), Sergio Tramonti (il giovane anarchico), Orazio Orlando (il brigadiere), Aldo Rendine (Panunzio), Arturo Dominici (dottor Mangani), Vittorio Duse (Canes), Fulvio Grimaldi (il giornalista) Durata: 1h55’

“Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”, al di là delle apparenze spettacolari e della bellezza del film in sè, è un apologo sul Potere. In questo si apparenta molto a “Todo modo”, che Petri girerà sei anni dopo. Ma il potere, il rapporto interpersonale e non solo il potere politico o poliziesco, è il tema dominante di tutta l’opera di Elio Petri.
Nel capitolo forse più famoso di “Moby Dick” di Herman Melville è espresso molto bene questo concetto
Herman Melville, Moby Dick
capitolo XXXVI – IL CASSERO
« Vendetta su un bruto senz'anima! » esclamò Starbuck. « Su un bruto che ti colpì solo per il più cieco istinto! Ma è una pazzia! Capitano Achab, suona blasfemo odiare una creatura incosciente. »
« Stammi a sentire di nuovo. Andiamo ancora un po' più a fondo. Tutti gli oggetti visibili, amico, sono solo maschere di cartone. Ma in ogni cosa che succede, nell'azione viva, nel fitto preciso, lì, c'è qualche cosa di sconosciuto ma sempre ragionevole che sporge il profilo della faccia da sotto la maschera cieca. Se l'uomo vuole colpire, deve colpire la maschera! Come può evadere il carcerato se non forza il muro? Per me la balena bianca è quel muro. Me l'hanno spinto accanto. Qualche volta penso che lì dietro non c'è niente. Ma è sempre abbastanza. Mi chiama alla prova. Mi opprime. In essa vedo una forza che è un oltraggio, con una malizia inscrutabile che l'innerva. Quella cosa incomprensibile è soprattutto ciò che odio. Forse la balena bianca è il mandatario, e forse è il mandante, ma io gli rovescerò addosso questo mio odio. Non mi parlare di blasfemia, amico; colpirei il sole se mi offendesse. Perchè se il sole potesse offendermi, io potrei colpirlo: perchè c'è sempre una specie di lealtà nel gioco, e la rivalità presiede su tutta la creazione. Ma io non mi sento soggetto neanche a questa lealtà. Chi è sopra di me? La verità non ha limiti. Non mi guardare così! Uno sguardo stupido è più insopportabile dell'occhiata di un demonio! Ecco, adesso arrossisci e diventi pallido: il mio calore ti ha fuso, ora bruci di rabbia. Via, Starbuck, ciò che è detto con rabbia si disdice da sè. Le parole arrabbiate di certi uomini sono poca offesa. Non volevo provocarti. Scordiamole. Guarda lì, vedi quelle facce turche tutte chiazzate dal sole, quadri dipinti dalla luce, che vivono e respirano? I leopardi pagani, cose senza pensiero e senza culto, che esistono, e cercano, e non danno ragioni per la torrida vita che sentono. La ciurma, amico mio, la ciurma! Non sono tutti dal primo all'ultimo con Achab, in questa faccenda della balena? Guarda Stubb. Ride! Guarda laggiù quel cileno! A pensarci respira come un animale. Resistere dritta in mezzo all'uragano, la tua pianticella sola e sbattuta non lo può, Starbuck. E cos'è in fondo? Pensaci. Si tratta solo di dare una mano a colpire una pinna. Per Starbuck è cosa da niente. Che altro c'è? In questa impresuccia, dunque, la lancia migliore di Nantucket non si tirerà certo indietro, quando ogni mano di castello ha afferrato una cote. Ah, cominci a sentirti eccitato, lo vedo! L'ondata ti porta. Parla, dì qualcosa. Capisco, capisco. Allora il tuo silenzio è quello che vuoi dire. (A parte): Qualcosa è pure partito dalle mie narici gonfie, e l'ha aspirato nei polmoni. Ora Starbuck è mio. E non può più resistermi senza slealtà. »
« Dio mi protegga! Ci protegga tutti! » mormorò Starbuck a bassa voce.
(Herman Melville, Moby Dick, versione di Nemi D’Agostino, ed.Garzanti)
Questo aspetto, “la rivalità che presiede su tutta la creazione”, insieme a quello di una gerarchia da rispettare e che non può essere infranta, è ben presente in tutti i film di Petri e soprattutto in “La classe operaia va in Paradiso”.
Forse questo aspetto dei film non è ben chiaro ad una prima visione, ed è reso difficile anche dal fatto che su gran parte dei film di Petri (quasi tutti) vige da più di trent’anni una forma di censura molto subdola. Sui film di Petri non c’è alcun divieto, ma sono difficili da vedere e da trovare. In tv, “Todo modo” è per esempio quasi introvabile, a quanto mi risulta non c’è nemmeno il dvd: la scusa ufficiale è che si accenna all’uccisione di Aldo Moro un anno prima della sua vera morte, ma anche il Moro di Gianmaria Volonté è solo una maschera, non è il vero Aldo Moro, e questo dovrebbe essere evidente a uno spettatore attento. Viene piuttosto il dubbio che il forte messaggio di critica al Potere sia stato ben colto solo da chi davvero detiene il Potere
- L’uso della libertà minaccia da tutte le parti i poteri tradizionali, le autorità costituite. L’uso della libertà che tende a fare di qualsiasi cittadino un giudice, e ci impedisce di espletare liberamente le nostre sacrosante funzioni. Noi siamo a guardia della Legge, che vogliamo immutabile, scolpita nel tempo. Il popolo è minorenne, la città è malata, ad altri spetta il compito di curare e di educare, a noi il dovere di reprimere. La repressione è il nostro vaccino. Repressione è civiltà!
(da "Indagine" di Elio Petri, monologo di Volonté al minuto 30-31)
A questo proposito vorrei sottolineare una parola del monologo: “sacrosanta”. “Le nostre sacrosante funzioni”: non è solo un modo di dire, la funzione del Potere qui assume un valore sacerdotale, e questo valore sacro e santo sarà ben visibile in “Todo modo”. Un valore sacerdotale del comando che però sconfina nel blasfemo, nel paganesimo e nell’idolatria: come ha spiegato in modo eccezionale Herman Melville nel brano che ho portato qui sopra.
Ovviamente, tutto quello che ho scritto qui sopra si può anche dimenticare, e guardare “Indagine” come se fosse un normalissimo film d’intrattenimento: funziona anche così, funziona benissimo, ed è grande merito di Elio Petri, grande narratore per immagini, in questo molto simile a Stanley Kubrick.
Tra gli attori, detto tutto il bene possibile di Volonté e di Florinda Bolkan, scorrendo la locandina ci si imbatte in tre grandissimi attori del teatro italiano: Gianni Santuccio (il questore), Salvo Randone (l’idraulico, doppiato da Corrado Gaipa), Massimo Foschi (il marito della Bolkan).
Gianni Santuccio è il questore, il capo di Volonté: un attore che ha fatto pochissimo cinema, è presente in alcuni sceneggiati Rai, ma soprattutto è stato una colonna portante del Piccolo Teatro di Milano, accanto a Giorgio Strehler, a Tino Carraro, e ad altri grandissimi attori, dal 1945 fino a quando è stato possibile, per decenni e in ogni ruolo immaginabile. Qui bastano poche sequenze per capirne la grandezza: il gesto con cui conduce i suoi nell’ispezione del pozzo, il rimbrotto finale a Volonté, il modo in cui respinge (una per una ) le sue confessioni.
Massimo Foschi qui ha un piccolo ruolo, il marito di Florinda Bolkan interrogato da Volonté e subito scagionato. Foschi nel 1970 aveva già interpretato da protagonista uno spettacolo leggendario, l’Orlando Furioso messo in scena da Luca Ronconi; è protagonista anche della versione tv di quello spettacolo. Il mio primo ricordo di Massimo Foschi è legato al Calibano della Tempesta di Shakespeare, sempre per la regia di Giorgio Strehler.
Ed è quasi superfluo ricordare l’importanza di Salvo Randone, che nei film di Petri va sempre a toccare il lato più oscuro e inquietante del film, quello che va a toccare noi stessi in prima persona. Randone appare qui più enigmatico e sfuggente del solito: ha visto tutto, ha capito tutto, gli hanno perfino spiegato tutto fino in fondo, ma il gioco si è fatto troppo grande per lui. Il suo personaggio è uno stagnaro, come in “I giorni contati”: avendo visto quel film, che è il primo di Elio Petri, sorge spontanea una domanda: dunque Volonté impersona la morte? E’ l’incontro con la Morte a spaventarlo così tanto, come accade con Bergman nel Settimo Sigillo, come lo stesso Randone nelle primissime sequenze di “I giorni contati”? E' la morte ad apparire a Florinda Bolkan e a giocare con lei?
Purtroppo, però, in  questo film Salvo Randone non ha la sua vera voce ma è doppiato; probabilmente era impegnato in qualche tournée in teatro e non era disponibile al momento. La voce di Randone in “Indagine” è comunque quella di un ottimo attore, Corrado Gaipa, di timbro molto simile alla sua.
Altri interpreti, volti e nomi più o meno famosi fra tv e teatro e cinema (anche di serie B e serie C), sono Sergio Tramonti (il giovane anarchico), Orazio Orlando (il brigadiere), Aldo Rendine (Panunzio), Arturo Dominici (il dottor Mangani), Vittorio Duse (Canes), e Fulvio Grimaldi che interpreta il giornalista ed è un vero giornalista, che ha lavorato a lungo per la Rai e per Paese Sera.
Paese Sera è un quotidiano veramente esistito, si pubblicava a Roma e fa da sfondo anche a un film che è strettamente parente di “Indagine”, “Sbatti il mostro in prima pagina” di Marco Bellocchio, sempre con Volonté protagonista, uscito nel 1972.
Su wikipedia ho trovato scritto che nel film appare anche Elio Petri, nei panni di un poliziotto addormentato: io l’ho cercato ma non l’ho visto, ammetto che mi sono distratto.
Altre mie note sparse: 1) Volonté dissemina di indizi ovunque, per tutto il film, ovunque ed evidentissimi, macroscopici, con lo scopo di farsi trovare sapendo che non verrà svelato; così nella Creazione gli indizi sono ovunque, così accade anche in Orwell 1984 2) Petri cita Kafka, ma il finale di “Indagine su un cittadino” è Pirandello purissimo: la verità che scompare, e addirittura un fantasma che scagiona il colpevole, quasi come in Rashomon. Un film che diventa grandioso proprio grazie a questo finale, che lo fa volare alto, ben sopra le polemiche sulla polizia e sul ’68, e ben oltre la marcata caratterizzazione di Volonté. Non a caso anche qui, in questo finale, c’è Salvo Randone. 3) “sei un bambino, fai l’amore come un bambino” dice la Bolkan a Volonté, ed è l’unica frase che veramente lo disturba, prima si arrabbia quando lei glielo dice, poi si nasconde e cerca riparo proprio come farebbe un bambino 4) i manifestanti di sinistra: “appena li abbiamo messi in galera si sono subito divisi in tanti gruppi e gruppetti” 5) le bombe, come quelle dei giorni di Piazza Fontana, qui si dice “alla questura e all’American Express” ma anche nel dicembre 1969 le bombe furono molte, non solo a Piazza Fontana 6) la tortura con acqua e sale, da bere fino a star male, fu davvero usata anche in seguito: ben documentato è il momento in cui fu usata per arrivare a liberare il generale Dozier, a Verona. 7) Pannunzio, con due enne, è il cognome di un famoso giornalista degli anni ’50: Mario Pannunzio. 8) la sala computer che si vede nel film, con le schede perforate e i nastri enormi a girare nelle loro bobine, era qualcosa di nuovissimo e di mai visto prima. Ci viene mostrata la nuova tecnologia, quella che permetterà di schedare e trovare immediatamente ognuno di noi: oggi non solo tutto questo è realtà, ma i mezzi per farlo sono avanzati così tanto che un semplice telefonino è enormemente più potente di tutta questa sala computer. 9) Antonio Pace è il nome del giovane anarchico
Il film vinse l’Oscar come miglior film straniero, ha una fotografia limpida e meravigliosa (opera di Luigi Kuveiller), scenografie e locations di grande impatto, ed una colonna sonora notevolissima, firmata da Ennio Morricone:
da wikipedia:
La comune predilezione per i timbri espressivi dell'iperbole, del grottesco, dello "straniamento di matrice brechtiana", rendono il connubio tra Elio Petri e il musicista Ennio Morricone uno dei più produttivi, quantitativamente e qualitativamente, del cinema italiano. La colonna sonora di Indagine, che pare aver esercitato una notevole impressione sullo stesso Stanley Kubrick, ne rappresenta, forse, il vertice. Qui, la contaminazione tra ambito classico ed ambito popolaresco (ad esempio il mandolino suonato come fosse un clavicembalo) con gli "inserti ritmicamente imprevedibili del marranzano, del sax soprano e del contrabbasso elettrico" risultano perfettamente funzionali nell'accompagnamento dei moti convulsi della psiche disturbata del protagonista.
Una cosa curiosa di questo film è l’elenco delle scritte cancellate sui muri, che viene fatto al minuto 51, quando appare un grande W MAO.
Si tratta dell’inventario delle scritte sui muri dal 1945 in qua; sarebbe interessante completarlo, chissà se qualcuno lo ha fatto.
- Nell’anno 1948 furono cancellate duemila scritte inneggianti a Stalin, cinquanta a Lenin, mille a Togliatti, trenta al maresciallo Tito, trecento al buce, quattrocentoundici all’Uomo Qualunque. Nel 1956 invece gli Stalin scendono a cento, un calo enorme.
- E Togliatti?
- Stazionario.
- Nel 1958 un centinaio di viva Krusciov, cinquanta Mao Tze, e spuntarono anche un cinquecento “abbasso” Stalin...
- Dottore, faccio notare che per ordini superiori non furono cancellate, ovviamente.
- L’anno scorso i viva Mao arrivarono a tremila, Ho Chi Minh arrivò a diecimila, Che Guevara mille, Marcuse undici tra viva e abbasso.
- Un fatto nuovo: abbiamo notato un paio di viva a un certo Sade.
- (Volontè, ironico) eh, il marchese.
- Per l’anno prossimo si prevedono diecimila viva Mao, cinquecento viva Trotzkij, e una decina di viva Amendola, e forse ancora un cinque-seicento di viva Stalin.
(da Indagine di Elio Petri, la riunione nell’ufficio di Volonté, minuto 51)

domenica 12 agosto 2012

Vanità e affanni ( I )

Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’

I film di Ingmar Bergman non sono mai facili, e questo lo si sa da subito. Del resto, anche qui sta il suo fascino. Con “Vanità e affanni”, però, Bergman sembra davvero esagerare, pretendere troppo da noi spettatori e ammiratori. Fin dall’inizio, non fa che scoraggiare e confondere anche lo spettatore meglio intenzionato, riempiendo i dialoghi e le immagini di particolari molto sgradevoli, ergendo muri e reticolati invalicabili ad ogni minuto, evitando con cura di far capire da che parte sta andando il racconto – che infatti nella seconda parte sarà molto diverso dal suo durissimo inizio. Eppure, è grande cinema: nonostante la sgradevolezza dei personaggi e di alcuni suoi momenti, le immagini sono bellissime, luci e fotografia sono splendide, e si capisce subito di dover stare attenti. Inoltre, l’apparizione di un fantasma, o di una visione, è davvero inquietante: una delle creature più inquietanti di tutto il cinema, evocata dal personaggio di Carl Akerblom.  Si tratta dello zio materno del bambino Ingmar, un ritratto molto fedele anche se siamo pur sempre nell'ambito della finzione. Lo zio Carl era già tra i protagonisti di “Fanny e Alexander”, dove appare anche come persona saggia e misurata (anche "Fanny e Alexander" è un film d'invenzione, con solo pochi riferimenti all'infanzia di Ingmar Bergman: ne metto qui sotto due fotogrammi).
Difficile capire cosa avesse avuto in mente Ingmar Bergman, nel 1997, scrivendo e dirigendo il suo terzultimo film, “Vanità e affanni” (dopo di questo, verranno “The image maker” del 1999 e “Sarabanda” del 2003). Di sicuro non è un film facile, di sicuro Bergman lo rende ostico e mette dappertutto una rete di sbarramento, filo spinato, trincee, qualsiasi cosa pur di scoraggiare anche lo spettatore più ostinato. Chi riesce nonostante tutto ad andare avanti, fino alla fine, ne scoprirà il motivo: nel film, al di là delle vicende del protagonista, si trattano temi legati all’infanzia di Bergman, quando era un bambino molto piccolo. Derivano da qui, dalla primissima infanzia, i discorsi sull’incontinenza, sulla paura del sesso e delle malattie, sul rapporto con le donne (che nel film trattano gli uomini adulti come se fossero bambini, da madri o da infermiere più che da mogli o da amanti).
Anche la citazione iniziale dal Macbeth di Shakespeare, che dà il titolo al film, sembra quasi soltanto un depistaggio molto abile: cosa c’entra Macbeth con quello che stiamo vedendo? Un regista di teatro abile e colto come Bergman non può pretendere che gli si creda, quando ambienta in un manicomio “la storia raccontata da un idiota”:
«La vita non è che un’ombra che cammina... un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi non lo si sente mai più. E’ una storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furore, che non significa nulla. »
(il Macbeth di Shakespeare, nella versione italiana di Vanità e affanni di Ingmar Bergman, dai titoli di testa all’inizio del film).
Oltretutto, questa frase viene pronunciata da Macbeth verso la fine del dramma, quando sa di essere prossimo alla sconfitta, quando gli arriva la notizia della morte di sua moglie; ed è stata sua moglie a spingerlo nell’avventura che adesso gli sta costando tutto, vita compresa. Forse bisogna ricordare un altro particolare: prima di morire, Lady Macbeth vaneggia e non è più se stessa. La brama di potere l’ha resa folle; e in un manicomio inizia “Vanità e affanni”. Lì dobbiamo tornare, parlando del film; e non è mica facile, in quel manicomio dovremo restarci per quasi un’ora.
Per capire cosa succede nel film, e da dove è partito Bergman, forse sarebbe meglio cominciare da un personaggio che appare solo nella seconda parte, e che rischia di passare inosservato: Karin, la sorella di Carl. Presentata come “la giovane signora Bergman”, è la madre di Ingmar Bergman: probabilmente, quindi, siamo di fronte a un episodio vero, a un ricordo tramandato in famiglia.
Lo zio Carl è presente nelle pagine di “Lanterna Magica”, il libro dove Bergman ha iniziato a raccontare questa storia nelle sue memorie, pubblicato all’inizio degli anni ’90, ed anche in “Nati di domenica” un altro libro di Bergman uscito da noi nel 1994 dove è descritto anche l’incontro fra Karin Akerblom, sorella di Carl, e il padre di Ingmar Bergman.
Nel film, Karin è interpretata da Pernilla August; lo zio Carl ha lo stesso interprete che aveva avuto in “Fanny e Alexander”, Börje Ahlstedt.
Ingmar Bergman, da “Nati di domenica”:
Ricordo che tanto la nonna quanto zio Carl erano particolarmente critici nei confronti della nostra dimora estiva, ma per ragioni diverse. Zio Carl, che era ritenuto non del tutto sano di mente ma che sapeva quasi tutto di tutto, affermava che quella casa non era una vera casa, non era affatto una villa e in nessun caso un'abitazione. Forse, quel fenomeno lo si sarebbe potuto descrivere come una serie di casse di legno tinte di rosso sistemate una accanto all'altra e sovrapposte. Un po' come l'Opera di Stoccolma, pensava zio Carl. (...)
(Ingmar Bergman, da “Nati di domenica”, ed. Garzanti – l’inizio del libro)
Karin Bergman nel racconto di suo figlio Ingmar
Ingmar Bergman, da “Nati di domenica”:
Ora dobbiamo - seppur brevemente - parlare del conflitto. A quest'epoca, che è dunque l'estate del millenovecentoventisei, durava esattamente da sedici anni. L'origine era l'ingresso dello studente di teologia Erik Bergman nella famiglia Akerblom in qualità di futuro sposo della ben custodita figliola di casa. La signora Anna non approvava il legame e impegnava la sua rimarchevole forza di volontà per mettere in atto misure decise. In sé, il futuro pastore poteva essere il sogno di una suocera: ambizioso, beneducato, elegante, e relativamente imponente. In più, con un buon futuro nel pubblico impiego. La signora Anna aveva comunque occhio per le persone. E vide qualcos'altro dietro la superficie irreprensibile: instabilità, ipersensibilità, umore collerico, improvvisa freddezza. La signora Anna riteneva inoltre di conoscere bene la propria figliola, la figura centrale, luminosa e un tantino viziata, della famiglia. Karin era forte di carattere, allegra, perspicace, estremamente sensibile e, come si è detto, piuttosto viziata. La signora Anna pensava che sua figlia avesse bisogno di un uomo adulto, di provato talento, di una mano salda ma anche attenta. Questo ideale esisteva già nell'orbita familiare, ed era il docente di storia della religione Torsten Bohlin. Tutti erano d'accordo che Torsten e Karin formavano una coppia ideale, e i genitori attendevano speranzosi la dichiarazione dei due giovani. Infine, Erik Bergman e Karin Akerblom erano cugini di secondo grado, il che veniva considerato una combinazione rischiosa. Da parte Bergman inoltre si nascondeva una malattia ereditaria difficilmente definibile, che colpiva capricciosamente e orribilmente alcuni membri della famiglia: un'atrofia muscolare progressiva che portava inesorabilmente all'invalidità e a una morte precoce. Anna Akerblom riteneva perciò che Erik Bergman fosse un marito palesemente inadatto a sua figlia. Anche Johan Akerblom era dello stesso avviso, ma per altri motivi. Era già vecchio e malato, e amava quella sua unica figlia di un amore profondo e rassegnato. Qualsiasi pretendente concepibile o inconcepibile era un abominio. Il vecchio signore desiderava tenersi accanto la luce dei suoi occhi il più a lungo possibile. Karin ricambiava l'amore del padre con affetto tenero seppure un po' distratto.
Quando la relazione sentimentale fra i due giovani divenne manifesta, la signora Anna mise in opera provvedimenti drastici e più o meno ben ponderati. Chi sia interessato all'argomento può studiare un dettagliato documento chiamato “Con le migliori intenzioni”. (...)
(Ingmar Bergman, da “Nati di domenica”, ed. Garzanti, pagg.14-16)
“Con le migliori intenzioni” oltre che un libro di Bergman è nel frattempo diventato anche un film per la tv, girato nel 1992 per la regia di Bille August. Vi si racconta tutta la storia della famiglia Bergman, ma questa storia ha poco a che fare con “Vanità e affanni”, quindi conviene ritornare a parlare dello zio Carl: la grafia esatta del cognome è Åkerblom, dove la A iniziale diventa quasi una O, Ökerblom o qualcosa di simile – ma per pigrizia e per non complicarmi troppo la vita da qui in avanti continuerò a scrivere Akerblom, che in mancanza di una tastiera scandinava si fa meno fatica e non serve ricorrere ai codici ASCII e agli “inserisci simbolo”.
(continua)

Vanità e affanni ( II )

Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’

Altri dettagli sullo zio Carl, stavolta da “Lanterna magica”, un libro del 1992.
Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”:
(...)Gli zii venivano talvolta in visita insieme alle loro terrificanti mogli. Gli uomini erano grassi, portavano la barba e parlavano ad alta voce. Le donne avevano ampi cappelli e puzzavano di zelo sudaticcio. Io mi tenevo nascosto quanto più potevo. Bisognava lasciarsi prendere in braccio, stringere, baciare, pizzicare. (...) I loro movimenti erano bruschi, i loro sguardi insicuri. Le donne fumavano. Vicino alla nonna sudavano per l'inquietudine, parlavano troppo velocemente e con voci taglienti. I volti erano truccati. Non assomigliavano a mia madre, benché fossero mamme.
Lo zio Carl, però, era diverso.
Seduto sul divano verde della nonna, lo zio Carl ne ascoltava i rimproveri. Era un uomo alto e piuttosto grasso; la fronte spaziosa era in quel momento corrugata per la preoccupazione, la calvizie era cosparsa di chiazze brunastre, sulla nuca ricadevano alcuni radi riccioli. Le orecchie erano pelose e rosse. La pancia prominente poggiava sulle cosce, gli occhiali, appannati dalle lacrime che stavano spuntando, nascondevano il dolce sguardo color pervinca. Le mani grasse e molli erano serrate tra le ginocchia. La nonna, piccola e diritta, era seduta sulla poltrona vicino al tavolo della sala. (...)
Io ero seduto per terra, nella stanza accanto. Insieme allo zio Carl avevo appena sistemato i binari del trenino ricevuto in regalo dall'arciricca zia Anna. La nonna era apparsa sulla porta e aveva chiamato lo zio Carl con un tono secco e gelido. Lui si era alzato con un sospiro, s'era infilato la giacca e aggiustato il gilè sulla pancia. Andarono a sedersi in sala. La nonna aveva chiuso la porta ma questa s'era riaperta da sola. Potevo seguire tutto quello che accadeva come su un palcoscenico.
La nonna parlava e lo zio Carl serrava e arrotondava le labbra. La sua testona s'incassava sempre più tra le spalle.
Lo zio Carl era, in verità, mio zio solo in parte in quanto era il maggiore tra i figliastri della nonna, e non molto più giovane di lei. La nonna era la sua tutrice: lui era debole di cervello, incapace di badare a se stesso. A volte lo portavano in manicomio ma per lo più abitava presso due signore di mezza età che si prendevano cura di lui.
Era devoto e affettuoso come un grosso cane, ma ora l'aveva fatta troppo grossa: una mattina s'era precipitato fuori dalla sua stanza senza calzoni nè mutande e aveva impetuosamente abbracciato zia Beda inondandola di baci appassionati e parole indecenti. Zia Beda non s'era lasciata prendere dal panico, con calma aveva stretto zio Carl nel posto giusto, proprio là dove le aveva detto il dottore. Poi aveva telefonato alla nonna.
Lo zio Carl era pentito e sul punto di mettersi a piangere. Era un uomo pacifico, ogni domenica andava alla chiesa missionaria insieme a zia Ester e zia Beda. Con il suo elegante vestito nero, lo sguardo dolce e la bella voce baritonale avrebbe quasi potuto essere uno dei predicatori. Se c'era qualcosa da fare dava una mano, come una specie di sagrestano volontario; era ben visto ai caffè pomeridiani e agli incontri di cucito, in occasione dei quali si prestava volentieri a leggere ad alta voce mentre le signore si dedicavano al loro lavoro.
In realtà lo zio Carl era un inventore. Sommergeva di disegni e descrizioni il Regio Ufficio Brevetti, ma con poco successo. Su un centinaio di proposte ne erano state approvate due: una macchina che rendeva tutte uguali le patate e una spazzola da toilette automatica.  Lo zio Carl era diffidente all'estremo. Soprattutto temeva che qualcuno gli rubasse le sue nuove idee. Per questo le avvolgeva nella tela cerata e se le infilava poi tra i calzoni e le mutande. La tela cerata poteva venir utile: lo zio Carl, infatti, aveva la mania di pisciarsi addosso. (...)  Io lo ammiravo e credevo alla zia Signe secondo la quale Carl era il più dotato dei quattro fratelli senonché Albert geloso, lo aveva picchiato sulla testa con un martello indebolendo così per il resto della vita l'intelligenza del povero ragazzo. Io lo ammiravo perché inventava sempre qualcosa di nuovo per la mia lanterna magica e il mio proiettore. Modificò il sostegno dei lastrini e l'obiettivo, inserì uno specchio concavo e fece degli esperimenti con tre o quattro lastrini di vetro mobili che si potevano sovrapporre l'uno all'altro e che dipingeva lui stesso. In questo modo creava degli sfondi mobili ai personaggi. Gli crescevano i nasi, si libravano in aria, fantasmi sorgevano da sepolcri illuminati dalla luna, navi affondavano, una madre sul punto di annegare teneva il suo bambino in alto, al di sopra della testa, ed entrambi venivano poi inghiottiti dalle onde.
Lo zio Carl comprava spezzoni di film a cinque centesimi il metro e li immergeva in acqua di Seltz calda così che l'emulsione venisse corrosa. Quando la pellicola s'era asciugata, lui vi dipingeva sopra direttamente delle immagini in movimento con l'inchiostro di china. A volte tracciava figure astratte che si trasformavano, esplodevano, si gonfiavano e si contraevano. Se ne stava seduto, il corpo massiccio chino sul tavolo da lavoro nella stanza riccamente ammobiliata, la pellicola distesa su una lastra di vetro opaco illuminata dal di sotto. Sollevava gli occhiali sulla fronte, nell'orbita destra incastrava una lente.
Fumava una pipa corta, ricurva e davanti a sé, sul tavolo, aveva una serie di pipe simili, già riempite e pulite. Io non potevo distogliere lo sguardo dalle piccole figure che si formavano sui quadratini della pellicola, velocemente e senza esitazioni. Mentre lavorava, lo zio Carl parlava, aspirava dalla sua pipa, parlava, sospirava, aspirava: «Ecco Teddy, il barboncino del circo, che fa una capriola in avanti, ci riesce, è bravo. Adesso il cattivo direttore del circo costringe il povero cagnetto a fare una capriola all'indietro. Teddy non ce la fa. Batte la testa sulla pista, vede le stelle, prendiamo un altro colore per le stelle, sono rosse. Adesso gli viene un bernoccolo sulla testa, anche questo è rosso. Non credo che zia Ester e zia Beda siano in casa, va' in sala da pranzo, apri il cassetto piccolo sulla sinistra del buffet, ci troverai un sacchetto di cioccolatini che hanno nascosto perché secondo Ma io non devo mangiare dolci. Prendi quattro cioccolatini, ma stai attento a non farti scoprire.»
Eseguo il mio compito e ricevo uno dei cioccolatini. Gli altri, li infila tra le labbra tumide, l'acquolina gli luccica agli angoli della bocca. (...)
Quando la nonna morì, fu la mamma a diventare tutrice. Carl si trasferì a Stoccolma e prese in affitto due piccole stanze da un'anziana signora che faceva parte di una setta religiosa e abitava in Ringvägen, vicino a Götgatan. Le vecchie abitudini furono riprese, ogni venerdì veniva alla canonica, riceveva biancheria pulita, un vestito lavato e stirato, e cenava con la famiglia. Il suo aspetto era immutato, il corpo era massiccio e rotondo come prima, il volto altrettanto roseo, gli occhi color pervinca e sempre così dolci dietro gli spessi occhiali.  Continuò instancabilmente a sommergere l'Ufficio Brevetti con le sue invenzioni. La domenica cantava i salmi alla chiesa missionaria. La mamma amministrava il suo denaro e gli dava un po' di soldi ogni settimana. Lui la chiamava «sorella Karin» e faceva di tanto in tanto dell'ironia sui suoi goffi tentativi d'imitare la nonna: tu cerchi di essere come la matrigna. Smettila. Tu sei troppo buona. Mammina era dura come il marmo.
Un venerdì arrivò la padrona di casa di Carl. Lei e la mamma parlarono a lungo, a quattr'occhi. La padrona di casa piangeva così forte che la si sentiva attraverso diverse pareti. Dopo qualche ora si congedò, con il volto rosso e gonfio per il pianto. La mamma andò da Lalla, in cucina, si lasciò cadere su una sedia e cominciò a ridere dicendo: zio Carl s'è fidanzato con una donna di trent'anni più giovane di lui. (...)
Era stato assunto come sagrestano alla chiesa di Sofia. Aveva abbandonato l'attività d'inventore: non era che un'illusione, sorellina. La fidanzata aveva passato la trentina, era piccola ed esile, le spalle erano ossute, le gambe lunghe e magre. Aveva denti larghi e bianchi, capelli color del miele raccolti in una crocchia, naso lungo e ben modellato, bocca sottile e mento rotondo. Gli occhi erano scuri ma avevano una luce intensa. Guardava il fidanzato con la tenerezza che dà il possesso, come per distrazione teneva la forte mano appoggiata sul ginocchio di lui. Era insegnante di ginnastica.
La tutela durata tutta una vita avrebbe avuto termine: le idee della matrigna sul mio stato mentale erano solo una delle sue illusioni. Amava il potere, doveva avere qualcuno da dominare. La sorellina non riuscirà mai a essere come la matrigna, per quanto si sforzi. È un'illusione.
La fidanzata osservava la famiglia con gli occhi scuri e luminosi, e taceva.
Qualche mese più tardi il fidanzamento fu rotto. Lo zio Carl fece ritorno alle stanze della Ringvägen e lasciò il posto di sagrestano alla chiesa di Sofia. Alla mamma confidò che non poteva rinunciare a portare a termine le sue invenzioni. La fidanzata aveva cercato di impedirglielo, s'erano messi a gridare ed erano venuti alle mani, Carl aveva sulle guance i segni dei graffi: credevo di poter smettere con le invenzioni. Era un'illusione. La mamma ridiventò tutrice, ogni venerdì zio Carl veniva alla canonica per cambiare vestito e biancheria, e cenava con la famiglia. La sua passione per il pisciarsi addosso aumentò.
Aveva poi un'altra e più rischiosa inclinazione. Quando doveva andare alla Biblioteca Reale o alla Biblioteca Cittadina, dove amava trascorrere le sue giornate, prendeva una scorciatoia percorrendo il tunnel della ferrovia al di sotto del quartiere Söder. Era pur sempre il figlio d'un ingegnere che aveva costruito la ferrovia tra Krylbo e Insjön, il treno gli piaceva. Quando gli passava accanto rombando nel tunnel, lui si appiattiva contro la parete, il tuono lo esaltava, la roccia vibrava, la polvere e il fumo lo inebriavano. Un giorno di primavera lo trovarono crudelmente dilaniato tra i binari. Nei pantaloni portava un involucro di tela cerata con dentro il disegno di un'apparecchiatura che avrebbe facilitato la sostituzione delle lampadine nell'illuminazione stradale.
(Ingmar Bergman, da “Lanterna magica”, pagg. 29-35, Garzanti 1992, traduzione di Fulvio Ferrari)
A questo punto si può anticipare la sorpresa che ci attende nella seconda metà del film: “Vanità e affanni” è un film sulla storia del cinema e sui suoi inizi ancora non ben distinti dal teatro. Cinema muto, perché siamo nel 1922: lo zio Carl era un inventore, e ha dei progetti anche per il cinema.
(continua)

sabato 11 agosto 2012

Vanità e affanni ( III )

Vanità e affanni (Larmar och gör sig till, 1997) Scritto e diretto da Ingmar Bergman. Fotografia di Tony Forsberg, Irene Wiklund, Per Sunding Montaggio di Sylvia Ingemarsson. Musiche di Franz Schubert. Costumi di Mette Möller. Effetti speciali di Lars Söderberg e di Leif Johannson (il treno). Mask makers: Mona Tellström-Berg, Maj-Britt Vifell. Interpreti: Börje Ahlstedt (Carl Åkerblom), Marie Richardson (Pauline Thibault), Erland Josephson (Osvald Vogler), Gunnel Fred (Emma Vogler, moglie di Osvald), Anita Björk (Anna Åkerblom, matrigna di Carl), Anna Björk (Mia Falk, l’attrice bionda), Agneta Ekmanner (il clown Rigmor), Johan Lindell (il dottor Johan Egerman), Gerthi Kulle (Stella, l’infermiera), e Ingmar Bergman, come comparsa (un paziente del manicomio).
Allo spettacolo: Peter Stormare (il proiezionista Petrus Landahl), Birgitta Pettersson (signora Hanna Apelblad); gli spettatori: Pernilla August (Karin Bergman, sorella di Carl), Lena Endre (la giovane maestra elementare Märta Lundberg), Folke Asplund (l’ex cantore Fredrik Blom), Alf Nilsson (Stefan Larsson, capo sovrintendente), Inga Landgré (signora Alma Berglund), Harriet Nordlund (signora Karin Persson), Tord Peterson (Algot Frövik, il signore artritico), Durata: 1h 59’

“Vanità e affanni” comincia con una citazione dal Macbeth, che trascrivo dall’edizione italiana del film:
«La vita non è che un’ombra che cammina... un povero commediante che si pavoneggia e si dimena per un’ora sulla scena e poi non lo si sente mai più. E’ una storia raccontata da un idiota, piena di frastuono e di furore, che non significa nulla. »
(Macbeth di Shakespeare)
Un’altra traduzione:
ATTO QUINTO, SCENA QUINTA
(...)Rientra Seyton.
MACBETH: Perché quelle grida?
SEYTON La regina, mio signore, è morta.
MACBETH Sarebbe pur morta, un giorno o l'altro. Il tempo per quella parola sarebbe pur dovuto venire... domani, e domani e domani. Striscia a piccoli passi, di giorno in giorno, fino all'ultima sillaba del tempo prescritto; e tutti i nostri ieri hanno illuminato a dei pazzi il cammino verso la polverosa morte. Spegniti, spegniti, breve candela! La vita non è che un'ombra in cammino; un povero attore, che s'agita e si pavoneggia per un'ora sul palcoscenico e del quale poi non si sa più nulla. È un racconto narrato da un idiota, pieno di strèpito e di furore, e senza alcun significato. (...)
(William Shakespeare, Macbeth. Traduzione di Gabriele Baldini, ed.BUR-Rizzoli)
L’originale:
Re-enter Seyton.
MACBETH: Wherefore was that cry?
SEYTON: The Queen, my Lord, is dead.
MACBETH: She should have died hereafter:
There would have been a time for such a word.
To-morrow, and to-morrow, and to-morrow,
Creeps in this petty pace from day to day,
To the last syllable of recorded time;
And all our yesterdays have lighted fools
The way to dusty death. Out, out, brief candle!
Life's but a walking shadow; a poor player,
That struts and frets his hour upon the stage,
And then is heard no more: it is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
(William Shakespeare, Macbeth, atto 5 scena V)
La prima immagine del film, dopo i cartelli con la citazione dal Macbeth, è questa: Carl Akerblom, protagonista del film, che da un grammofono fa partire le prime battute da un Lied di Schubert, “Der Leiermann”. E’ un brano cantato, ma noi ascoltiamo solo il pianoforte, le primissime battute, ripetute più volte; ogni volta, Carl torna indietro dall’inizio. In questo film Bergman si prende molte libertà con Schubert, dandone un’immagine al limite del buon gusto e della parodia; però mette alcune tra le sue musiche più belle, come queste prime battute di “Der Leiermann” e, più avanti, il secondo tempo della Sonata in si bemolle maggiore D 960.
Questa è una traduzione italiana del testo di “Der Leiermann”:
L’uomo dell’organetto
Al limite del paese c’è un uomo che suona l’organetto:
con le dita indurite dal freddo fa girare la manovella,
è scalzo e vacilla qua e là sul ghiaccio.
Il piattello rimane sempre vuoto,
nessuno lo ascolta e nessuno lo vede,
i cani gli ringhiano intorno:
indifferente a tutto lui gira la manovella,
non tace mai l’organetto.
Vecchio misterioso, e se venissi via con te?
Accompagneresti i miei canti
col tuo organetto?
(n.24 da Winterreise di Franz Schubert, testi di W. Müller)
Le immagini sono molto belle, ma già questo inizio basterebbe per ammazzare metà (o tre quarti) dei potenziali spettatori. I rimanenti potenziali spettatori verrebbero spazzati via, uccisi definitivamente, dai due dialoghi successivi: quello col dottore e quello con il personaggio interpretato da Erland Josephson. Il terzo personaggio è una donna sordomuta, moglie del visitatore di zio Carl.
Non sono sicuro che “Vanità e affanni” sia un capolavoro, e anzi mi sono trovato molto distante da questo film e da quello che vi succede, facendo fatica a raccapezzarmi; ma è per cose come questa che amo Ingmar Bergman, per la sua libertà. E’ come se Bergman ci dicesse: ho qualcosa da raccontare e la racconto, se non volete ascoltarmi andate pure via, non siete mica obbligati a restare qui. Il rimando inevitabile è a Coleridge, La ballata del vecchio marinaio: un ragazzo si sta recando a una festa ma viene trattenuto dal vecchio marinaio, che ha una storia da raccontare. Suo malgrado, il ragazzo si ferma e ascolta. E’ una storia terribile, piena di fascino ma sconvolgente.
The Mariner, whose eye is bright,
whose beard with age is hoar,
is gone: and now the Wedding-Guest
turned from the bridegroom's door.
He went like one that hath been stunned,
and is of sense forlorn:
a sadder and a wiser man,
he rose the morrow morn.
(Samuel T. Coleridge, finale di “The rime of the ancient mariner”, 1798)
A questo punto, Bergman ci fornisce una data e un luogo precisi: «ottobre 1925 Uppsala ospedale psichiatrico». Uppsala è la città dove è cresciuto Ingmar Bergman; la data non è compatibile con “Fanny e Alexander”, l’altro film dove compare il personaggio di Carl Akerblom, che si svolge a inizio Novecento. Si tratta quindi di una storia diversa.
(continua)