“Di nicchia” e “flop” sono due espressioni dei pubblicitari: al di fuori del linguaggio della pubblicità e del marketing, non hanno molto senso. Di sicuro, non servono per dare un giudizio di valore.
“Nicchia” e “flop” sono due parole ormai di uso comune, le usiamo con una naturalezza che fa supporre che siano sempre esistite. Lo stesso discorso si può fare con “target”, o con “Top Ten”; ma io sono una persona semplice, l’inglese lo conosco poco, ho il diploma di perito chimico e una formazione da analista (analista chimico, non analista finanziario: non esiste solo la finanza, la finanza è molto importante ma questo mondo è molto più vasto della Facoltà di Economia e Commercio). In laboratorio, da chimico, mi hanno insegnato che nelle cose bisogna guardarci dentro, titolare con la massima precisione possibile, mettere tutti gli elementi a disposizione su un tavolo, cercarne di nuovi, spaccare il capello in quattro se è possibile. E infine non dare nulla per scontato, chiedersi anche perché le mele che cadono dall’albero finiscono per terra e non rimangono sospese a mezz’aria. Lo so, per il “sentire comune” si rischia di passare per idioti e oltretutto è noioso: di una noia così noiosa che non finisce più – ma io sono fatto così e ormai è tardi per cambiare.
Vediamo un po’. “Flop” è facile, una di quelle belle parole inglesi come quelle dei fumetti, bang slurp smack, che si capisce subito cosa significano. “Flop” lo fa il sufflé quando non viene bene: dovrebbe gonfiarsi in forno e rimanere di un bell’aspetto gonfio, invece lo tiri fuori e si affloscia, miserando spettacolo. Non resta che mangiarselo da soli, il soufflé che ha fatto flop.
Un flop è qualcosa che al botteghino non ha reso, per esempio un film che è costato molto e che aveva grandi ambizioni ma che ha reso meno di quanto è costato, e che pochi sono andati a vedere pagando il biglietto. “Di nicchia” è qualcosa che è magari bello ma che non fa soldi. La nicchia è lì, in un angolino; magari c’è dentro una Madonna o un altare, ma chi se ne frega. Mica ci si fanno soldi, con le Madonne dentro una nicchia: le Madonne, d’ora in poi, dovranno apparire solo nelle cattedrali (che sono lì apposta) o magari nelle piazze, che c’è tanto di quello spazio e le riprese tv vengono meglio.
“Top ten” sono le prime dieci: le dieci canzoni più vendute, i dieci film che hanno incassato di più. Beh, è un dato importante se sei un produttore; molto meno se sei uno spettatore. Un film lo possono aver visto due miliardi di persone in una settimana, ma se è una ciofeca resta una ciofeca; e un capolavoro possiamo averlo visto in dieci persone, ma se è un capolavoro per davvero, cosa cambia? La finale della Champions League è stata una pena, eppure l’hanno vista in tutto il mondo; la partita della mia squadra al torneo dei bar è stata favolosa, ci siamo divertiti un sacco ma non è venuto nessuno a vederci: e dunque? Il primo bacio con la donna che amavo lo abbiamo visto addirittura soltanto in due, io e lei: ma vi posso assicurare che è stato meraviglioso.
“Target” significa bersaglio. Il bersaglio delle freccette, per intenderci: il pubblicitario, o l’esperto di marketing, fissa il suo target e in quella direzione dirige i suoi sforzi. Una cosa più che giusta, ma che target poteva avere uno come Tarkovskij?
- Lei pensa mai agli spettatori?
- No, come avrei potuto? Cosa rappresentano per me? Devo insegnare loro qualcosa? Ho qualche mezzo per sapere cosa pensa John Smith a Londra o Vasil Ivanov a Mosca? Davvero dovrei essere un ipocrita a dichiarare di conoscere i pensieri, il mondo interiore di un'altra persona. Se voglio creare qualcosa posso farlo solo col mio linguaggio, trattando il pubblico come un partner a pari livello. Se ho qualche problema penso che anche il pubblico lo abbia e cerco di usare il mio film per fare chiarezza per me e per gli spettatori. Non sono né piú intelligente, né piú stupido, la mia dignità è ugualmente vulnerabile. Niente di piú facile che fare un film con lo sguardo rivolto alle tasche degli spettatori, ma non è la mia vocazione...
( Andrej Tarkovskij, intervista con Irena Brezhnà, 1982)
Il grande regista russo poteva permettersi questo atteggiamento, negli anni ’70 e ’80 era ancora possibile: lavoravano tutti, grandi e piccoli, alti e bassi, ognuno con il proprio stile. I produttori famosi badavano al sodo e facevano film commerciali, ma li affidavano a grandi artisti e solidi professionisti (De Sica sr, Comencini, Risi, Monicelli, Mastrocinque, Mattoli) e lasciavano sempre spazio ai grandi matti, a quelli “strani”: Fellini, Antonioni, Rossellini; ed erano ripagati anche in termini di cassetta, perché per i film di quei “matti” c’era molta attesa. In tv e sui giornali c’era altra gente che spiegava, che aiutava a capire, che segnalava film e romanzi difficili ma meritevoli di attenzione.
Il critico cinematografico è una figura estinta, scomparso, come quello di teatro: reso inutile dalla cultura dello spot. Stanno facendo la stessa fine anche i critici letterari: in un mondo di flop, di topten, di nicchie e di target, una persona che ti racconta un film e prova a spiegarti i punti che non hai capito diventa del tutto inutile. Facile immaginarselo: magro, calvo, brutto, storto, non fa sesso da trent’anni, sempre chiuso fra cinema e biblioteca, una piaga mortale. Così viene dipinto chi perde il suo tempo dietro a libroni e filmacci noiosi: alle volte capita, ma non è detto. Come se fossero poi tanto più belli, a proposito, i magnati della finanza e della politica: li avete mai guardati bene, i Ricucci, le Marcegaglia, i Briatore, i Moratti, i Tronchetti, i Montezemolo, i Berlusconi?
Tutto questo, ovviamente ha avuto un inizio, e io so anche chi è stato a cominciare, dando il via libera.
Ho chiesto all'amico e collega Gastone Geron di poter pubblicare una lettera che mi ha appena inviato. Eccola: « Caro Giovanni, nei giorni scorsi mi è pervenuta la disdetta del contratto di collaborazione come critico teatrale del "Giornale", della cui iniziale società di redattori sono stato uno dei soci fondatori. Accenno appena ai cinquant'anni di militanza critica, iniziata nella mia Venezia, e ai ventidue anni di critico drammatico del "Giorno", per richiamare la tua attenzione sui motivi che hanno determinato il provvedimento "punitivo". Nel corso di un colloquio da me sollecitato, il direttore Vittorio Feltri mi ha spiegato di essere giunto a tale decisione ritenendo che i lettori non siano più interessati alle recensioni di teatro, cinema, musica classica, danza. E' per questo che ti segnalo non tanto un caso personale quanto un esempio inquietante del sempre minor spazio - o addirittura del silenzio - imposto alla cosiddetta critica militante su tanta "carta stampata" ormai allineatasi sui criteri puramente d'immagine del mezzo televisivo Il mio caso diventa addirittura emblematico ove si consideri che il "Giornale" appartiene al fratello del proprietario delle tre maggiori reti televisive private. La vicenda può suggerirti qualche riflessione? ». (da un articolo di Giovanni Raboni - Corriere della Sera - domenica 29 dicembre 1996)
Mi sembra che ci sia ben poco da aggiungere a ciò che Geron racconta e ai collegamenti che stabilisce. Forse soltanto questo: che la tendenza a ghettizzare e, in fase di soluzione finale, cancellare tutto quanto non sia etichettabile a priori come "di massa" pone, a ben guardare, un autentico problema politico. Non c'è futuro vivibile in una società dove si disprezzano le minoranze: nella fattispecie, non una minoranza etnica o religiosa, ma quella costituita dalle molte centinaia di migliaia di persone che a dispetto degli ordini superiori si ostinano ad amare il teatro più dei telequiz e la musica da camera più della musica rock o leggera.
Una volta, aspettando che cuocesse il risotto (si sa che è un’arte che richiede tempo e attenzione) ho ascoltato un dialogo da una sitcom tv. La ragazza che un tizio voleva rimorchiare portandola al cinema rispondeva allegramente così (non era una scusa, il suo personaggio lo prevede):
- Oh, sì, bene, però devono essere film iraniani o coreani, in lingua originale con i sottotitoli. Io vado a vedere solo i film iraniani e coreani in lingua originale e con i sottotitoli. Se non sono i film iraniani o coreani in lingua originale e con i sottotitoli non mi interessa.
Errore, caro sceneggiatore da spot: lo ammetto, io sono davvero piccolo, brutto, storto, magro, mingherlino, e non faccio sesso da trent’anni: però non vado mai a vedere i film iraniani e coreani. Adesso ti spiego, prendi nota e prova a capire: io vado a vedere i film di Kim Ki-duk, di Abbas Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf, di Samira Makhmalbaf, di Amir Naderi. Sembra la stessa cosa, ma è diverso.
(10 luglio 2008)
(Nelle immagini, prese in rete tempo fa da siti diversi di cui purtroppo non sono riuscito a ricostruire l'origine, Jerry Lewis and friends)
6 commenti:
come non essere d'accordo?
alla fine poi dici: "non vado mai a vedere i film iraniani e coreani. Adesso ti spiego, prendi nota e prova a capire: io vado a vedere i film di Kim Ki-duk, di Abbas Kiarostami, di Mohsen Makhmalbaf, di Samira Makhmalbaf, di Amir Naderi. Sembra la stessa cosa, ma è diverso."
mutatis mutandis, mi sembra il vecchio giochetto che fanno con gli "altri". Vale con l'immigrazione, se li si chiamasse con un nome, si sapesse che hanno una madre, qualche passione, non sarebbero immigrati, o arabi, ma gente come noi.
La settimana scorsa la CEI (i comunistissimi vescovi italiani) ha diffuso un documento che diceva così: l'Italia di oggi è un Paese senza classe dirigente. Sottolineando: politica, ma anche imprenditori e cultura.
Per rimanere al cinema, l'Italia era il punto di riferimento: quanti Oscar abbiamo vinto con De Sica e Fellini, quanto prestigio (come Paese!) con Antonioni, Scola, Ferreri...Da quando si è imposta questa mentalità della nicchia e del flop, il cinema italiano non conta più niente. Appena arriva uno con delle idee, lo mandavano via o gli mettono i bastoni tra le ruote (del genere: la tv non trasmette i tuoi film, e e se li trasmette è alle due di notte).
Si può tacere dell'industria? Dieci-quindici anni fa si diceva: se non cambiamo le leggi sul lavoro le industrie scapperanno dall'Italia. Oggi, con i Bossi e i Berlusconi, in Italia rimane solo l'Autogrill, perché (disdetta!) è l'unica attività che non si può delocalizzare. (Ultima novità: la banca Unicredit ha Gheddafi come socio di maggioranza)
Devo essere proprio tonta ma non capisco il nesso fra l'articolo e Jerry Lewis and Co.
tutto normale, Ermione! Non c'è difatti nessun nesso, solo che mi piaceva mettere un po' di foto di Jerry Lewis (ci sono anche Harpo e la Callas, hai notato?). Ogni tanto metto qualche post con le mie opinioni, e siccome so di essere pesante cerco di alleggerire...
:-)
E invece non sei per nulla pesante, anzi. Oggi ho un minuto di più di tempo e ho letto volentieri il tuo post, che contiene molti spunti interessanti che andrebbero approfonditi. Ma per gli approfondimenti, ahimè, ci vuole più di un minutino.
Scusa se approfitto del tuo spazio, ma volevo anche lasciare un saluto a Ermione, perché non so come mai non riesco a commentare sul suo spazio nuovo.
Ciao Giuliano!
Ave Paulus! Io ci sono sempre, ogni tanto però mi prendo qualche pausa. Adesso sono on line perché mi stavo appunto occupando di Tito Gobbi, indovina a quale proposito...
:-)
anzi, no:
:-) :-)
(due volte!)
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